Intervista con Agostino Spataro.
“Oggi i nuovi padroni del mondo non vogliono più le politiche estere nazionali, perché si ritengono ostative, limitative dei progetti dei mercati globali. Tutto si accentra nelle grandi entità sovranazionali e, in definitiva, nei centri internazionali (anche privati) di potere politico e finanziario. Perciò, non è necessario mettere alla testa dei governi, dei dicasteri personalità politiche di rilievo. Meglio optare per personaggi poco dotati, sono più funzionali al dispiegamento delle nuove strategie.”
di Margherita Peracchino, direttore di “L’Indro”
( in https://www.lindro.it/libia-fine-della-politica-estera-nazionale/)
Quello appena iniziato, per la Libia dovrebbe essere l’anno delle elezioni, legislative e presidenziali, previste per dicembre. Venerdì, il capo del Governo di accordo nazionale libico (Gna), Fayez Al-Sarraj, è giunto a Roma per una serie di incontri con il premier Giuseppe Conte e alti funzionari italiani e con il rappresentante speciale ad interim del Segretario generale delle Nazioni Unite, Stephanie Williams.
Al centro dei colloqui con Conte: il processo politico che dovrebbe condurre alle elezioni, la questione dei flussi migratori illegali, e, secondo quanto dichiarato da al-Serraj, anche il ritorno delle aziende italiane in Libia per riprendere le loro attività nel Paese. In fatto di cooperazione Italia-Libia, i media locali confermano che si è convenuto di attivare accordi di amicizia e partenariato e di continuare a tenere le riunioni del Comitato economico misto.
Con Williams, al-Sarraj ha affrontato le questioni legate alle elezioni e al processo politico che le dovrà approntare, ovvero, come recita la nota ufficiale, le modalità per portare avanti il dialogo politico libico, in vista della riunione del comitato consultivo del Forum del dialogo politico libico in programma questa settimana a Ginevra.
Altro importante incontro di al-Sarraj, a Roma, è stato quello con l’ambasciatore degli Stati Uniti in Libia, Richard Norland, con il quale ha discusso degli sviluppi della situazione in Libia e dei progressi compiuti sulle modalità di soluzione della crisi libica, dal punto di vista militare, di sicurezza, politica ed economica. L’incontro, secondo quanto riferisce il governo di Tripoli, è stato anche l’occasione per affermare la «necessità di fermare l’interferenza esterna negativa negli affari libici in modo che le modalità di soluzione della crisi possano raggiungere i loro obiettivi di stabilire sicurezza e raggiungere stabilità e ripresa economica».
Una visita che farebbe sembrare l’Italia ancora al centro della politica libica. Secondo molti osservatori, invece, non è così, anzi, tra questi l’Onorevole Agostino Spataro, giornalista, scrittore, già membro delle Commissioni Affari Esteri e Difesa della Camera dei Deputati, grande esperto di politica estera italiana, in particolare sul versante Mediterraneo, che qualche settimana fa, in una nota ha tra l’altro scritto: «Prima che scoppiasse il tragico conflitto, scrissi che ‘la Nato poteva vincere la guerra ma perdere il dopoguerra’. Oggi, di fronte allo sconquasso e alla guerra fratricida in Libia, si può affermare che l’Italia in quell’avventura perse la guerra e il dopoguerra, poiché nel nuovo, inquietante scenario libico e e mediterraneo, non conta quasi nulla. Nell’ultimo decennio (2010-20) i governi italiani hanno bruciato un patrimonio importante di relazioni economiche e politiche con la Libia. Con la conseguenza che il ruolo assai importante dell’Italia oggi risulta logorato. marginale, banalizzato». Spataro affermava ciò in relazione al fermo dei 18 pescatori di Mazzara, affermando inoltre «per ottenere la liberazione dei 18 nostri pescatori di Mazara non si sa dove andare a bussare: a Parigi, a Mosca, a Washington, a Il Cairo, negli Emirati, ecc.». Pochi giorni dopo, la liberazione dei pescatori, previo ‘omaggio’ del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e del Ministro degli Esteri Luigi Di Maio -ovvero dei vertici dello Stato- al generale Khalifa Haftar, l’oppositore di al-Sarraj, premier di un governo che Roma ha dichiarato alleato.
Con Agostino Spataro abbiamo dunque provato a capire come e perché l’Italia sarebbe ridotta al ‘nulla’ in termini di influenza in Libia e nel resto del Mediterraneo, ricostruendo quel ‘patrimonio di relazioni’ sprecato.
Onorevole Spataro, nelle scorse settimane, lei è intervenuto sulla questione dei pescatori di Mazara del Vallo, sostenendo che nell’ultimo decennio ‘i governi italiani hanno bruciato un patrimonio importante di relazioni economiche e politiche con la Libia’. Come sono andate le cose?
La vicenda del fermo dei 18 pescatori di Mazara del Vallo, per fortuna o grazie a una commistione di interventi internazionali conclusasi positivamente, s’inserisce in un vecchio contenzioso relativo alla autoproclamata pertinenza libica del golfo della Sirte. Ovviamente, il problema delle così dette ‘baie storiche’ non riguarda soltanto quella libica, ma altre presenti in varie parti del mondo (fra cui quella del golfo di Taranto) che non sono state comprese nella Convenzione Onu sul diritto del mare di Montego Bay. Un paio di settimane prima della loro liberazione scrissi, in contrasto con l’ipotesi dell’intervento militare richiesto dal vescovo di Mazara, che bisognava continuare a dialogare, a trattare, invitando i nostri governanti ad ‘alzare’ i loro ‘culetti d’oro’ e andare a parlare con le persone giuste a Bengasi e a Tripoli
Finalmente, alla vigilia di Natale, Conte e Di Maio volarono a Bengasi e ottennero dal generale Haftar il rilascio dei due pescherecci e dei loro equipaggi. In cambio di cosa? Non è dato saperlo.
C’è chi sostiene che il viaggio di Conte e Di Maio abbia di fatto legittimato Haftar, facendo saltare quel che restava della nostra politica estera in Libia. Cosa ne pensa?
Evidentemente,il viaggio del solo di Di Maio non bastava allo scopo di Haftar cui interessava soprattutto quello del Presidente del Consiglio dei Ministri Conte, che ha ‘legittimato’ il generale di Bengasi, che, per altro, gode di ben altre e più pesanti legittimazioni internazionali. Tutto questo e altro si potrà, forse, constatare negli imminenti colloqui inter-libici a Ginevra.
Sulla controversa questione del golfo della Sirte ci sono state contestazioni durissime a livello politico e diplomatico e addirittura un pesante intervento militare degli Usa contro Gheddafi…
Si verificò il 15 aprile del 1986. Quando Ronald Reagan lanciò, con l’operazione ‘El dorado Canyon’, un micidiale avvertimento a Gheddafi che aveva proclamato il golfo della Sirte come pertinenza nazionale della Libia. Ricordo che nel febbraio del 1986, fummo ricevuti in delegazione al Pentagono dal Segretario alla Difesa, Caspar Weinberger, e dall’ammiraglio William Crowe, presidente del comitato dei capi di stato maggiore delle forze armate statunitensi. Da notare -come scrissero diversi quotidiani nazionali italiani (‘Corriere della Sera’, ‘La Repubblica’, ‘La Stampa’, ‘l’Unità’, ecc) che, per la prima volta, dei deputati comunisti (del Pci) avevano varcato, ufficialmente, la soglia del Pentagono. I temi principali dei colloqui erano la questione degli euro missili nucleari intermedi (di Nato e Patto di Varsavia), con particolare riferimento a quelli basati a Comiso, e le crescenti tensioni nel Mediterraneo centrale, dove gli Usa avevano aperto un preoccupante contenzioso con la Libia di Gheddafi.
Nonostante il parere contrario del nostro capodelegazione on. Attilio Ruffini, posi agli interlocutori Usa alcune domande circa le voci, circolanti in taluni ambienti, di un imminente attacco Usa alla Libia. Era prevedibile che le avrebbero eluse o ignorate, tuttavia le posi. Anche per far sapere loro che già la ‘cosa’ si sapeva in giro. Infatti, Crowe negò tale possibilità senza tentennamenti, mentre Weimberger, semplicemente, non rispose alla domanda. Salvo, 40 giorni dopo, scatenare il micidiale attacco contro la Libia. Su tali incontri esiste un’ampia documentazione parlamentare.
Tornando all’oggi, appare chiaro che la vicenda dei pescatori è solo l’ennesima prova che l’Italia in Libia conta poca o nulla. In Libia ma probabilmente anche nell’intero mondo arabo. Le chiedo: cosa e perché in questi 10 anni abbiamo sbagliato nella nostra politica estera nei confronti della Libia e del resto del mondo arabo?
Innanzitutto, desidero precisare che quel ‘abbiamo sbagliato’ contenuto nella sua domanda, va modificato e attribuito ai governanti italiani, soprattutto dell’ultimo decennio. Poiché le responsabilità sono distinte, secondo il ruolo: c’è chi governa e chi è governato. Negli anni ’70 e ’80, le relazioni italo-libiche ebbero uno sviluppo davvero esemplare, basato sul principio della reciprocità, vantaggioso per entrambi i Paesi. Certo, l’inizio non fu beneaugurante. Nel 1970 uno dei primi atti del nuovo regime libico fu la cacciata dei circa 20.000 coloni italiani. I soliti tromboni di destra invocarono la guerra.
I governanti italiani reagirono con saggezza e lungimiranza. Pochi sanno che all’indomani di quel drammatico evento, il Ministro degli Esteri italiano, Aldo Moro, incontrò il ventisettenne Gheddafi, leader della ‘rivoluzione’ libica, per tracciare insieme le linee della futura collaborazione economica, commerciale e anche militare. Da qui l’inizio di tutto.
Da questo suo accenno si può dedurre che fu Aldo Moro e non Andreotti a elaborare, avviare il rapporto con la Libia di Gheddafi e in generale con il mondo arabo. Corretto?
Contrariamente a quanto si pensa, non fu Giulio Andreotti a concordare e promuovere la nuova politica estera italiana verso la Libia e, in generale, verso il mondo arabo. Fin da subito, Moro, intuì le potenzialità del nuovo regime, nato con la ‘rivoluzione di Al Fatah’ del 1° settembre 1969, e le grandi opportunità economiche che si delineavano per l’Italia in diversi settori. Grazie a questa politica, si superò il risentimento derivato dall’espulsione dei 20.000 connazionali (ben accolti in Italia) anche perché, in qualche modo, controbilanciata con l’invio in Libia di 20.000 fra tecnici e operai specializzati italiani, al seguito di grandi e medie aziende italiane. Fra queste, di grandissimo rilievo, è la presenza dell’Eni e delle consociate. Taluni, polemicamente, definirono questa apertura ‘lodo Moro’. Lodo o altro, quelle intese funzionarono a lungo, con esiti reciprocamente vantaggiosi per i due Paesi e per il consolidamento della pace nel Mediterraneo. Iniziò così un rapporto laborioso, talvolta difficile, ma sostanzialmente leale, onorevole. La nostra lealtà fu tale che quando, nel 1971, i nostri servizi scoprirono nel porto di Trieste una nave di congiurati libici, armati e assistiti dai servizi di sua Maestà britannica, in partenza per Tripoli con l’obiettivo di rovesciare il regime di Gheddafi, l’Onorevole Moro diede ordine al generale Vito Miceli, capo dei servizi italiani, di bloccarla per far fallire il complotto. Così avvenne, con grave disappunto degli inglesi che – sappiamo- non dimenticano facilmente gli affronti subiti.
Il senso di quella iniziativa me lo chiarì il generale Miceli (mio collega in commissione Difesa) “Bisognava salvare Gheddafi per salvare gli interessi italiani in Libia”. L’on. Andreotti, soprattutto dopo il 1978, assicurò, nei suoi diversi ruoli di governo, una certa continuità alla politica estera italiana nel solco tracciato da Aldo Moro e con il concorso evidente e influente del Pci.
Questo fu l’esordio con la Libia di Gheddafi. E con il mondo arabo?
Moro ampliò lo spettro della politica estera italiana verso l’area mediterranea e araba e ne enuncerà le linee nella Conferenza internazionale di Helsinki (1975) sulla pace e la sicurezza nel Mediterraneo. La strategia italiana mirava a sviluppare il dialogo e la cooperazione pacifica con i Paesi arabi e rivieraschi del Mediterraneo, alla ricerca di un ruolo dell’Italia, relativamente autonomo, nel rispetto delle alleanze con gli Usa nel quadro della Nato. In quello stesso anno, al vertice europeo di Venezia, l’Italia si adoperò per l’approvazione di un documento che, per la prima volta, riconosceva l’Olp di Yasser Arafat come forza rilevante nella lotta del popolo palestinese contro l’occupazione israeliana dei Territori e per la creazione di uno Stato sovrano. Insomma, quelli furono anni di svolta per la politica estera italiana. Svolta che a Washington sarà stata notata e annotata. Con irritazione.
Perché l’intervento militare in Libia?
A mio parere, la causa principale sta ne valore intrinseco, geo-economico e strategico, della Libia. Quanto vale la Libia? Tanto, anzi, tantissimo. Per le sue importanti risorse di idrocarburi (in Libia vi sono enormi risorse accertate di ottimo petrolio) e anche per le sue riserve auree che, all’inizio dell’aggressione (del 2011), erano valutate in 140 miliardi di dollari. Oggi non si sa che fine abbia fatto tale tesoro. Perciò, questo Paese costituisce un boccone troppo ghiotto per le superpotenze mondiali, le quali non intendono lasciare all’Italia il primato nelle relazioni preferenziali, economiche e anche politiche, conseguito durante la lunga gestione di Gheddafi. Questo mi sembra il punto politico dirimente. Oggi, la Libia vive una condizione tragica di guerra civile, di divisione territoriale. Vedremo, nei prossimi giorni, a Ginevra cosa accadrà. Tuttavia, le incognite, i rischi incombono sempre di più. In assenza di un serio accordo nazionale (e internazionale) di garanzia, si potrebbe avere un ritorno alla situazione antecedente all’occupazione italiana, quando la Libia non era uno Stato nazionale unificato, ma un’entità geografica tripartita (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan) che sarà unificata, al termine della lunga e sanguinosa guerra coloniale italiana (1911-1931).
Insomma, la politica estera della prima Repubblica nei confronti del mondo arabo, cosa aveva di meglio e di diverso? E quanto conta il diverso peso specifico degli uomini di allora rispetto a quelli di adesso?
La nostra politica estera basata sul dialogo e la cooperazione pacifica assicurò al Paese una posizione di rilievo nell’area arabo-mediterranea, anche in campo economico. Negli anni ’80, l’Italia, quinta nella graduatoria economica mondiale, riuscì a ritagliarsi un ruolo di media potenza verso il mondo arabo e verso altre realtà mondiali. Oggi, i nuovi padroni del mondo non vogliono più le politiche estere nazionali, perché le ritengono ostative, limitative delle strategie, dei progetti dei mercati globali. La lotta dichiarata al ‘sovranismo’ è mirata a un colossale trasferimento dei poteri dalle entità statali nazionali alle grandi entità sovranazionali e, in definitiva, ai centri internazionali (anche privati) di potere politico e finanziario: U.E., Nato, Omc, G8, sistema bancario, ecc. In sostanza, bisogna prendere atto che- di fatto- la politica estera nazionale non esiste più. Tranne che per la gestione (clientelare e commerciale) della struttura amministrativa (ministeri, ambasciate, ecc) e dei cospicui fondi per la cooperazione internazionale che alimentano un sistema di potere assai discutibile, anche sul piano morale. Perciò, a capo dei dicasteri si preferiscono personalità poco dotate, più funzionali al dispiegamento delle nuove strategie. I confronti sono sgradevoli, tuttavia bisogna ricordare che durante la così detta ‘prima Repubblica’ al Ministero degli Esteri, solitamente, andava un alto esponente dei partiti al governo, un ex capo del governo, ecc. Negli ultimi anni, invece, abbiamo visto alternarsi alla Farnesina personaggi a dir poco ‘inattesi’, che continuano a infoltire una degradante graduatoria che accelera la decadenza del ruolo e del peso politico di questo importante Ministero. E quindi della politica estera italiana.
Questa ‘scomparsa’ dell’Italia dalla Libia è da imputare esclusivamente agli errori italiani oppure molto è frutto del cambiamento degli equilibri mondiali a partire dalle politiche USA?
Ovviamente, influiscono sulla situazione italiana il peso di grandi e medie potenze mondiali. Non solo gli Usa, ma anche la Cina, la Russia, i Paesi del Golfo, ecc. La situazione si è aggravata durante le così dette ‘seconda e terza Repubblica’, in cui si è verificata una sorta d’infiacchimento, di esautoramento del ruolo, della capacità decisionale della politica estera nazionale. Per orientarsi, anche i governi, i ministri degli esteri ‘vanno a messa’ presso i meeting di organismi informali, privati ma assai influenti quali i vari Forum del gruppo Bildenberg, del World Economic Forum di Davos (CH), di Aspen Institute, ecc.
La tanto biasimata ‘prima Repubblica’ per tenere la barra dritta verso la cooperazione pacifica produsse una politica estera equilibrata, lungimirante e ampiamente condivisa in Parlamento. Uno sforzo originale, proficuo, dagli esiti brillanti, di cui va dato merito ai tre grandi partiti popolari (Dc, Pci e Psi) e ai loro più prestigiosi dirigenti: Aldo Moro, Giulio Andreotti, Enrico Berlinguer, Giancarlo Pajetta, Bettino Craxi, Riccardo Lombardi, ecc
Ovviamente, con ciò non si vuol mitizzare nessuno, né sottovalutare le difficoltà derivate da alcuni gravi problemi del tempo: dall’attacco ai diritti sociali dei lavoratori alla sicurezza e all’ordine pubblici, dalla crescita eccessiva della spesa e del debito pubblici al clientelismo, alla corruzione, ecc.
Eredità del ‘compromesso storico’?
L’esperienza della politica di solidarietà nazionale (brutalmente osteggiata e fermata con il sequestro e l’assassinio dell’on. Aldo Moro) consenti alle tre principali forze politiche di maggioranza e d’opposizione di affrontare, con spirito unitario, alcune scelte politiche strategiche riguardanti in particolare la sicurezza democratica, la riconversione industriale e la politica estera. In quel contesto il Pci (anche dall’opposizione) giocò un ruolo di convergenza critica, propositiva sviluppato con senso di responsabilità nazionale ed europeista. Seguendo la linea della giustizia e della legalità internazionali, contribuimmo a rafforzare il ruolo di pace e di cooperazione dell’Italia nello scacchiere arabo-mediterraneo, a difendere la nostra sovranità nazionale e, cosa di non poco conto, a preservare il nostro Paese da rischi micidiali che potevano provenire dall’esterno, da settori contrapposti del terrorismo mediorientale e internazionale. All’interno del nuovo scenario si lavorò per individuare una prospettiva di proiezione euro-mediterranea per il nostro Mezzogiorno, oggi ricacciato ai margini dello sviluppo, assillato dalla criminalità e ridotto a mero deposito di risorse energetiche al servizio del centro-nord iper sviluppato. Queste e altre cose, scritte nel mio “Nella Libia di Gheddafi”, le ho seguite da membro, per conto del Pci, della presidenza dell’Associazione nazionale di amicizia italo-araba (composta da DC, PCI e PSI ), più volte diretta dall’on. Virginio Rognoni, e della Commissione esteri della Camera presieduta dall’on. Giulio Andreotti.
Russia e Turchia e non solo ci stanno soppiantando in Libia. Dobbiamo semplicemente prenderne atto, magari pensando che questa è una fase, un ciclo storico, e che poi per i ben conosciuti corsi e ricorsi storici, tornerà il nostro tempo, oppure c’è qualcosa (cosa?) che possiamo fare per provare a recuperare terreno ora e subito?
Più che ai corsi e ai ricorsi storici, bisogna, semmai, considerare l’importanza dei cicli economici, politici che, svolgendosi in un tempo storico mutato, non obbediscono a meccanismi deterministici, ma che vanno perseguiti secondo l’evoluzione politica e i rapporti di forza in campo. La Russia (anche se relegata nel mar Nero) e la Turchia, pur nella loro diversità politica e culturale, sono due nuove potenze mediterranee che vanno ad aggiungersi alle altre preesistenti (Usa, Francia, Italia, G.B, ecc.). Di vitale importanza appare l’iniziativa per il controllo di nuove aree marine, di nuovi approdi per i traffici marittimi (commerciali e militari) e, sempre di più, delle risorse energetiche sottomarine, alle quali comincia a interessarsi anche Israele. Russia e Turchia devono farsi spazio a danno di altri, senza però disturbare la presenza Usa che qui mantiene una poderosa flotta militare (la VI) e numerose basi navali e terrestri (dotate anche di armamenti nucleari) e una rete di alleanze che copre, praticamente, l’intera area mediterranea e dei Paesi rivieraschi. Oggi, gran parte di queste potenze convergono e si confrontano in Libia; ognuna cercando un proprio spazio d’influenza a tutela degli interessi acquisiti o da acquisire. In tale contesto, la Turchia di Erdogan, leader del partito islamista che sta azzerando l’eredità laica di Kemal Ataturk, è uno dei più importanti protagonisti della regione mediterranea e, per altri versi, delle regioni caucasiche turcomanne, con l’occhio rivolto a quanto accade in Siria, in Iraq e perfino nei Territori palestinesi. Non a caso è stata formulata una nuova dottrina quella della ‘patria blu’ mirata a favorire l’espansione dell’influenza marittima turca in tutta l’area centro-orientale del Mediterraneo (Grecia, Cipro, Israele) dove, per altro, insistono enormi giacimenti di idrocarburi. Così dicasi per la Russia di Putin, che nel Mediterraneo mantiene la sua V Eskadra, che dispone di due basi fisse in Siria (con quale ha un accordo di cooperazione militare) e approdi agevolati in diversi porti di Egitto, Libia (orientale), Algeria. Una presenza in crescita quella della Russia che, però, deve ricercare, coltivare l’intesa con la Turchia, se non altro per garantirsi l’attraversamento, per i russi vitale, degli stretti (Bosforo e Dardanelli) previsto dagli accordi del 1938.
C’è un altro Paese dell’area con il quale in questo momento abbiamo problemi, l’Egitto, con la vicenda Regeni. Da una parte l’Italia mostra il viso duro in nome della verità sulla morte del nostro giovane, dall’altra fa affari miliardari con lo stesso governo che quella verità è ben intenzionato a non darcela. Il tutto con grande scandalo dell’opinione pubblica e dei media. Ha senso questo scandalo? Non è che, per brutta che possa essere, e lo è, ma questa è semplicemente politica? Non è che a sbagliare sulla vicenda Regeni sia stata l’Italia? che il caso sia stato gestito malissimo? E come sarebbe stato gestito negli anni ’80, quando in Farnesina e a Chigi sedevano uomini ‘calibro 90’?
L’orrenda morte del giovane ricercatore Giulio Regeni ripropone il ‘problema’ dei rapporti con l’Egitto, ossia con un grande Paese, erede di una fra le più grandi civiltà, oggi governato da un potere autoritario, luogo nevralgico di confluenza di tre importanti entità geopolitiche e culturali: Islam, Mediterraneo e Africa. I governi e, soprattutto, gli organi giudiziari preposti devono impegnarsi a fondo per fare emergere la verità dei fatti, le responsabilità connesse e quindi punire, a norma di legge, gli autori materiali del delitto e gli eventuali complici.
Per altro, non è facile assumere una posizione di rottura verso l’Egitto quando- di fronte a tanti altri casi di orrendi omicidi imputabili ad altri governi mediorientali (non solo arabi), nessuno, in Italia e altrove, ha chiesto la rottura delle relazioni diplomatiche con gli Stati responsabili, diretti o indiretti, delle gravissime violazioni dei diritti umani, della soppressione della vita di persone politicamente sgradite.
Nella vicenda pesa anche la questione delle relazioni economiche e commerciali con l’Egitto, il fiorente mercato delle armi, i nuovi giacimenti petroliferi e gasieri, ecc. in un contesto mediorientale in cui é cambiato il quadro dei referenti internazionali, mentre si affacciano nuove alleanze e strategie basate su sorprendenti convergenze. Come quella fra petromonarchie del Golfo, Israele e USA e dall’altro versante intese poco chiare e circoscritte fra Russia e Turchia.
Senza dimenticare che il governo egiziano controlla il Canale di Suez, attraverso cui passa un enorme flusso di merci, in gran parte, provenienti da Nord verso Sud ed Est, ossia dall’Europa verso i grandi mercati in espansione arabi, cinese, indiano, giapponese, ecc. L’eventuale chiusura del Canale (dal 2015 raddoppiato) o la limitazione dei passaggi sarebbero un disastro economico per l’Europa e, in senso inverso, per le potenze petrolifere del Golfo, per la Cina e per l’India, ecc, ecc.
In conclusione, quale ruolo avrà il mondo arabo nell’Italia post-Covid-19? in quella che dovrebbe essere la ‘ricostruzione’?
Purtroppo, allo stato degli atti, per i conflitti in Libia e nel mondo arabo non s’intravvedono soluzioni politiche a breve. Forse, un domani, con l’avvio della nuova Amministrazione Usa, si potrà pensare a una conferenza internazionale di pace, inclusiva di tutti gli attori in campo, non per una nuova spartizione dei permessi di ricerca e di sfruttamento degli idrocarburi, ma per restituire al mite popolo libico il livello di benessere conosciuto nel recente passato e la speranza di una democrazia più evoluta. Se vuole riacquistare il prestigio e il ruolo perduti, l’Italia dovrebbe riuscire ad esprimere un forte e motivato impegno in questa direzione. E’ nel nostro interesse.
Poiché -come già detto- se in Libia c’è un Paese europeo che sta rischiando qualcosa di grosso questo è proprio l’Italia. Purtroppo, gli ultimi nostri governi hanno agito con dilettantismo e in posizione subordinata agli interessi strategici di Paesi nostri concorrenti e hanno declassato l’Italia da principale partner europeo della Libia a Paese marginale, praticamente fuori dal gioco. Persistere nell’errore sarebbe un atto assurdo di autolesionismo.