
Stragi, delitti eccellenti, processi, audizioni in Commissione antimafia, sembrano un gioco al nascondino cinese nel quale un bambino estratto a sorte si deve nascondere mentre gli altri vanno alla sua ricerca, fin quando, man mano che qualcuno lo trova, va a nascondersi con lui.
Che Giovanni Falcone ritenesse che dietro i delitti eccellenti commessi in Sicilia non ci fosse soltanto la mafia, è un dato certo, così come lo è che indagasse su Gladio e che venne osteggiato nella conduzione delle indagini.
Ha fatto notizia l’archiviazione a Caltanissetta della cosiddetta “Pista nera”, l’indagine condotta in merito al presunto ruolo di Stefano Delle Chiaie nella strage di Capaci, scaturita dalle dichiarazioni dell’ex brigadiere dei carabinieri Walter Giustini, che sosteneva di aver saputo dell’estremista di destra dal mafioso Alberto Lo Cicero, e Maria Romeo, l’allora compagna di Lo Cicero, la quale aveva testimoniato di aver saputo da lui di incontri fra Delle Chiaie e il boss Mariano Tullio Troia, nella primavera del 1992. Dichiarazioni che non hanno trovato alcun riscontro e che hanno portato i due testi sul banco degli imputati, con accuse a vario titolo di depistaggio, calunnia e falsa testimonianza ai pm.
Una notizia enfatizzata da quanti vorrebbero attribuire solo a “Cosa nostra” stragi e delitti eccellenti, riportando l’archiviazione in merito alle testimonianze del Giustini e della Romeo come se si fosse trattato di una più generica archiviazione di ogni altra ipotesi investigativa che non fosse il dossier mafia-appalti l’unica causa che portò alle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Un’esaltazione della notizia prontamente smorzata dal Procuratore di Caltanissetta, Salvatore De Luca, che nel corso di un’intervista esclusiva a Maria Grazia Mazzola per TV7, oltre a parlare per la prima volta dei “concorrenti esterni” alle stragi di mafia del 1992, ha puntualizzato che “allo stato la Procura di Caltanissetta non ha chiuso alcuna pista. Purtroppo dopo 33 anni, tutto diventa più difficile, ma il nostro obiettivo minimo è quello di dire: abbiamo fatto tutto quello che era possibile fare e poi tirare le somme in un senso in un altro”.
Un’intervista alla quale ha fatto seguito quella rilasciata dall’ex colonnello dei Ros, Giuseppe De Donno, che alla domanda in merito alla “pista nera” ha risposto:
“Certo. Si continua a raccontare che ci sarebbe la Cia, il servizio segreto americano, dietro tutte le stragi. La Cia condizionerebbe i nostri servizi segreti che non sono autonomi ma controllati dagli Stati Uniti. È un racconto che coinvolge il sequestro di Aldo Moro, le bombe del 1992, quelle del 1993, la trattativa Stato-mafia e, per venire ai giorni nostri, il rapimento di Abu Omar, l’ex imam di Milano. Peccato che non è stata trovata in tutti questi anni mezza prova, dico mezza, circa il coinvolgimento della Cia e quindi dei servizi segreti deviati, della massoneria, e dell’eversione di destra dietro le stragi”.
Una narrativa che talvolta ha trovato riscontro, come nel caso del rapimento di Abu Omar, che vide coinvolti uomini appartenenti ai servizi di sicurezza italiani e altri della Cia.
L’intervista rilasciata da De Donno stride in maniera palese con le dichiarazioni dello stesso nel corso dell’audizione in Commissione antimafia il 13 maggio.
In quella circostanza, l’ex colonnello dei Ros dichiarò che pur essendo convinto che non esisteva un terzo livello sovraordinato gerarchicamente a “Cosa nostra”, “esistono però una serie di convergenze di interessi, esistono una serie di situazioni, tra cui gli appalti pubblici, in cui difendendo le attività di uno, automaticamente si difendono gli interessi degli altri, perché il sistema è interconnesso tra “cosa nostra”, imprenditoria e politica. In varie affermazioni Ciancimino sosteneva esattamente che secondo lui dietro alcuni omicidi eccellenti, dove probabilmente dietro qualcuno c’era anche lui stesso, esistevano decisioni prese altrove dalla Sicilia, e che per una serie di convenienze venivano fatte eseguire poi a Palermo e quindi diventavano delitti di mafia. Tutto questo è quello che poi nel libro noi un po’ lamentiamo, cioè il fatto che questa ipotesi investigativa non fu adeguatamente sviluppata e investigata e rimane quindi a tutt’oggi qualcosa di non dimostrato”.
Indagini, dunque, non adeguatamente sviluppate all’epoca – rispetto le quali il giornalista Paolo Comi non ha posto alcuna domanda – e che a distanza di oltre 30 anni difficilmente possono trovare riscontri, salvo pochi casi, come per la strage di Bologna, nei quali la matrice eversiva ha trovato riscontro negli esiti giudiziari.
Se nella fase ideativa ed esecutiva della strage di Capaci non ha trovato riscontro il coinvolgimento di soggetti collegati ad ambienti della destra eversiva tra cui il noto Stefano Delle Chiaie, a differenza di quanti vorrebbero escludere dai “misteri italiani” il coinvolgimento di appartenenti ai nostri apparati di sicurezza i riscontri sono più volte emersi, tanto da portare a sentenze definitive.
Che l’operato dei nostri servizi di sicurezza sia stato coperto da ombre e abbia fatto rilevare un pericoloso connubio con frange eversive e successive operazioni di depistaggio, lo si evince chiaramente dal pronunciamento della Corte di Cassazione del 13 novembre 1995, rispetto la dinamica della manovra depistante attuata dagli allora organi apicali del SISMI (e di soggetti esterni ad esso collegati) che interessò le indagini sull’attentato alla stazione ferroviaria di Bologna, del 2 agosto 1980, con riferimento al 13 gennaio 1981, quando in uno scompartimento di seconda classe del treno Espresso 514 Taranto-Milano fu scoperta una valigia che conteneva otto lattine piene di esplosivo, lo stesso esplosivo che fece esplodere la stazione, un mitra MAB, un fucile automatico da caccia, due biglietti aerei Milano-Monaco e Milano-Parigi.
Una vicenda quanto mai complessa definita “la manifestazione più clamorosa di una programmata azione di depistaggio, opportunamente predisposta ed inserita in una complessa strategia, già attuata, in forma subdola, prima ancora che quella valigia venisse collocata sul treno. Pertanto, l’episodio del 13 gennaio 1981 non può essere dissociato dalla complessa condotta rispetto alla quale rappresentò l’epilogo, se non a costo di infrangere la stessa verità organica dell’oggetto del giudizio già concluso”, che aveva già portato alla condanna definitiva di due ufficiali del Sismi, ai quali l’iniziativa non poteva essere riconducibile nell’alveo di una loro personale ed estemporanea iniziativa non foss’altro perché essa aveva avuto l’autorevole avallo del defunto generale Santovito, che, in quel periodo, dirigeva il servizio di sicurezza militare.
Al programma delittuoso, avevano partecipato i quattro imputati, ricorrenti in Cassazione, tra i quali Licio Gelli.
Un programma delittuoso che aveva la sua direzione gerarchica al più alto grado di responsabilità del servizio segreto militare, rispetto il quale i giudici di Roma si espressero in termini lapidari:
“La diacronica ricostruzione dei fatti, basata su prove documentali e testimoniali e sulle dichiarazioni degli stessi imputati fa emergere una macchinazione sconvolgente che ha obiettivamente depistato le indagini sulla strage di Bologna.
Se i tre punti sopra enucleati appaiono chiari, inequivocabili e insuperabili sulla base dell’esame del giudicato, non altrettanto si può dire in ordine al cui prodest di questa “complessa strategia” depistatoria”.
A illustrare lo strano connubio tra apparati di sicurezza italiani e non, ai massimi livelli, forze eversive e giornalismo, il “dossier Mitrokhin” e l’attività d’intelligence italiana, dell’attentato del 2 agosto 1980, di Lorenzo Matassa Gian Paolo Pelizzaro, del 10 febbraio 2006.
Un documento che approfondisce, nel contesto del terrorismo internazionale, aspetti delle dinamiche storico-politiche e delittuose connesse alla strage consumatasi nella stazione ferroviaria di Bologna la mattina del 2 agosto 1980, lungi dall’essere una reinterpretazione dei fatti così come ormai consolidati nelle pronunce giudiziarie o una rimeditazione degli stessi da una diversa visuale, costituisce strumento di completamento delle ricostruzioni già consegnate dai giudici nelle varie sentenze, con l’obiettivo, soprattutto, di risolvere – alla luce delle nuove acquisizioni probatorie promosse grazie al lavoro della Commissione – molti dei dubbi e degli interrogativi consolidatisi nei giudicati.
Partendo dagli atti, in quel lontano febbraio 2006, gli autori non potevano non porsi domande, molte ancora inevase, e fare le dovute considerazioni:
“Sul gruppo Separat e il contesto dell’attentato del 2 agosto 1980 l fine di provare a comprendere Se al momento in cui il depistaggio prese corpo vi erano già in stato di custodia cautelare decine di soggetti gravitanti nell’area della destra radicale e l’azione depistante mirava a condurre gli inquirenti proprio in quella direzione, in quale modo quella “complessa strategia” poteva rappresentare una vera azione depistante?
In altre parole, che depistaggio era quello ideato nei confronti di un’indagine che già marciava spedita nella direzione segnalata dai depistatori?
Né si può assumere come chiarificatrice l’affermazione resa in alcune parti delle sentenze in cui si attribuisce l’atto ideativo del depistaggio a forze oscure e segrete (come la loggia massonica P2) perché, senza entrare nel merito della valenza del dato probatorio, così facendo si confonde la causa con l’effetto.
È evidente infatti che, seppure l’affiliazione massonica guidava le scelte dei capi dei servizi segreti e delle persone ad essi collegate, questa premessa non era (e non è, ancora oggi) da sola esaustiva a chiarire il perché questi organi deviati avessero deciso di coprire la verità.
Ebbene, quale verità doveva essere coperta?
Quale ragione di Stato si cela dietro queste vicende?
Queste domande sono, in apparenza, ancora senza risposta.
Se poi si considera che sulla vicenda, da più parti, si denuncia da anni l’esistenza di un non meglio specificato segreto di Stato , come si rileva fra l’altro dallo stesso sito Internet dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna e da altre fonti aperte riferibili a dichiarazioni di esponenti politici in manifestazioni pubbliche, si comprenderà l’importanza della valutazione di questa comunis opinio rispetto al panorama dei fatti, delle circostanze e delle deviazioni connesse all’attentato del 2 agosto 1980.
Ebbene, quale segreto di Stato è collegato alla vicenda di Bologna se nessun segreto di Stato, formalmente, è mai stato opposto?”
Prescindendo dalle considerazioni degli autori e dalle responsabilità individuali dei protagonisti, il dato che emerge è l’operato dei massimi vertici dei servizi di sicurezza italiani e non – in intrighi e interessi che varcano i confini nazionali -, nelle storie più torbide e drammatiche che ha vissuto il nostro Paese.
Gian J. Morici