
Il 23 dicembre di quarantuno anni fa, avveniva la strage del Rapido 904.
La strage del Rapido 904 non può essere archiviata come un semplice episodio di cronaca nera, ma va letta per quello che è, il simbolo di una stagione in cui la democrazia italiana è stata assediata da un nemico multiforme. Quell’esplosione del 23 dicembre 1984 nella galleria di San Benedetto Val di Sambro fu il punto di saldatura tra Cosa Nostra, l’estremismo di destra e apparati deviati dello Stato, rivelando un intreccio perverso che ha condizionato la storia del Paese.
Quello che oggi in ambito politico, ma anche giornalistico, non si vuole ammettere.
L’analisi dei fatti giudiziari evidenzia come la figura di Pippo Calò, il cassiere della mafia, sia stata l’anello di congiunzione tra i vertici siciliani, la Banda della Magliana e la massoneria deviata della P2, ma a questo sistema integrato si univa l’eversione nera, con esponenti del Movimento Sociale Italiano come Massimo Abbatangelo, accusato di aver fornito l’esplosivo, e la manovalanza operativa della Camorra del clan Misso. Si trattava di una strategia dove l’estrema destra offriva competenze ideologiche e logistiche a una mafia che necessitava di alzare il tiro per rispondere a quello Stato che non soltanto non dava più garanzie, ma grazie a giudici come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino aveva dichiarato guerra a Cosa Nostra.
Questo mostro a tre teste ha potuto agire solo grazie alla complicità di settori dello Stato. Le indagini della DDA di Firenze e la Relazione Pellegrino descrivono una zona grigia in cui i servizi segreti hanno operato per deviare le indagini e proteggere i colpevoli, segnando il passaggio dalla strategia della tensione degli anni ’70 alle stragi mafiose degli anni ’90. In entrambi i contesti, il filo rosso è rappresentato da figure come Carlo Digilio o l’artificiere neofascista Pietro Rampulla, soggetti capaci di muoversi tra Ordine Nuovo, servizi segreti e criminalità organizzata.

Vogliamo veramente credere – o far credere – che fu Giovanni Brusca ad attivare la carica esplosiva a Capaci, con il suo telecomando? Sotto il profilo tecnico, emerge un’analogia inquietante tra l’attentato al Rapido 904 e la strage di Capaci. In entrambi i casi, la tecnologia utilizzata non era di comune criminalità, ma sofisticata tecnica militare. Per il Rapido 904, le perizie hanno stabilito che un telecomando esterno non avrebbe potuto attivare l’ordigno a causa della schermatura della montagna. La soluzione fu quasi certamente un impulso di prossimità, una ipotesi della quale ebbi modo di parlare con il compianto Generale Fernando Termentini, della cui amicizia mi onorò, che era uno dei massimi esperti in materia di esplosivi e proprio sulla strage di Capaci depositò una sua relazione.
Nel caso del Rapido 904, il problema principale era la schermatura della galleria. Una detonazione via radio tradizionale dall’esterno verso l’interno era fisicamente impossibile a causa degli otto chilometri di roccia e della profondità del tunnel di San Benedetto Val di Sambro. Per ovviare a questo, fu utilizzato un sistema basato su un impulso di prossimità o un ripetitore locale.
L’ipotesi tecnica più solida indica che l’ordigno non aspettava un segnale generico, ma era tarato su una frequenza specifica emessa da un dispositivo “faro”, ovvero un transponder, pre-posizionato all’interno della galleria. Quando il ricevitore a bordo del treno entrava nel raggio d’azione del trasmettitore fisso, il circuito si chiudeva attivando l’esplosione. Questo garantiva che il treno saltasse esattamente nel punto critico per massimizzare l’effetto distruttivo, senza margine d’errore.
Friedrich Schaudinn, accusato di aver progettato il congegno collocato su una griglia portabagagli mentre il treno era fermo alla stazione di Firenze, fu condannato a 22 anni, Arrestato dopo le indagini sulla strage, prima che si aprisse il processo di primo grado riuscì a fuggire dai domiciliari, dichiarando nel 1993 – durante una trasmissione condotta da Michele Santoro – di essere stato aiutato dai servizi segreti italiani, riuscendo poi a espatriare in Germania, da dove non fu mai estradato.
L’artificiere non utilizzò semplici telecomandi da modellismo, ma ne modificò la circuiteria per renderli resistenti alle interferenze elettromagnetiche tipiche delle linee ferroviarie ad alta tensione, trasformandoli in veri e propri inneschi militari.

Questa tecnologia del radiocomando ad alta precisione, fornita dal tecnico tedesco Friedrich Schaudinn, divenne la firma di una nuova capacità stragista, la stessa impronta che ritroviamo a Capaci, dove Pietro Rampulla, militante di Ordine Nuovo e artificiere di fiducia dei Corleonesi, confezionò il sistema di ricezione radio per i 500 chili di tritolo. Anche a Capaci l’attivazione seguì logiche militari di precisione, sebbene la vulgata – oggi più che mai – voglia che l’impulso finale fu dato da Giovanni Brusca.
A Capaci la sfida era diversa rispetto l’attentato al Rapido 904, poiché bisognava colpire un bersaglio in movimento, e Pietro Rampulla, l’artificiere nero legato a Ordine Nuovo, confezionò un sistema radio che gestiva la stabilità del segnale tramite un ricevitore accoppiato a un detonatore elettrico.
L’analogia più forte con le tecniche degli apparati di sicurezza risiede nella gestione del tempo di reazione. Nelle operazioni di sabotaggio militare si utilizzano piani di ritardo, chimici o elettronici, per garantire che l’effetto dell’onda d’urto sia massimizzato rispetto alla posizione del bersaglio. A Capaci il ritardo tra il comando visivo e lo scoppio effettivo doveva essere calcolato al millisecondo per compensare la velocità delle auto.
L’errore metodologico è già palese nella preparazione della strage di Capaci, e risiede nel calcolo della velocità imposto durante le prove basandosi su supposizioni circa le abitudini delle scorte, chiedendo a Di Matteo di sfrecciare tra i 160 e i 170 km/h, convinti che quella sarebbe stata la velocità costante del corteo di Falcone, mentre invece risulta che l’auto di Falcone andasse a una velocità inferiore a 130 Km/h.
Per garantire la precisione millimetrica necessaria a far esplodere la carica esattamente sotto l’auto – così come dichiarato successivamente al pentimento -, Brusca e i complici utilizzarono un metodo di osservazione empirica e visiva, posizionandosi su un casolare sopraelevato che dominava l’autostrada, e dopo aver sostituito l’esplosivo con un ricevitore collegato a lampadine flash a quattro facce, Di Matteo passava ripetutamente con un’auto potente; quando l’auto transitava sopra il punto dell’esplosivo, Brusca premeva il telecomando. Se il flash della lampadina scattava nel momento esatto del passaggio, il test era considerato valido. Attraverso queste prove, Brusca doveva sincronizzare il suo tempo di reazione umano e il ritardo tecnico del segnale radio con il movimento dell’auto. Una volta individuato visivamente il momento perfetto, vennero stabiliti dei punti di riferimento fisici sul terreno per indicare a Brusca l’istante esatto in cui azionare la levetta il giorno dell’attentato.
Una scena che ha dell’incredibile.
Secondo il Generale Termentini – non un quisque de populo e neppure uno dei tanti esperti di Facebook o di giornalismo investigativo condotto su veline – o nella migliore delle ipotesi su qualche sentenza, non tutte ovviamente – il piano prevedeva l’uso di piani di ritardo tipici degli ambiti operativi professionali, garantendo che l’esplosione colpisse il bersaglio con millimetrica certezza.
La relazione di Termentini sollevò dubbi tecnici molto profondi sulla dinamica dell’attentato, spesso entrando in contrasto con la narrazione semplicistica basata esclusivamente sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.
Termentini mise in discussione l’idea che un uomo, appostato a centinaia di metri di distanza, potesse garantire la precisione millimetrica dell’esplosione basandosi solo su riferimenti visivi e prove empiriche fatte con i flash. Secondo il Generale, a 160 km/h un’auto percorre circa 44 metri al secondo, e un ritardo o un anticipo nella pressione del tasto di soli 0,2 secondi (un battito di ciglia) avrebbe significato mancare il bersaglio di quasi 10 metri.

Termentini – che analizzò anche la composizione del cratere e la potenza del materiale utilizzato – evidenziò inoltre come fosse tecnicamente improbabile che le tre auto del corteo mantenessero una velocità così costante e una distanza così precisa da permettere un’attivazione manuale perfetta. Nella sua visione, il sistema del telecomando azionato a vista era un metodo estremamente rischioso per gli attentatori, poiché il margine di errore era altissimo.
Per Termentini, la strage di Capaci fu un’operazione di alta ingegneria militare, difficile da attribuire esclusivamente a soggetti con competenze rudimentali. La sua relazione suggeriva che l’esecuzione materiale nascondesse una perizia tecnica (nella gestione delle onde d’urto e dei tempi di brillamento) superiore a quella dichiarata dai manovali di Cosa Nostra.
Lo stesso forfait di Rampulla il giorno della strage di Capaci è stato interpretato come una mossa per proteggere i legami tra mafia e apparati deviati. La sua assenza fisica, infatti, evitava che il legame tra l’eversione nera e i servizi segreti diventasse immediatamente evidente qualora fosse stato catturato, alimentando ulteriormente che informazioni riservate fossero fornite da chi monitorava gli spostamenti del giudice Falcone, e confermando che la sovranità italiana è stata a lungo manipolata da un disegno strategico superiore, in cui le bombe erano solo lo strumento di un potere invisibile.
L’uso del radiocomando – non quello azionato da Brusca – rappresenta comunque il passaggio a uno stragismo chirurgico che permetteva un controllo totale, annullando l’imprevisto e garantendo la sicurezza dell’esecutore, che poteva trovarsi a distanza. Sia per il Rapido 904 che per Capaci, non fu usato esplosivo civile, ma miscele potenziate che richiedevano inneschi ad alta energia, compatibili solo con i circuiti elettronici, forniti da esperti, che affondavano le radici nei manuali militari di sabotaggio, conosciuti dall’eversione nera e dai servizi segreti.
Ma tutto questo, tranne che non si voglia passare per complottisti, non dobbiamo dirlo.

Nel prossimo articolo il mio incontro con Georges Starckmann, un trafficante d’armi, miliardario, agente segreto, avventuriero. Ora a servizio della Francia, ora a servizio della potenza di guerra americana; dal FLN all’Iraq, passando per i conflitti in Biafra e Costa d’Avorio, fino allo scandaloso caso Startron. L’amico personale di George Bush che mi raccontò, con nostalgia, quelli che lui definiva i begli anni della P2.
“Non sono le armi a scatenare le guerre, ma la retorica politica” – diceva Georges Starckmann; e non solo le guerre aggiungo io.
Qualcuno si meraviglierà, ma le storie si conoscono e si raccontano anche tramite la conoscenza con uomini che quelle storie le hanno fatte, siano essi trafficanti d’armi, agenti segreti o terroristi, non limitandosi alle sole veline passate da chi ne ha interesse.
Gian J. Morici