Si direbbe che qualcosa comincia a muoversi nelle menti intorpidite dei sapienti dell’Antimafia, ridotti allo stremo da una pervicace, lunghissima contemplazione dei dogmi e delle icone di quella che Vitiello, con intuizione insuperabile, definisce “mafia devozionale”.
Persino Rosy Bindi pare che abbia avuto la folgorazione del dubbio che “una certa” antimafia copra e comprenda qualcosa di poco pulito.
Ora a dubitare dell’immacolatezza dell’antimafia c’è persino una figura a mezzo tra l’icona e la beghina di quella sorta di “Ordine Supremo” della “devozionalità” antimafia che è la Borsellino.
A svelare a certe menti la possibilità (o la necessità) del dubbio è stato il clamoroso episodio dell’arresto di Helg, il presidente della Camera di Commercio (per definizione antimafiosa) di Palermo.
Paradossalmente un episodio che si allontana notevolmente dai binari della corruzione antimafiosa come da quella mafiosa, rientrando piuttosto in schemi primitivi di una voracità corrotta e corruttiva del potere, oramai perfezionati e superati dall’evoluzione della criminalità dei nostri tempi.
Credo che per capire il sistema di corruttela realmente istituito da anni di antimafia con la sua copertura di insospettabilità, derivazione del carattere vitellianamente definibile “devozionale”, bisogna rifarsi ad un concetto ed un mito, che era di moda anni fa: quello del “terzo livello”.
Gli antimafiosi ortodossi ed integrali, infatti, professavano quale articolo di fede l’esistenza di un “terzo livello” della mafia.
Il “terzo livello” era una dietrologia “inderogabile”, appunto per gli integralisti dell’antimafia. E come tale era un concetto alquanto confuso. Ma, in sostanza (si fa per dire) esso sarebbe stato costituito da quella parte della mafia che non era la mafia, ma che, ad essa esterna, “manovrava” la mafia, ne determinava gli indirizzi essenziali e, soprattutto, ne condivideva, magari facendovi la parte del leone, i profitti, soprattutto quelli meno diretti e “visibili”.
Il fatto che di questo livello non se ne trovasse traccia era, per i mafiologhi “di punta”, la prova più evidente dell’esistenza del “mistero supremo” della mafia. Avrebbe dovuto, secondo intermittenti accenni alla sua essenza cui ogni tanto si abbandonava qualche mafiologo più ingenuo, da un assieme di politici e di finanzieri un po’ italiani (nemmeno necessariamente siciliani), un po’ americani (manco italo-americani) con un pizzico di legami e coperture della C.I.A. etc. etc.
A ben vedere questo “terzo livello” era speculare ed opposto al “concorso esterno in associazione mafiosa”, qualifica inventata per un reato di fantasia, creato dal ramo giudiziario-militante dell’antimafia. Reato consistente nel collaborare occasionalmente al raggiungimento dei fini ed alla soddisfazione delle esigenze di Cosa Nostra. Essendone, quindi, più dipendenti o prestatori d’opera che soci.
Il “terzo livello”, capovolgeva il rapporto, facendo della mafia, di Cosa Nostra, uno strumento di questa entità così evanescente, capace tuttavia di strumentalizzare e “guidare” Cosa Nostra.
Per un certo periodo vi furono sostenitori e “negazionisti” (come direbbe ora Crocetta) del “terzo livello” con il tentativo di demonizzazione e di accusa di connivenza verso questi ultimi.
Falcone pare che negasse l’esistenza del “terzo livello” e ciò valse a renderlo ancor più sospetto ed inviso a molti suoi colleghi (ed ai loro cortigiani) finché fu in vita. Ma, assassinato e divenuto per tutti (soprattutto per i suoi detrattori) Giovanni, “il mio carissimo amico Giovanni”, anche il “negazionismo” del “terzo livello” venne in qualche modo riabilitato.
Bisogna dire che l’estensione che si fece dell’abusiva contestazione di “concorso esterno” contribuì a sopraffare la teoria del “terzo livello”, arrivando ad investire molti personaggi che “necessariamente” qualora esso fosse esistito “non potessero non appartenere al terzo livello”.
Anche la tragicomica storia della “trattativa Stato-Mafia”, in fondo contraddice la teoria del “terzo livello”.
Ora, soprattutto per merito di qualche coraggioso (e perseguitato) e, per questo, poco appariscente personaggio siciliano, è in questi ultimi anni, venuta emergendo l’esistenza di una “antimafia degli affari”, quella che oggi comincia, come dicevamo all’inizio, ad essere avvertita da personaggi aventi addirittura ruoli istituzionali o iconografici della “lotta alla mafia”.
Cosa dunque è avvenuto in Sicilia?
Abbiamo già parlato, e non da ieri, dell’evoluzione di una certa antimafia da “professionale” (come la definì Leonardo Sciascia), in “imprenditoriale”.
Dopo il “giudice antimafia”, il capetto politico-ecologistico “antimafia”, sono venuti gli “imprenditori antimafia” e tra di essi, i più “affidabili”, “attendibili”, si direbbe, sono gli “imprenditori pentiti antimafia”. Quelli cioè che, in passato, non avendo ancora visto la luce della “legalità”, si erano lasciati sottomettere al pagamento del “pizzo”. Ma, poi, vista la luce, hanno detto “basta!” e sono divenuti gli antimafiosi più rigorosi (specie con i loro concorrenti attuali e potenziali).
Di qualcuno di essi c’è il sospetto che abbia inventato la subìta estorsione (mandando, magari, in galera un innocente) per meglio poi evidenziarsi come “pentito”, quindi, “attendibile”.
Voci. Ma qualcosa più delle voci c’è, ad esempio, per quel che riguarda un esemplare di questa categoria. Di lui un Maresciallo dei Carabinieri aveva fatto un quadro allarmante, tale che in altri casi ne sarebbe venuto fuori un processo per mafia o, almeno, una “misura di prevenzione”. “Sì ma ora si è redento…”. E’ stata la lapidaria risposta del togato.
Illibati o redenti, uno bello stuolo di imprenditori “antipizzo” ed “antimafia” domina oramai l’economia della Sicilia. Il grasso pascolo delle concessioni regionali, comunali, statali è “cosa loro”. Gli “altri” sono “in odore di mafia” e fanno meglio a tenersi alla larga.
L’acqua, i rifiuti urbani, la formazione professionale, e, magari, le Camere di Commercio e Sicindustria sono “cosa loro”. Eccolo finalmente, concreto, reale e visibile il “terzo livello” che usa strumentalmente della mafia per giustificare un’antimafia, che è “cosa loro”, con quel che ciò comporta in fatto di abbattimento di concorrenza e di ogni regola del diritto.
Quello di Helg è, dicevamo, un fuor d’opera, una forma antiquata e rozza di approfittamento. Gli industriali antimafia non sono privi di “vantaggi” (per così dire) oltre quello di un sostanziale e ringhioso monopolio senza ricorrere a tradizionali estorsioni.
Qualcuno di loro, e nemmeno da ieri, tanto è “vecchio” il sistema, ha, a forza di “emergenze”, potuto mettere su la sua stessa impresa a spese della Regione (cioè dei contribuenti).
Rosy Bindi, sempre più bella che intelligente, è arrivata tuttavia a capire che c’è del marcio. Ma in Danimarca. Perché in Sicilia, o, almeno, in Sicindustria, secondo lei c’è sempre e solo un’antimafia ammirevolmente pura. Rosy Bindi non era della corrente di Andreotti. Ma l’aforisma dello Statista la riguarda. A rovescio…In certi casi a pensar bene…
Mauro Mellini
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