Per molto meno ci sono persone che marciscono in carcere, beni sequestrati e carriere cancellate con un colpo di spugna, anche quando – a distanza di anni – verrà dimostrata a loro innocenza. Li chiamano errori giudiziari.
Quello che però vale per politici, amministratori, imprenditori e semplici cittadini, sembra non valere nel mondo delle toghe. Qui l’errore giudiziario, quello delle manette e dello spettacolo, non trova spazio. Gli errori sono altri, stanno nella modalità di conduzione delle indagini, negli aspetti tecnici, nella fuga di notizie. Non ci sono manette-spettacolo a beneficio del pubblico, non c’è il tam tam mediaco. C’è l’assordante silenzio delle istituzioni e dei media nazionali che – salvo pochi casi – ignorano la notizia o gli dedicano al massimo poche parole. Meno di quante non se ne pubblichino per un necrologio a pagamento.
C’è però l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Il capro espiatorio di tutti i mali della giustizia. Quella che ormai da decenni vede in parte della magistratura un potere in grado di governare la politica, la vita dei cittadini, gli affari. Su di lui, ma solo su di lui, possiamo scrivere tutti.
A denunciare le “anomalie” dello scandalo Palamara (o meglio dello scandalo del mostruoso silenzio sui tanti magistrati coinvolti e dell’allegra gestione delle indagini che più che impedire il condizionamento delle nomine in magistratura sembra trasformarsi in una faida interna) due recenti articoli a firma di Paolo Comi, pubblicati da “Il Riformista”.
“Come mai le “famigerate” chat di Luca Palamara vennero trasmesse al Csm dopo un anno dallo loro acquisizione? Perché questo ritardo? Si volevano evitare, ad esempio, situazioni d’imbarazzo per alcuni magistrati nel momento in cui la nomina del nuovo procuratore di Roma era tornata in discussione?” – si chiede il giornalista nell’articolo dal titolo “PALAMARAGATE CAPITOLO 2: LA PROCURA NASCOSE LE CHAT AL CSM. PERCHÉ?”
Una ricostruzione puntuale e precisa di quello che accadde dopo che il 23 maggio 2019, Marcello Viola ottenne dal Csm quattro voti favorevoli per la nomina a capo della procura di Roma. Una nomina impedita grazie a una – provvidenziale per alcuni – fuga di notizie che bruciò le indagini su casi di presunte corruzioni nel mondo della magistratura.
“Il 30 maggio dello scorso anno – scrive Comi – i pm di Perugia che stanno indagando l’ex presidente dell’Anm per corruzione decidono di sequestrargli il telefonino. L’indagine è ormai sfumata a causa di una fuga di notizie: il giorno prima Repubblica, Corriere e Messaggero hanno aperto sull’inchiesta di Perugia a carico di Palamara con tre pezzi “fotocopia”.
È il Gico della Guardia di Finanza che il giorno successivo estrapola i dati dal telefonino dell’ex presidente dell’Anm.
“Dall’ora di pranzo del 31 maggio – prosegue Comi – gli inquirenti sono in possesso delle chat di Palamara con centinaia di magistrati che chiedevano nomine e incarichi”.
Eppure, la fuga di notizie, pubblicate con le indagini ancora in corso, si ferma alle intercettazioni effettuate all’hotel Champagne la sera del 9 maggio 2019, al nome di Marcello Viola che non ha nessun ruolo nelle trattative per le nomine e che risulta vittima degli intrighi (ma questo non lo scrive nessuno), ai consiglieri del Csm e ai politici che avevano preso parte all’incontro. Una fuga di notizie ben “ritagliata”, alla quale si aggiungono gli errori di trascrizione da parte della guardia di finanza. Come nel caso di Lotti a cui venne attribuito di aver detto “Si vira su Viola” – lasciando intendere chissà quali trame oscure in merito alla sua nomina – e non “Si arriverà su Viola, sì ragazzi”, che altro non era se non una constatazione di fatto.
A quegli errori, si aggiunge l’anomalia delle centinaia di pagine di chat estrapolate dal telefono sequestrato a Palamara e non trasmesse al Csm unitamente alle intercettazioni dell’hotel Champagne e alle altre intercettazioni.
“Per conoscere i contenuti del telefono sequestrato a Palamara – scrive Comi – bisognerà attendere fino a maggio di quest’anno. Dopo la nomina di Michele Prestipino a procuratore di Roma”.
Fatto fuori Viola dalla corsa alla procura di Roma, un anno dopo possiamo apprendere che centinaia di magistrati avevano trafficato con Palamara.
Ma il giornalista non si ferma qui, e con il secondo articolo dal titolo “PERUGIA HA NASCOSTO GLI SMS DI PALAMARA CON ALTI MAGISTRATI CHI STA PROTEGGENDO?” racconta di come “negli atti depositati dalla Procura di Perugia non c’è traccia dei Short Message Service, i cosiddetti messaggini che l’ex presidente dell’Anm inviava e riceveva sul proprio cellulare”.
Dal ritardo di circa un anno con cui la Procura di Perugia aveva inviato al Csm ed alla Procura generale della Corte di Cassazione le chat WhatsApp di Palamara – giustificato con il fatto che non c’era nulla di “penalmente rilevante” – a gli sms che nonostante fossero stati estrapolati con successo dal cellulare di Palamara, si sarebbero misteriosamente cancellati.
“Quanti erano e quale era il loro contenuto? – si chiede Comi – Il diretto interessato, Luca Palamara, in questo momento è l’unica persona ad essere a conoscenza dell’informazione, essendo tornato in possesso del suo cellulare. Ma contattato dal Riformista, Palamara non si è sbottonato. Dopo aver precisato di non averli cancellati, sibillino ha fatto intendere che ci sarebbero sms con alti magistrati e con importanti personalità dello Stato. L’oggetto delle conversazioni dalla lunghezza di 160 caratteri, e per le quali non c’è bisogno di connessione dati, sarebbe stato sempre lo stesso: gli incarichi dei magistrati. Perché, allora, la Procura di Perugia ed il Csm non sono interessati a conoscere chi erano questi alti magistrati e personalità dello Stato che chiedevano favori a Palamara via sms? È solo una forma di rispetto della privacy togata o c’è dell’altro?”
Sul rispetto della privacy togata, dopo quanto è venuto fuori dalle chat, c’è da crederci poco, evidentemente c’è dell’altro. Cosa si vuol nascondere? La risposta possiamo trovarla nell’articolo dal titolo “LA GIUSTIZIA CORROTTA”, a firma di Piero Sansonetti, direttore de “Il Riformista”.
Non finisce mai il Palamaragate – scrive Sansonetti – affermando che il grosso della magistratura fa il suo lavoro onestamente, ma che “c’è un gruppo di circa 2000 persone, che costituisce un quarto della magistratura, del quale fanno parte soprattutto i Pm, che ha assunto un ruolo sovversivo e che ha messo a soqquadro e posto fuorilegge tutta l’istituzione”.
Il ritardo della procura di Perugia nel trasmettere le chat al Csm (alle quali partecipò il Gotha della magistratura italiana e soprattutto del partito dei Pm – scrive Sansonetti) evitò che lo scandalo “potesse influire sulle nomine avvenute tra il maggio del 2019 e il maggio del 2020, tra le quali moltissime assai importanti, come la nomina del procuratore di Roma, cioè del successore di Pignatone”.
E che dire degli sms perduti del cellulare di Palamara perché la Finanza dimenticò di scaricarli prima di restituirli al magistrato? Cosa avrebbero provocato se avessero riguardato politici, imprenditori o altri?
“E invece – prosegue Sansonetti – sembra che la magistratura riuscirà a inghiottire senza fare una piega anche questo nuovo scandalo. E continuerà ad operare, a giudicare, a disporre delle nostre vite, dei nostri patrimoni, della nostra libertà. Cioè a fare uso incontrollato e incontrollabile del proprio smisurato potere, del tutto incongruente con gli assetti di una democrazia moderna, di una società equilibrata, di uno Stato di diritto”.
Lo scandalo non è solo quello che riguarda la magistratura (2000 magistrati coinvolti, come sostiene Sansonetti, sono un po’ troppi, vero?) ma anche quello della stampa che dinanzi ai poteri forti passa dal ruolo di cani da guardia della democrazia a quello meno pericoloso di dolci cuccioli da salotto.
Massacrato Viola – probabile vero obiettivo di una fuga di notizie orchestrata con il Palamaragate mediatico – pochissimi giornalisti hanno trovato il coraggio di scrivere la verità, senza attenersi alle veline che quotidianamente ricevono dalle varie procure. Certo, è comprensibile la paura che può generare chi usa la penna come un’arma al pari della lupara, ma che fine hanno fatto quei giornalisti d’inchiesta la cui categoria ha pagato un notevole tributo di sangue per non essersi piegata a dittatori, mafia e terroristi?
È tempo che l’informazione recuperi il suo ruolo di tutore della democrazia, facendo sentire la propria voce, non cedendo a ricatti e paure. Fin quando non si troverà il coraggio di farlo, non meravigliamoci se in questo paese persino la parola “giustizia” è diventata sinonimo di merce di scarto.
Gian J. Morici
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