Non si può pensare di sconfiggere la mafia senza conoscerne le regole. Quello che spesso ci troviamo a contrastare è la manifestazione esterna del potere criminale, la sua violenza, la sua ingerenza nel tessuto sociale. Ovvero, stiamo curando il sintomo ma non la malattia.
Se realmente vogliamo sconfiggere questa metastasi maligna, dobbiamo andare alla sua radice. Questo lo avevano ben compreso Giudici come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, i quali, oltre a contrastare la manifestazione esterna del potere mafioso, provarono, e spesso riuscirono, a comprendere le dinamiche interne all’organizzazione, gli insegnamenti, le regole funzionali a creare il mito dell’ “uomo d’onore”, il modello di riferimento.
Giovanni Falcone riteneva che la mafia dopo la trasformazione da mafia rurale a mafia cittadina avesse mantenuto sì le regole da rispettare ma che in realtà, più che il rispetto delle regole, fosse importante l’immagine, l’apparenza del rispetto delle regole.
Un’avventura extraconiugale – un tempo punita con la morte – diveniva dunque accettabile purchè non fosse sotto gli occhi di tutti, non destasse scandalo.
La rigida moralità assumeva dunque un ruolo soltanto di facciata. Quelle circostanze di facciata che sono costate la vita a Lia Pipitone, uccisa a 25 anni, con l’assenso del padre, Nino Pipitone, sol perché si chiacchierava troppo sulla sua amicizia con un uomo. Ieri sono stati condannati i suoi assassini. Lia era sposata e suo padre era un “uomo d’onore”. Un uomo senza un briciolo di umanità, di amore paterno e neppure di quell’onore con il quale ci si riempie la bocca per comportarsi peggio delle bestie. Che almeno quelle uccidono per sopravvivere…
In un contesto di questo genere, laddove “per onore” si uccide la propria figlia, laddove “per onore” il figlio di uno “sbirro” non può entrare a far parte di “cosa nostra” – così come affermò il Giudice Paolo Borsellino nel ’91 dinanzi al Csm riferendosi al presunto pentito Spatola – il figlio di un uomo che ha stuprato la propria figlia, e che per questo ha scontato una condanna in carcere, può fare parte di una delle più potenti famiglie mafiose dell’isola?
Forse sarebbe stata sufficiente questa considerazione per mettere in discussione l’attendibilità di Vincenzo Calcara. Un Giudice attento, qual era Paolo Borsellino, se non fosse stato ucciso senza averne il tempo, avrebbe certamente analizzato questo aspetto che nella mentalità di Cosa nostra non è certo secondario ad altri principi. Tanto più che neppure l’immagine ne era salva, considerata la condanna e la carcerazione del reo.
Ma non sono questi gli argomenti i merito ai quali vorrei oggi porre qualche domanda al signor Calcara (e altri).
Inutile anche porre la domanda sulle ragioni che lo spinsero a tacere il nome di Matteo Messina Denaro quando iniziò a collaborare con la giustizia nel 1991, poiché nonostante abbia rivolto personalmente a lui questa domanda, l’unica laconica risposta ottenuta è stata: “lo spiegherò!”
E dire che di tempo non ne è mancato, considerati i lunghi decenni trascorsi…
No, alcune domande che voglio porre, sono le stesse che spesso Calcara rivolge ad altri.
Perché nonostante la sua insistenza, signor Calcara, nessuno ha ritenuto di doverla sentire al processo “Borsellino Quater”? Perché, visto che era lei l’uomo d’onore riservato di Francesco Messina Denaro, che a suo dire le aveva affidato il compito di uccidere il Giudice, nessuno ha ritenuto che una sua eventuale audizione al processo sarebbe stata utile?
Perché, nonostante lo abbia chiesto, non è mai stato sentito al processo in corso a Caltanissetta che vede imputato Matteo Messina Denaro, per le stragi del ’92? Quel Matteo Messina Denaro del quale lei dice di aver fatto il nome dopo, senza spiegare quanto dopo e senza spiegare il perché non lo abbia fatto prima.
Leggendo il libro sui suoi memoriali, apprendo che lei fu tra coloro i quali trasportarono l’esplosivo per uccidere il Giudice Borsellino e che ne era perfettamente consapevole:
“Fui incuriosito dalla presenza di una cassa enorme: alta un metro e mezzo e larga almeno un metro. Ci dissero di caricarla facendo estrema cautela e la cosa destò in me un dubbio che presto si trasformò in certezza, ovvero che la fantomatica cassa fosse piena di esplosivo. Chi era il bersaglio? La risposta era oramai abbastanza chiara: il tritolo avrebbe dovuto uccidere quel maledetto giudice che stava procedendo troppo spedito in direzione della Mafia; quel Borsalino che voleva annientare la Piovra dalla radice. L’esplosivo era un regaluccio per lui!”
Signor Calcara (e altri), posso farle la domanda se fu mai indagato per questo suo ruolo nel compimento delle stragi?
E ancora, se me lo permette, di un altro morto vorrei parlare. Non dell’omicidio di Tilotta per il quale seppur condannato a 15 anni si è sempre professato innocente, ma di quell’omicidio avvenuto a Latina, del quale mi ha parlato telefonicamente sostenendo di essere stato creduto dai giudici, descritto così nei suoi memoriali:
“Nell’attimo in cui sparavo ero stato sostituito da uno dei tre uomini dei servizi segreti deviati, che si era preso in consegna il buon Generale. Quando fu tutto finito, presi la semiautomatica del morto e la consegnai nelle mani del mio Capo Assoluto Messina Denaro Francesco, che mi fece una carezza, e dandomi poi un buffetto affettuoso sulle guance mi disse: “Bravo” evidentemente gli piacque vedermi uccidere un uomo”.
Orbene, signor Calcara (e altri), è mai stato indagato e condannato per quell’omicidio?
Sarebbero tante altre le domande che vorrei fare a lei (e altri), ma per oggi mi fermo qui. Mi riterrei già soddisfatto se lei (e altri) voleste soddisfare queste mie piccole curiosità.
In attesa di un suo riscontro, le porgo i miei saluti
Gian J. Morici