di Salvatore Nocera Bracco
Fonte: stradadegliscrittori.com
Anche io, in fondo, devo molto a Leonardo Sciascia. Devo a lui la scoperta di Ibn Hamdis al Siqilli, il poeta arabo-siciliano del XII secolo, per il quale nutriva ammirazione e che ha citato ne La corda pazza. Ibn Hamdis, il poeta della nostalgia per eccellenza, a cui ho letteralmente rubato un verso: L’anima mia s’è offerta al sogno, grido di un’amante sconosciuta, verso per me travolgente, vero e proprio incipit di un itinerario musicale che mi ha fatto intitolare una raccolta di canzoni: Di un’amante sconosciuta. In fondo il rapporto che aveva Sciascia – che ho io – con questa nostra Sicilia sicana, così cupa e solare, aperta e retriva, generosa e circospetta, amante e sconosciuta. E la riflessione che segue è molto sciasciana, anche perché si genera a partire proprio da un saggio di Leonardo Sciascia. In sua memoria futura.
“Ed è curioso come giudizi sui siciliani e rappresentazioni dell’uomo siciliano conservino, a distanza di cinque o di dieci o di venti secoli, una loro validità e verità: da Cicerone (“gente acuta e sospettosa, nata per le controversie”) a Scipio Di Castro (“la lor natura è composta di due estremi, perché sono sommamente timidi, sommamente temerari”), a Giovanni Maria Cecchi (“altieri, e dove non è differenza grande di titolo, non si cedono l’uno all’altro; ardenti amici e pessimi inimici, subbietti ad odiarsi, invidiosi e di lingua velenosa, di intelletto secco, atti ad apprendere con facilità varie cose; e in ciascuna loro operazione usano astuzia”); da Argisto Giuffredi, palermitano, autore di un malnoto libro di Avvenimenti cristiani da cui vien fuori, nel secolo XVI, quello che possiamo dire l’uomo verghiano, a Giovanni Verga, appunto; da Antonello personaggio e pittore di personaggi, a Pirandello a Brancati a Lampedusa. E anzi l’esplicito astoricismo di Lampedusa, il suo prendere e lasciare l’uomo siciliano per come sempre è stato e per come sempre sarà, nasce proprio dall’apparenza e illusione di una inalterata e inalterabile continuità del “modo di essere siciliano”. Perché altro non può essere che apparenza, che illusione, una così indefettibile continuità, una così assoluta refrattarietà alla storia di quella parte della realtà umana che chiamiamo Sicilia, che pure è situata nel crogiuolo della storia.(Leonardo Sciascia, da L’ordine delle somiglianze, in Cruciverba, Einaudi)
Io non credo che gli antichi abitatori della Sicilia avessero una coscienza della loro sicilianità così come la intendiamo noi oggi: certo che no, e come facevano?, un sicano, un siculo, un èlimo, fenici, greci, romani, arabi, normanni, francesi, spagnoli… Una connotazione geografica, questo sì: siciliano significava abitare in Sicilia, o proveniente dalla Sicilia, ma le lingue erano altre, le tradizioni erano sempre altre, le culture e le religioni cambiavano a seconda di chi veniva a dominare la Sicilia, non i siciliani, in accordo con la visione del Principe Salina, il Gattopardo di Tomasi Di Lampedusa: “Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il ‘la’ … noi siamo dei bianchi quanto lo è lei Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia.” Siciliani che nel frattempo cominciavano comunque a definirsi, e che solo dal XIII secolo in poi hanno cominciato a connotarsi con una loro specifica cultura, lingua, letteratura – molto vasta, e io mi fermo soltanto a quella agrigentina. E se qualcuno di quelle epoche si fosse posto l’ipotetica domanda: cosa vuol dire essere siciliano per me? Che risposte si sarebbe dato? E con quali significati? Terre da coltivare, intanto, grano da raccogliere, miniere di zolfo, le solite materie prime che i soliti potentati oligarchici di quel momento si garantivano a discapito di tutti gli altri, ovvero: una terra di conquista. Pi ccu e gghiè. Esattamente come l’Africa, o le Afriche, oggi. Ma questo è un altro discorso. O forse no? Ma dal disfacimento dell’Impero Romano d’Occidente in poi – i Vandali, i Bizantini, gli Arabi – una vera e propria coscienza di sicilianità, secondo me, prima ancora della scuola letteraria di Federico II, l’avevano acquisita i cosiddetti poeti arabo-siciliani. Sembrerà strano, ma io li ri-conosco proprio dai nomi, che emanano storie del tutto sconosciute e misteriose, e appunto per questo mi riguardano, come se fossi io: Abū l-Ḥasan ʿAlī ibn ʿAbd al-Raḥmān detto Al-Ballanubi, ‘Abu ‘al Hasan Alì ‘ibin ‘abi ‘al Basar, ‘Abd al-Jabbar Ibn Muhammad ibn Hamdis al Siqilli… Loro hanno scoperto il loro essere siciliani soprattutto nell’esilio, quando furono costretti – la maggior parte – a riparare in Spagna – al Andalus – già a partire dalla fine dell’XI secolo in poi, subito dopo la conquista Normanna della Sicilia. E già questo mi sembra un indizio, solo all’apparenza scontato: lontani dal nostro luogo d’origine, con una sensazione di forte mancanza e profonda nostalgia, cominciamo a riflettere da dove veniamo, su cosa siamo, che senso abbia la parola appartenenza – popolo, gruppo, comunità, famiglia – cominciamo ad essere consapevoli della nostra cultura e della nostra lingua, non sempre compresa e accettata dalla cultura e dalla lingua della nazione che ci ospita, e spesso anzi in conflitto con essa. Ma allora che vuol dire per me essere siciliano? Gli ultimi 150 anni di storia patria non è che mi aiutino: essere siciliani all’interno della nostra italianità! Come a dire che i piemontesi arrivano in Sicilia e ci dicono: “Voi d’ora in poi siete tutti piemontesi!” ritorna sempre il fantasma del Gattopardo, con il quale cominciamo a non sentirci più molto d’accordo. Il fatto è che la Storia, purtroppo, la fanno sempre altri, al posto nostro – anche i Borboni, non solo i Piemontesi – e a noi non resta che subirla. Anche se, a dire il vero, qualcuno avverte che, talmente chiusi nel nostro essere isolani, “noi siciliani odiamo profondamente chi ci vuole svegliare dal nostro sonno”. Il Principe Salina insiste e noi glielo permettiamo. Ma chi ci ha mai voluto svegliare? Questo è uno dei limiti che io avverto arrogantemente su di me quando mi penso siciliano “svegliato”. O forse non è così? Anche perché, sveglio o dormiente! … Forse “illuminato” renderebbe meglio l’idea.
Ma Sciascia avrebbe preferito “illuminista”. Qualche volta ne discuto pure con Ibn Aziz Mohammed, un amico mio dalle fattezze nordafricane, una specie di mio alter ego sicilianissimo almeno quanto me: “Ibn Aziz Mohammed, Figlio Di Maometto il Giusto, il Buono, il Generoso, il Magnifico, il Curante: lo Splendore. Anzi no: colui che è Caro nel senso affettivo: Aziz, un nome di auspici e benevolenze. Azzizzari: aggiustare, riparare, rimettere in sesto, recuperare, come chi è alla ricerca disperata di una nuova vita, e ripercorre lo stesso itinerario dei suoi antenati, fedeli di Allah! – alcuni dei quali adesso – sempre adesso! – incitano alla guerra e si nascondono, ma che qui, nella luce solare abbacinante di Balarm, Kerkent, Nar, Mazara, erano stati veramente grandi, anche se conquistatori poco amati: sarebbe stato bello diventare come uno di loro: un poeta arabo-siciliano, per esempio – uno scrittore – oppure, sul modello del mitico Averroè, medico e artista!” O, se si preferisce, medicartista, unica parola. “Essere siciliani sarà pure un grande limite, ma contemporaneamente è la più grande ricchezza che un uomo possa mai desiderare”, mi dice spesso Aziz. C’è da crederci, soprattutto se detto da uno che millanta origini di poeta arabo-siciliano. In effetti, è la solita contraddizione che si perpetua, ma perfettamente consona ai poeti arabo-siciliani, e a tutti gli esiliati, gli emigrati, i transfughi, i rifugiati, i profughi, qualunque sia la loro terra di origine, come i sopravvissuti di tutti quei pellegrinaggi estremi che li portano dall’Africa del Nord – novelli Vandali sopra a una carretta del mare – alle coste sud-occidentali della Sicilia, e non tanto modernamente in cerca di luoghi e tempi migliori.
E l’origine dei poeti arabo-siciliani era appunto la Sicilia, l’Imārat Ṣiqilliyya, al Jazeera, l’Isola per eccellenza, la loro isola, la mia isola, quella di mio padre e mia madre, e quella di al Butiri, originario di Butera, che in una sua qasida (poesia in arabo, dal verbo qaṣada: “proporsi uno scopo”) se la prese con i Musulmani rimasti al servizio dei re normanni. Ecco un altro punto di vista completamente opposto, naturalmente: certo, ognuno deve difendere il proprio, anche l’altro difende il suo. Per cui un punto di incontro non ci sarà mai: sempre avversari, sempre nemici, ad amplificare le differenze, mai pensando che forse si potrebbero amplificare le cose in comune come arricchimento reciproco – certo che no! – una distanza da non colmare ad ogni costo, semplicemente combattendo e neutralizzando la differenza che la determina, l’una contro l’altra. Ecumenismo? Ma quello che ancora mi preme è: cosa vuol dire essere siciliano per me? A sentire una qasida di‘Abu ‘al Hasan Alì ‘ibin ‘abi ‘al Basar, costretto ad andar via dalla Sicilia: “nell’amor suo mi consumo, il suo volto è luna che spunta. Insuperbisce quando ha preso tutto per sé l’amor mio; e quindi io peno – oh felice chi le sta accanto”, una consunzione d’amore. E Ibn Hamdis, citato da Sciascia e da Quasimodo – e adesso anche da me, hai visto mai? – ‘Abd al-Jabbar Ibn Muhammad ibn Hamdis al Siqilli, costretto anche lui all’esilio dopo aver visto la “sua” terra, la sua Sicilia, invasa dai Normanni: “con nostalgia filiale anelo alla patria, verso cui mi attirano le dimore delle belle sue donne. E chi ha lasciato l’anima a vestigio di una dimora, a quella brama, col corpo, fare ritorno … Viva quella terra popolata e colta, vivano anche in lei le tracce e le rovine! Io anelo alla mia terra, nella cui polvere si sono consumate le membra e le ossa dei miei avi”, già: un appartenere a una terra popolata e colta. Ibn Hamdis è islamico e tollerante, e non disdegna in gioventù, prima dell’esilio, condividere laicamente con i pari età cristiani, bevute nelle putìe di vino siciliane di allora, chiamate cummenti, conventi (chissà a cosa si alludeva): “Vino di colore e odor di rosa, mescolato all’acqua, ti mostra stelle fra raggi di sole”.
Anche tolleranza e capacità di condividere, dunque. Comincio a darmi qualche risposta, finalmente, per quanto fugace: il mio essere siciliano di sicuro non è sterile testimonianza di un passato fantastico e sfumato nel mito, non è assenza forzata di una memoria ancora vivente, non è nutrirmi di ricordi impossibili, come esiliato da questi luoghi e da questo tempo, pur abitandoli e soffrendoli. Non è nemmeno voglia di riscatto. E forse nemmeno la mia scrittura. In questo intuito puro sgorgante dal cuore della montagna sacra di Dio, di AllahMisericordioso; in questa malinconia nell’esilio, di chi antico si sente, e che alla sua antichità e alla sua tradizione non rinuncerà mai, perché lì è la sua origine, da lì la sua provenienza; in questo peregrinare all’apparenza senza più un ritorno, stretto nella compressione di un presente che non guarda avanti, il mio essere siciliano, parafrasando una qasida di Ibn Hamdis, è grido d’un’amante sconosciuta, come l’anima mia, che si offre continuamente al sogno, grido trasmutato per un mistero arcano, per un miracolo improvviso, in un canto che ancora sento come eco lontana, malinconica, struggente, un canto solitario ma libero, di carrettiere:
A un suònniru si detti l’arma mia
Gridannu cuomu amanti scanusciuta
D’amuri si cunsuma, s’astuta cuomu chiarìa di luna[1]
[1] “L’anima mia s’è offerta al sogno, grido d’un’amante sconosciuta.” (Ibn Hamdis)
“Nell’amor suo mi consumo, il suo volto è luna che spunta.” (‘al Basar)