Chi ha paura dei fantasmi? A volte lo stesso fantasma all’interno del quale vive lo spettro del passato. Il 16 aprile, a Marsala, si è tenuta l’udienza del processo che vede imputato l’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, nel corso della quale ha testimoniato il Gen. Mario Mori.
Mori ha testimoniato di come Vaccarino – con lo pseudonimo di Svetonio – collaborasse con il Sisde per arrivare alla cattura di Matteo Messina Denaro. Collaborazione nota anche alla magistratura, visto che anche il Procuratore di Palermo Pietro Grasso, già a far data dal 2004, veniva portato a conoscenza dei rapporti tra il Sisde e Vaccarino.
Nel 2006, dopo la cattura del boss Bernardo Provenzano, la Procura, di Palermo indagò sull’ex sindaco e la vicenda della collaborazione con il Sisde venne resa di dominio pubblico con il risultato – secondo quanto dichiarato da Mori in udienza – di mandare in fumo l’operazione impedendo il probabile arresto di Matteo Messina Denaro. La testimonianza del Gen. Mori all’udienza del 16 aprile, due giorni dopo finiva sulla stampa.
A darne notizia con un primo articolo, un anonimo giornalista (l’articolo è firmato Redazione). Chi era questo giornalista presente in aula? Sappiamo tutti che a seguito dell’epidemia di coronavirus i processi in generale – e quel processo in particolare – si tengono senza la presenza del pubblico. Eppure, l’articolo riportava le dichiarazioni di Mori virgolettate. Sappiamo pure con certezza che la difesa di Vaccarino non ne diede notizia e tantomeno lo avrebbero mai fatto i testi e i magistrati presenti al processo. Non ne avevamo scritto – pur sapendo delle testimonianze – per non interferire con l’attività processuale in corso. Siamo stati costretti a farlo quando la notizia è stata pubblicata e non citava altri testi se non il Gen. Mori.
Anche in quel caso abbiamo preferito tacere attribuendo gli articoli all’anonimo giornalista al quale ci rivolgevamo. Ancora un paio di giorni ed ecco che veniva pubblicata una seconda notizia. Al processo del 16 aprile aveva testimoniato anche Gabriele Paci, il Procuratore aggiunto di Caltanissetta.
Il nostro anonimo “giornalista”, si era fermato soltanto alla deposizione del Gen. Mario Mori. Perché? Non è difficile comprenderlo. Mori nel corso della sua carriera ha combattuto la mafia, il terrorismo, condusse con l’allora Capitano Giuseppe De Donno l’indagine “mafia e appalti”, sostenuta da Giovanni Falcone e, dopo la strage di Capaci, da Paolo Borsellino che ritenne di individuare proprio in quell’indagine la causa dell’attentato a Falcone. Una gran brutta storia quella di quell’indagine che lo stesso Borsellino avrebbe voluto continuare e che, dopo aver chiesto a Mori e De Donno se fossero disposti a proseguire, ne chiese invano l’assegnazione all’allora procuratore di Palermo Pietro Giammanco (lo stesso procuratore accusato da otto sostituti di avere isolato Giovanni Falcone). Un’indagine archiviata poco dopo la morte di Borsellino. Già, mi uccidono due magistrati che s’interessano di un’indagine, e la prima cosa che penso di fare è quella di archiviarla.
Quell’indagine è evidente come non trovasse accoglienza da parte dei vertici della Procura della Repubblica di Palermo, a tal punto che la stessa entra in posizione di scontro con il Comando del ROS di Mori e De Donno.
Inizia il calvario di Mori
Dopo la cattura di Totò Riina, Mori viene rinviato a giudizio dalla procura di Palermo insieme con Sergio De Caprio con l’accusa di favoreggiamento nei confronti di “Cosa nostra”, per aver ritardato la perquisizione del covo del boss. Entrambi vennero poi prosciolti. Accusato di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano, impedendone la cattura nel 1995, sarà poi assolto con formula piena. Assolto ancora una volta in appello nel 2016, assolto una terza volta in Cassazione nel 2107.
Ma i guai giudiziari non finiscono lì. Mori nel 2010, viene iscritto al registro degli indagati della Procura di Palermo per l’ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa, la famosa “Trattativa Stato-Mafia” per la quale il 20 aprile 2018 viene condannato in primo grado a 12 anni di reclusione per il capo d’imputazione: “Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti”.
Di Mori e De Donno e dell’informativa “mafia e appalti”, quando – con la seppur minima parte dell’indagine sopravvissuta al maglio della Procura – vennero arrestati Angelo Siino (il “ministro dei Lavori Pubblici” di Cosa Nostra), Filippo Salamone, Giuseppe Li Pera, Antonio Buscemi e altri imprenditori legati a Cosa Nostra, sembra non ricordarsi più nessuno. Così come della cattura dei superlatitanti e quella mancata di altri grazie agli “spifferi” dei Palazzi finiti sulla stampa senza che ci sia mai stata un’indagine per individuare le “talpe” – questa volta sì Talpe – che mandarono in malora la copertura di Svetonio-Vaccarino.
Mori, resta quello dei “servizi segreti”. Il Direttore del Sisde. Sì, proprio quei “servizi segreti deviati” dei quali tanto si parla e dei quali nessuno ci ha mai detto a chi rispondano, visto che cambiano i governi, i presidenti del consiglio, i ministri, e loro sono sempre lì a deviare non si sa bene cosa. Del resto, favoleggiare sui servizi segreti (che esistono in tutto il mondo e sono organizzazioni ufficiali dello Stato, come le Forze dell’Ordine o le Forze Armate) sembra sia diventato lo sport nazionale. Se non c’è una partita di calcio della serie A, possiamo pur sempre parlare di servizi segreti. Chiunque abbia dato la notizia alla stampa della deposizione di Mori al processo Vaccarino, lo ha fatto con l’intento di gettare ombre su entrambi? Intanto, come da copione, qualche giornalino ne ha approfittato immediatamente per screditare ulteriormente la figura del Gen. Mori…
Perché il nostro “anonimo giornalista” non scrisse che al processo del 16 aprile aveva testimoniato anche il Procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci? Il Procuratore Paci è quello stesso magistrato che ha condotto le indagini sulla strage di via D’Amelio, sui depistaggi di Scarantino, sul coinvolgimento di uomini delle Istituzioni. Lo stesso magistrato del processo a carico del superlatitante di Cosa nostra Matteo Messina Denaro. Difficile adombrare la sua figura.
Giuseppe Cimarosa
Ma c’è un terzo testimone. Si tratta di Giuseppe Cimarosa, figlio del collaboratore di giustizia Lorenzo Cimarosa, al quale si deve il pentimento del padre. Certo, non è la figura di Peppino Impastato, Giuseppe per fortuna è ancora vivo e si sa, da noi gli eroi sono solo i morti. Cosa c’entra Giuseppe Cimarosa in questa vicenda? L’arresto e il processo di Vaccarino sono strettamente legati alla morte di Lorenzo Cimarosa. Vaccarino è infatti accusato di aver consegnato a Vincenzo Santangelo, titolare di un’agenzia funebre in passato condannato per mafia, i contenuti dell’intercettazione di una conversazione tra due indagati, i quali discutendo del funerale del collaboratore di giustizia Lorenzo Cimarosa, criticavano il Santangelo che, a loro dire, non si sarebbe fatto pagare il servizio di onoranze funebri.
Vaccarino ha sempre sostenuto di essersi interessato di questa vicenda proprio per l’affetto e la stima che lo lega a Giuseppe Cimarosa (v. video dal minuto 21:00).
Cosa ha detto Giuseppe Cimarosa nel corso della sua testimonianza? Giuseppe Cimarosa racconta di come personalmente la prima volta che conobbe Vaccarino fu poco dopo la collaborazione di suo padre. “Fu un periodo un po’ particolare – dichiara Cimarosa – perché si seppe la notizia ed io e la mia famiglia diciamo abbiamo vissuto un periodo di grande isolamento da parte della società, e non solo… Io conoscevo il dottore Vaccarino soltanto di nome, non l’avevo mai incontrato, però lui venne a cercarmi, venne a trovare me, mia madre e mio fratello a casa, si presentò. Fu la prima volta che lo conobbi, e anche con grande imbarazzo, perché la nostra situazione era un po’ particolare. Ci diede la sua solidarietà, la sua vicinanza, dicendo comunque che il percorso che aveva intrapreso mio padre era quello giusto e noi dovevamo esserne orgogliosi… E da lì iniziò un rapporto di grande affetto devo dire, perché mi è stato sempre molto vicino, con parole, ma anche con fatti”
Cimarosa racconta come il padre Lorenzo decise di collaborare con la giustizia senza condizionamenti esterni, ascoltando soltanto le parole di Giuseppe e quelle della sua famiglia, precisando, fra le altre cose, di non ricordare neppure che Vaccarino si conoscesse personalmente con il padre. “Mio padre sapeva chi fosse il professore Vaccarino, ma non si erano mai incontrati o parlati” – dichiara in udienza.
Alla domanda posta dall’Avvocato Baldassare Lauria – che insieme all’Avvocato Giovanna Angelo difende Vaccarino – se ricordasse manifestazioni pubbliche, laddove ci fu una sorta di critica dell’operato di Cimarosa, il teste prima di rispondere ha ritenuto opportuno ricordare quello che accadde quando si seppe della collaborazione di suo padre e lui e tutta la sua famiglia subirono un isolamento, da parte non solo della società, ma che furono anche osteggiati anche da alcuni personaggi del mondo dell’antimafia. “Anche a livello politico non abbiamo avuto appoggi, gli unici appoggi che noi abbiamo sentito sono stati quelli delle forze dell’ordine e dei magistrati. E noi ne abbiamo molto patito. Io personalmente, perché mi sono esposto anche mediaticamente e quindi… non sapevamo che fare sostanzialmente, avevamo tutti contro…”
È a questo punto che racconta un aneddoto a proposito di un consiglio comunale aperto voluto dal senatore Lumia perché si parlasse di una imprenditrice di Castelvetrano che aveva opposto un rifiuto a Cosa Nostra. Giuseppe Cimarosa aveva deciso di recarsi a quel consiglio comunale, tra l’altro aveva anche ricevuto la telefonata dal presidente del consiglio comunale che, pur se non ufficialmente invitato, ci teneva che lui ci fosse. “Quindi andai molto contento a questo evento – racconta Giuseppe Cimarosa nel corso della sua deposizione – perché pensavo che per la prima volta si sarebbero un po’ accorti di me e della mia storia. In realtà questo non accadde. Presente c’era anche… oltre il senatore Lumia, c’era anche all’epoca il Presidente della Regione Crocetta e tanti altri politici che io non ricordo, non li conoscevo, oltre tutto il consiglio comunale e a tante persone di Castelvetrano. Io mi aspettavo qualcosa sinceramente, mi aspettavo non un grazie, ma quantomeno che venisse riconosciuto a me e a mio padre anche, di avere collaborato e di avere dato il suo supporto e il suo contributo alla lotta alla mafia, perché questa era la cosa che mi rendeva orgoglioso”.
L’unico a ricordare di cosa rappresentasse Giuseppe Cimarosa e la collaborazione del padre Lorenzo, fu nell’occasione l’allora consigliere comunale Salvatore Vaccarino, figlio dell’ex sindaco oggi imputato, il quale, dopo aver espresso solidarietà all’imprenditrice – che era presente in aula – volle ricordare la storia di Giuseppe Cimarosa. “Venne messo a tacere immediatamente sia dal Presidente del consiglio comunale, ma anche dagli altri politici… dal senatore Lumia e Crocetta” – riprende Cimarosa in udienza. Era diciamo un periodo un po’ particolare, poi io capii perché accadde. C’era grande diffidenza, mi rendo conto che poteva esserci, era normale, perché comunque una storia come la nostra non è frequente che possa accadere, però i motivi non erano solo quelli. Devo riconoscere che in quella occasione l’unico che prese parola a mia difesa, a mio favore, fu il figlio del dottore Vaccarino…”
Quello stesso Vaccarino del quale il teste Cimarosa dichiara che in quei momenti particolari, quando molti paesani e persino una certa antimafia prendevano le distanze da lui e dalla sua famiglia, dopo che il padre aveva iniziato a collaborare con la giustizia, gli fu molto vicino. “Mi è stato molto vicino… – prosegue Cimarosa – era la cosa per me la più preziosa in quel momento e lo è tuttora. Lui è stato il primo, l’unico che all’inizio me ne ha dato (sostegno – ndr), poi comunque è stato sempre presente, da allora ad adesso facendosi spesso sentire, per sapere come stavo, come stavamo”. Narra inoltre di come Vaccarino si presentò con un prefetto a una gara sportiva di equitazione organizzata dallo stesso Cimarosa, esponendosi in un momento in cui a suo favore non si esponeva nessuno perchè tutti avevano paura…
Una testimonianza, quella di Cimarosa, che offre una lettura dell’interessamento di Vaccarino verso il giovane Giuseppe, analoga alle spiegazioni che l’ex sindaco ha dato in merito al suo interessamento al funerale di Lorenzo Cimarosa. Una testimonianza ricca anche di aspetti umani, intrisa della sofferenza di chi ebbe il coraggio di condurre il padre sulla via della collaborazione con la giustizia, venendo abbandonato dalla società civile e da una certa antimafia, potendo contare solo sulla solidarietà e il supporto soltanto da parte di magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine e di Vaccarino…
Sembra quasi che un fantasma si aggiri per buie stanze. Un fantasma che non trova pace. Che sia quello di un giornalista che scrisse di una sola testimonianza ignorando le altre due sulle quali nessuno avrebbe potuto favoleggiare?
Gian J. Morici
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