Nel corso dell’udienza del “Processo a Matteo Messina Denaro accusato di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e Via D’Amelio”, tenutasi a Caltanissetta venerdì 12 giugno, il Procuratore aggiunto Gabriele Paci, dopo aver ricostruito i rapporti tra “cosa nostra” palermitana e quella trapanese, con particolare riferimento a quelli tra Riina e altri mafiosi di primo piano dell’ala corleonese e i boss storici della provincia trapanese e i Messina Denaro, ha fornito uno spaccato raggelante della realtà castelvetranese, ricordando uomini come l’ex questore Germanà, e altri appartenenti alle forze dell’ordine, che furono tra i primi a individuare nei Messina Denaro elementi di spicco della consorteria mafiosa, furono esposti al rischio di essere uccisi o attaccati al fine di impedirne le indagini, mentre appartenenti all’organizzazione criminale risultavano essere in possesso di regolare porto d’armi.
Il Procuratore ha ricostruito quanto emerso nel corso dei numerosi processi sulle stragi, ricordando come diversi collaboratori di giustizia con le loro propalazioni nel corso di tutti questi anni avrebbero dato un notevole contributo alle indagini.
Secondo Paci, la causa di così tanti processi fu dovuta a chi allontanò gli inquirenti dalla verità. La si deve all’errore marchiano di aver ritenuto Mariano Agate a capo della mafia della provincia di Trapani, focalizzando quindi l’attenzione su di lui che, nella qualità di capo della provincia, e quindi componente della commissione regionale di “cosa nostra”, fu chiamato a rispondere per Capaci e per la cupola del Borsellino, riportandone condanne.
“Al tempo l’attenzione si focalizza su Agate Mariano. Si focalizza su di lui perché viene indicato erroneamente come capo della provincia di Trapani, in particolare da Leonardo Messina e Vincenzo Calcara – afferma il Procuratore Paci – Ma è un errore marchiano, la fragilità di questa impostazione è emersa nel corso del processo, ma era emersa anche nel Capaci”.
Secondo i giudici fu un errore al quale si rimediò in corso d’opera, perché alla fine effettivamente erano sorti dei contrasti e non era affatto sicuro che fosse lui, anzi probabilmente non lo era, il capo di “cosa nostra” trapanese, però diede comunque un contributo sostanziale rafforzando la volontà di compiere la strage di Capaci.
Nel corso dell’udienza il Procuratore Paci ha citato l’ex pentito Vincenzo Calcara che da tempo aveva chiesto di essere escusso nel corso di questo procedimento penale. Lex pentito che aveva indicato in Mariano Agate il capo provinciale di “cosa nostra” a Trapani, anziché indicarlo in Francesco Messina Denaro, del quale si definiva “uomo d’onore riservato”,
Calcara aveva anche più volte scritto alla Corte d’Assise di Caltanissetta, sollecitando una sua escussione nel corso del processo chiedendo di essere sentito perché aveva indicazioni da dare su Matteo Messina Denaro. Calcara non è stato sentito. Perché?
Il motivo lo spiega il Procuratore: “Perché Calcara è il signore che tace per anni il nome di Matteo Messina Denaro. È un collaboratore che nasce 91 come collaboratore come collaboratore di Borsellino. Spiega, dà tante indicazioni, ma non fa mai il nome di Matteo Messina Denaro al tempo in cui Matteo Messina Denaro uccideva e poi faceva le stragi. Sarebbe stato utile, se egli fosse effettivamente a conoscenza delle gesta di Matteo Messina Denaro, sarebbe stato molto utile se ne avesse parlato nel 92 anziché dire che il capo di “cosa nostra” era, neanche il padre Francesco , ma Agate Mariano.”
A tal proposito, chi scrive, ricorda come durante telefonate intercorse con Vincenzo Calcara, ebbe a chiedere per quale motivo non disse subito che a “capo di cosa nostra” nella provincia di Trapani c’era Francesco Messina Denaro e per quale altra ragione non volle mai fare il nome di Matteo Messina Denaro, che pure ben conosceva essendo quasi coetanei e abitando nello stesso quartiere e avendo narrato dei loro rapporti fin da ragazzi nel libro dal titolo “Dai memoriali di Vincenzo Calcara – Le cinque entità rivelate a Paolo Borsellino”, scritto dalla giornalista Simona Mazza, che raccolse le testimonianze dell’ex pentito (analoghe testimonianze, sono pubblicate sul sito 19luglio1992).
Alle domande in merito al ruolo di Francesco Messina Denaro e del perché non parlò di suo figlio Matteo, l’ex pentito affermò che Francesco Messina Denaro non poteva essere a capo di “cosa nostra” in quanto latitante (Riina, Provenzano e altri, non lo erano?) mentre di Matteo avrebbe spiegato successivamente perché non ne aveva parlato. I quasi trent’anni trascorsi dagli inizi della sua collaborazione, evidentemente, non permettevano ancora a Calcara di parlare di colui che se solo lo avesse indicato in quel lontano 1991, forse avrebbe impedito l’uccisione del Giudice Borsellino.
“Forse sarebbe il momento di dire la verità, lui e tanti altri – continua il Procuratore riferendosi a Calcara – proprio su questi punti oscuri che ancora impediscono di fare luce sulle ambiguità, sui misteri che ancora permangono nonostante i tanti processi celebrati nella ricostruzione di queste vicende”.
Paci sottolinea che Calcara dovrebbe chiarire per quale motivo, a quel tempo, lui, anziché parlare di Matteo Messina Denaro, cioè nasce l’astro nascente, indicò in Mariano Agate il capo provinciale di “cosa nostra”.
“Agate Mariano, che certamente non era un uomo secondo a nessuno per l’esperienza, è un uomo che è stato imputato e condannato nel primo maxi; è uno che dagli anni settanta fa traffico internazionale di stupefacenti ad altissimo livello. Cioè, qui non parliamo di Agate Mariano come fosse un uomo di secondo ordine, Agate Mariano è un uomo di primo ordine, di prima grandezza nel panorama mafioso, ma non aveva la qualifica di capo, di rappresentante della Provincia di Trapani. Qualifica che apparteneva a Messina Denaro Francesco, che cede in successione, con l’avallo di Totò Riina, al figlio”.
Già, perché Calcara indicò in Agate Mariano il capo di “cosa nostra” della provincia di Trapani e non Francesco Messina Denaro? Perché non fece il nome di Matteo, che durante quel periodo organizzava le stragi?
“Perché – continua il Procuratore – il signor Calcara abbia voluto indirizzarci verso qualcosa che non era storicamente preciso e perché non abbia voluto riferire del signor Matteo Messina Denaro quando era il momento di riferire, questo forse potrebbe essere la spiegazione di tante vicende e anche un punto d’ interesse per le future indagini”.
Sì, forse partendo proprio da Calcara si potrebbe iniziare a far chiarezza su molti aspetti oscuri delle stragi e su possibili connivenze tra appartenenti alle istituzioni e uomini di “cosa nostra”, tra intrecci politico-affaristici-mafiosi e quel qualcosa che oggi ancora stentiamo a credere e a nominare.
Quel che più addolora chi scrive, sotto il profilo umano, è stata l’ignobile capacità del falso pentito Vincenzo Calcara di non aver fatto nulla per salvare la vita del compianto Giudice Borsellino rivelando chi realmente era a capo della consorteria mafiosa della provincia di Trapani, e aver ingannato i famigliari del Giudice, anch’essi traditi, come tradito da un amico fu Paolo Borsellino. Ingannati anche gli investigatori, i magistrati e i giornalisti, con la stessa facilità contenuta nelle sue parole, raccontate da un suo compagno di cella: “Per prender per fessi i Giudici e i Carabinieri, basta solo un po’ di fantasia”.
Gian J. Morici
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E quindi anche per la Procura di Caltanissetta Calcara è un falso pentito, come per quelle di mezza Italia, tranne che per la Procura di Palermo. Che sia lì il suggeritore e protettore di Calcara? Su questo si dovrebbe indagare a fondo!