“Baci da uomo” mi aveva detto quella sera. E me lo avrebbe ripetuto dopo, altre volte, ricordando i miei baci. Sapendo di farmi arrabbiare. “Che significa?” E dentro lo sapevo bene che cosa significava. Lo stavo divorando di baci. Ne ero affamata. Di lui, di baci, dei baci che lui mi restituiva. Avrei potuto non smettere mai di baciarlo.
Di quando Paolo mi chiamò quella mattina, per confermarmi l’appuntamento, mi ricordo prima di tutto il panico. Cristo, succede davvero! Cioè ci vediamo, ci vediamo io e lui, io e lui dopo che ci siamo rivisti, perché ci va di vederci ancora, perché ci va di vedere… Cosa? Da quanto tempo io e Paolo sapevamo, occhi negli occhi o senza guardarci, cosa ci andava vedere ogni volta che ci incontravamo? Quante volte era andata così e quante volte invece eravamo scappati? E da quanto c’eravamo dimenticati o accantonati, evitati, messi da parte? E ora? Ora che senso avevano tutti quei vestiti sopra il mio letto, le calze, le scarpe, i capelli, il trucco, no, non mi piace, riprovo, questo, ecco, magari, e poi una scusa, mi servirà una scusa, anzi due, due perché dovrò sistemare i ragazzi, ma meglio una sola forse, troppe cose da controllare, da ricordare, e poi dove, dove? No, qui non posso. Da lui? Farò tardi, si farà tardi, lui penserà che farà troppo tardi, il giorno dopo si lavora, e a questo punto posso usare solo un rasoio che la ceretta mi irrita, certo, saperlo un giorno prima magari, e poi, poi mi troverà ingrassata, mi troverà stanca, chissà se si ricorda questa gonna, gli piaceva tanto, meglio un’altra, ed è già tardi e farò tardi, un giorno è troppo poco, un mese, un mese sarebbe poco, che tanto poi alla fine sempre sarebbe un giorno, un giorno pieno delle cose di un giorno e di poco tempo per prepararmi, e finire per fare tardi, e non voglio, io non voglio fare tardi, non voglio farlo aspettare, no, non voglio che scenda, voglio salire da lui, voglio salire in ufficio, voglio guardarlo al lavoro, come una volta, che mi chieda che ne pensi, come una volta, che mi guardi le gambe mentre me lo chiede, come una volta, che mi riconosca subito, che… che cosa sto facendo? Ma è solo un attimo. Un attimo che non c’è tempo per i pensieri. Che c’è un sì. E lui che mi aspetta. E io voglio andarci. Voglio andarci.
La borsa, le chiavi, la macchina. Sono già a pezzi. E ho già rinunciato dieci volte e dieci volte mi sono detta di no, no, non ci rinuncio. Ho messo via tutto alla meno peggio e indossato la faccia di un giorno qualunque; i capelli puliti – ho dovuto lavarli subito che se no diventano una criniera indomabile, troverò il modo di farmi una doccia più tardi senza farli impazzire, impensabile il tempo per il parrucchiere – i capelli legati, leggeri, si vedrà che sono puliti, insomma potrà anche succedere che li avrò lavati in un giorno qualsiasi una volta, che sono impazzita, che ho fatto qualcosa per me stamattina, succede, ma ho la faccia di un giorno qualunque no? e ho ripreso il copione in orario anche, è questo, è questo quello che conta, restare in orario, rispettare il copione, non senza affanno, ma tanto quello c’è sempre, non c’è da pensarci, con o senza i capelli puliti, puliti e legati, legati leggeri. La scuola, i ragazzi, il pranzo, i piatti, le borse, lo sport, no, non le borse, più borse, restate da nonna stasera, niente storie, ho un impegno, lavoro, certo, lavoro, una cena, no, no, una riunione, si, una lunga riunione, che palle, si, si, l’ho detto anche a Giulio, meglio una sola scusa, no, no Giulio che passi? Si farà tardi, sicuro. I ragazzi? I ragazzi non ci sono? Una serata tutta per noi? No, no ecco, i ragazzi li lascio a casa, si, non vogliono andarci da mamma stasera, sì, da soli, ormai sono grandi, ecco, ci mancava anche questa, adesso il telefono cosa ne faccio? Una sera da soli! Come se cambiasse qualcosa! Essì che ne abbiamo avute di sere da soli, con te addormentato sopra il divano di sasso e io, io che va bene, va bene, alla fine va bene, è meglio così. Me ne frega. Del telefono. Dirò che non hanno risposto. La TV, la musica, i compiti. Dormivano, sono crollati. Al diavolo anche il telefono.
La borsa le chiavi la macchina. Le borse, la palestra, mia mamma. Mangia con noi no? No, che mangio con voi? Mi vedi no? Sembro uno zombie, potrò almeno truccarmi per sembrare un essere umano, un essere credibile cui parlare di lavoro, di impegni, progetti e non di sapone, carrelli, cavolfiori e carta igienica, devo passare per casa, lavarmi, cambiarmi, non senti che sono sudata, sì puzzo persino, mi sento una capra, sì esatto una capra, sudo col freddo che fa, e suderò ancora e arriverò sudata anche dopo la doccia, anzi suderò facendomela, perché la farò di corsa. Come sempre, come tutto quello che faccio. No, non resto, non mangio, non c’è solo il cibo. La borsa le chiavi la macchina.
La doccia, i capelli, il trucco. Le calze, i vestiti, le scarpe. La borsa, le chiavi, la macchina. Nello specchietto mi guardo. Ho gli occhi stanchi. Le gambe mi tremano sopra i pedali. E non c’è posto qui sotto, come sempre. Al terzo giro intorno all’isolato guardo il telefono. Adesso lo chiamo, lo chiamo e gli dico che è sorto un problema, che non ce la faccio. Non ce la faccio. E invece chiama Giulio. “Allora hai finito?” “Ma quale finito? Se adesso son scesa!” “No, perché se finisci…” “Giulio ti ho detto che faccio tardi.” A quest’ora quando vieni da me sei già un monoblocco con il mio divano e stasera invece non trovi pace. No, non lo chiamo. Anche per questo, mi spetta. Finalmente c’è un posto e parcheggio. Un minuto. Un minuto per tirare il fiato. Le gambe che tremano. Non devo guardarmi. Gli occhi stanchi, le rughe, la carne. Ti ha visto. Non devo guardarmi. I capelli, il trucco. Ti ha visto. Le calze, le gambe, non devo guardarmi. Mi guarderò in ascensore. Adesso non devo scappare.
Ho bussato. “Salgo.” E non posso tornare indietro. “L’ascensore non va, ma sono solo tre piani.” L’ascensore non va e non c’è uno specchio in questo palazzo o un maledetto vetro pulito, e i capelli, e il trucco e le calze, la gonna, la borsa, le smorfie, le facce, le scale, suderò per le scale, le gambe mi tremano ancora, ho freddo, no, no ho caldo, le scale, ho fumato, e adesso mi manca anche il fiato, le farò piano, non troppo piano, conterà il tempo.
Il tempo.
Quanto tempo che è che non bacio un uomo? E vorrei sprofondare adesso. Le spalle contro il muro. Le scale.
Io ce l’ho un uomo. Quello che mi ha chiamato per dirmi hai finito. Che mi chiamerà ancora tra un poco perché questa riunione gli suona strana, che per questo si inventa la voglia di una sera noi due. Che quando c’è una sera noi due arriva a casa e sviene sopra il divano. Come quando non c’è una sera noi due. Che non dorme con me perché dorme meglio con la TV, che non è abituato. Quello che non mi bacia. Da anni. Da sempre. Perché mica non mi ama. Non ama i baci. Da sempre. E io sono qui in mezzo alle scale a chiedermi se so ancora come si da un bacio. Se ne sono capace. Se saprò baciarlo. Paolo.
Quando ho baciato Paolo erano almeno sei anni che non baciavo un uomo. L’ho baciato ancora, esattamente un anno dopo. La nostra non è mai stata una storia.
Per sentire ancora il sapore di un bacio ho aspettato e rubato le labbra di Claudio. Quasi sei mesi. Era il mio compleanno.
“Baci da uomo” mi hai detto. Tu, sei mesi più tardi. Ricambiandomi i baci. La fame. Avrei voluto non smettere mai di baciarti.