Che poi certa felicità ti piove addosso come una doccia calda a fine giornata, come un temporale d’agosto che l’anima se lo beve e profuma di terra assetata. E’ lì che perdi i confini. Dove l’anima si inchioda alla pelle e si accorge di esistere.
Era così che mi eri arrivato dentro. Senza fare niente. Mentre non c’ero. Mentre ignoravo ancora le mie mani tese piene di fame e carne e le tendevo a porgere parole e vento.
Era così che mi eri rimasto dentro. Quando te ne sei andato. E l’odore del vuoto e dell’assenza erano il tuo odore, il tuo sapore, l’odore della terra umida che sa di respirare.
Nessun dolore. Nessun buio. Nessuna pausa. Nessun silenzio. Un fiume lento di parole e suoni e occhi e risa a scrosciarci addosso, a lavarci via insieme ieri e domani, a incatenarci a un attimo che c’eravamo stati, le mani sulla pancia, le mani tra i capelli, la mia testa sul tuo petto, la tua schiena, i baci. Le mani.
Mi mancavano le tue mani. Ti mancavano i miei baci. E non ci mancavamo mai.
Piove.
Adesso è inverno e quando piove l’odore della terra non è il tuo odore. Non riesco a ricordare cosa sia la sete, cosa sia la fame. Come se quel diluvio inarrestabile e inatteso mi avesse reso una palude. La memoria di una palude. Il tuo odore su questa terra umida del cielo che ha lasciato entrare. Sei qui. Mentre non ci sei. Non mi tieni la mano mentre leggo. Mi tieni le mani tra i capelli. E non riesci a farmi male, neanche quando vorrei tornare a tenderle le mani e stringerti.
Vorrei avere paura. Vorrei avere la paura e l’ansia che mi hanno a un tratto fermato il mondo mentre tutta quell’acqua ci reinventava il tempo. Vorrei avere paura adesso e provare ad asciugarmi. Contare i giorni. Costruire il tempo. Ieri, domani. Ma fuori piove.
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Piove e tra poco è giorno. Piove ed è già sabato. Piove e c’è un altro giorno di un altro inverno, di un altro anno, di un altro tempo nel quale non smetto di esistere.
Rimetto in ordine, faccio i piatti, ripiego i panni asciugati in casa che non avranno l’odore del sole. Tra poco è giorno e farò il caffè. A volte ho sonno. A volte ho sonno e riesco a dormire. A dormire senza crollare. Ed è una conquista. Perché allora dormo davvero. E anche se ti trovo seduto sul divano quando mi sveglio non metto il broncio perché non hai dormito con me. Mi viene da ridere. Di quelle risate piene che ci facevamo insieme con il mondo in mezzo che si sentiva soffocare, schiacciare tanto eravamo vicini. Non ti bacio però. Non baciarti perché non ci sei mi fa male.
Il dolore. Nessun dolore e poi l’inferno. E l’acqua che si è fatta grandine e ghiaccio. E il vuoto e l’assenza con il tuo odore si sono fatti silenzio e il silenzio odorava di pioggia e la terra odorava di te. E di maledetta gioia. Che mi bruciava dentro più del gelo del silenzio. Che ha rotto il ghiaccio che si è formato ancora, e ancora e ancora.
E sopra, la gioia dentro.
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Si è spenta la caldaia mentre stavo sotto la doccia. Odio quando succede. Odio dover uscire grondante d’acqua in veranda a manovrare stupide manopole. Fa un freddo cane.
Mentre aspetto che l’acqua torni calda torno a spogliarmi. Lo specchio appannato dal vapore non fa a tempo a restituirmi gli occhi, i tuoi nei miei. Così la goccia d’acqua che mi cade sulla spalla non fa a tempo ad entrarmi dentro e scivola giù. Lenta, lentissima. Tra le scapole, sul fianco, giù, lungo la gamba fino alla caviglia. Fino a terra. Sul pavimento freddo. Che non è terra. Che non ha sete. Sull’altra spalla la tua mano adesso. Non smettere di toccarmi. Tra le scapole, sul fianco, giù, lungo la gamba, fino alla caviglia. La goccia a terra non ha il tuo odore. Devi lasciarmi andare. Devo lasciarmi andare. Ma non ho sete. E fuori piove ancora.