Non credo che le cose importanti accadano per caso. Anche il caos ha le sue regole che a noi miseri mortali magari sfuggono. In questi giorni ho riflettuto a lungo in merito ai depistaggi messi in atto sulle stragi del ’92 e mi sono posto delle domande.
Tutti sappiamo che a Caltanissetta è in corso il processo che vede imputato Matteo Messina Denaro, come uno dei mandanti per le stragi di Capaci e via D’Amelio, in cui persero la vita i magistrati Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti delle scorte.
Un processo scaturito dalle più recenti conclusioni, stando alle quali il boss latitante prese parte, alla fine del ’91 a Castelvetrano, a riunioni nel corso delle quali venne pianificata la strategia stragista di “cosa nostra”.
Riunioni delle quali più volte ho scritto, chiedendomi anche perché non fosse stato sentito dai giudici un testimone che aveva dichiarato la propria disponibilità a raccontare degli incontri tenutisi a Castelvetrano alla presenza di Matteo Messina Denaro.
Tra i tanti pentiti, più o meno credibili, che hanno narrato di fatti di mafia, uno in particolare ha suscitato la mia curiosità: Vincenzo Calcara!
Non è un caso se mi sono soffermato su questa figura, le cui propalazioni, accreditate anche da sentenze di alcuni tribunali, hanno riguardato diverse vicende, dal delitto Calvi, all’attentato a Papa Giovanni Paolo II, ai rapporti di Andreotti con “cosa nostra”, all’incarico ricevuto a uccidere il Giudice Paolo Borsellino.
Sulla credibilità di Calcara, ho una mia personale opinione, rispetto la quale sarebbe sufficiente un’attenta analisi dei fatti riportati in atti giudiziari, confrontandoli con le dichiarazioni di molti altri pentiti e, soprattutto, con atti documentali di inoppugnabile veridicità, ma anche con quanto dallo stesso dichiarato in più circostanze, anche con i suoi “memoriali” pubblicati in un libro.
È stato proprio leggendo i suoi memoriali, che mi sono reso conto delle innumerevoli castronerie che, confrontate anche con le sentenze, avrebbero dovuto indurre a una maggiore attenzione le autorità che a vario titolo hanno trattato con questo eclettico personaggio.
Uno dei protagonisti dei suoi memoriali, è l’Architetto Toro che così viene descritto:
“Quando andai a trovare Toro a casa, mi dimostrò sentimenti d’affetto inimmaginabili. Mi trattò come un uomo di famiglia, con la stessa enfasi e l’impeto che si riserva alle persone più care. Oltretutto mi sovrastava con la sua stazza, visto che era decisamente più alto e robusto di me (che non sono comunque piccolo).”
Non conosco Calcara ne so quanto sia alto, ma stando a un ulteriore passaggio del libro (“finiva contro un muro poco più alto di me, che sono uno e settantotto”) devo dedurre che Toro avesse una corporatura ciclopica, vista la descrizione che ne fa. O il Calcara mentì persino sulla sua altezza?
E tra una contraddizione e l’altra, arriviamo alla rapina in Germania che, oltre a condurre il Calcara dietro le sbarre, lo porta a essere “posato” da “cosa nostra”. Una rapina condotta con la sua donna dalla quale aspettava un figlio e dal fratello di lei: “Finiti i primi sopralluoghi, decisi che per evitare brutte sorprese, sarei dovuto entrare insieme a un impiegato prima dell’apertura. Tornai alle 7 di mattina e mi piazzai davanti alla banca per osservare i movimenti. Controllai per diversi giorni di fila e notai che il direttore della banca arrivava ogni giorno alle 7 e mezza, mezzora prima dell’apertura”.
“Ogni giorno alle 7 e mezza, mezzora prima dell’apertura” – scrive Calcara – salvo il giorno della rapina, quando quei dieci minuti necessari ad arraffare i soldi, furono uno dei motivi che li portarono all’arresto: “Ci piazzammo ognuno al suo posto e alle sette e tre quarti arrivò l’impiegato-direttore, si fermò davanti alla porta e tirò fuori le chiavi.” Le sette e tre quarti…
Che dire poi del concetto di “pentitismo” di chi ha sempre fatto vanto del recuperato concetto di onestà (ma a tal proposito forse val la pena di conoscere le vicende giudiziarie più recenti”):
“Marina, al contrario del fratello, negava ogni cosa. Questo mi rende orgoglioso ancora oggi. Per questo suo atteggiamento è stata condannata a 3 anni di carcere e il bambino è nato in carcere. Si è comportata veramente come una donna d’onore! Al contrario di suo fratello che si è dimostrato un quaquaraqua (…) Marina aveva assorbito la mia cultura, quella di non dire mai la verità agli sbirri”.
Se tutto questo può apparire irrilevante ai fini di valutare la veridicità di quanto il pentito ha di volta in volta dichiarato, altrettanto non può dirsi per ciò che attiene fatti che sono stati oggetto d’indagini e di pronunciamenti da parte dell’Autorità Giudiziaria.
Prendiamo ad esempio l’uccisione del turco coinvolto nell’attentato al Papa e così descritto dal Calcara:
“Furnari e Santangelo avevano ucciso il Turco lasciandolo steso sul ciglio di una stradina di campagna che distava circa 1 Km dalla casa di Lucchese (Calderara, frazione di Paderno Dugnano). Quando si presentarono a casa dissero queste parole: “Tutto a posto.” dopo di che, il Lucchese, mi ordinò di andare con Furnari e Santangelo a seppellire il Turco. Era buio pesto. Arrivammo sul luogo in cui giaceva il corpo dell’uomo. Lo spogliammo completamente e lo trascinammo per alcune decine di metri in aperta campagna, dove c’era un campo di granoturco.
Con badili e pale, scavammo una fossa profonda circa due metri e vi buttammo il Cadavere, cospargendolo di benzina e, se non ricordo male, anche dell’acido. Poi lo seppellimmo in quell’infossatura del terreno!”
Una sepoltura in un campo di granoturco, che tale rimane nella narrazione del libro, anche quando Calcara narra della scomparsa del cadavere: “La prima cosa che chiesi al Dott. Priore e al Dott. Marini fu quella di portarmi a Calderara (…) dove avrebbero potuto trovare il cadavere del Complice di Ali Agca. Purtroppo quando arrivammo sul posto, arrivò la conferma dell’esattezza dei presentimenti di Borsellino. La mafia mi aveva anticipato e aveva fatto sparire una prova micidiale. L’obiettivo era di certo quello di screditarmi!
Una persona del posto disse al Dott. Priore: “Nel mese di Marzo 1992 ho visto alcune ruspe che hanno messo sottosopra tutto il campo, da sempre seminato a granturco, perché dovevano fare dei lavori”. Ripeto, conoscevo bene la zona ancor prima di seppellire il Turco con le mie mani. Campo completamente pianeggiante. Hanno cercato di insabbiare le prove, mi hanno tolto tutte le prove, ma non hanno cancellato la mia memoria.”
Una memoria che non sembra poi così infallibile: “Sì, perché ricordo tutto e non posso credere che un terreno abbandonato per dieci anni possa essere stato sconquassato in quel modo, se non appunto per un obiettivo preciso, quale il dissotterramento di un cadavere, per evitare che le istituzioni potessero portare alla luce la macabra scoperta.”
Ecco dunque che il famoso “campo di granoturco”, diventa improvvisamente “un terreno abbandonato per dieci anni”.
E se fin qua, le discrasie possono apparire irrilevanti, ben diversa è la storia scritta negli atti giudiziari ai quali nessuno sembra aver fatto caso. Una storia che nei prossimi giorni andremo ad analizzare, soffermandoci su quei particolari dei quali non si sarebbe potuto non tener conto.
Ma torniamo ai memoriali e alle “Cinque Entità” che sono parte integrante e peculiare delle propalazioni e del racconto di Calcara. Cosa sono e da chi sono composte le “Cinque Entità”?
Ce lo racconta Calcara nel libro: “Le cinque Entità sono: Cosa Nostra, la Ndrangheta, e pezzi deviati di Istituzioni, Massoneria e Vaticano (…)
Esse sono intimamente legate le une alle altre, come se fossero gli organi vitali di uno stesso corpo. Hanno gli stessi interessi. Cercano di favorire ad esempio, il consolidamento di uno stato conservatore garante degli interessi di un’oligarchia ristretta, creando pertanto una ragnatela di interessi spregiudicati per garantire prima di tutto la loro sopravvivenza.
E per sopravvivere e restare sempre potenti, le Entità si aiutano l’una con l’altra usando qualsiasi mezzo, anche il più crudele (…)
Le Entità creano una fitta rete di penetrazione e spionaggio, sovversione ed eversione, vigilando su tutto anche con mezzi poco ortodossi (…)
Ogni entità agisce in perfetta autonomia, senza subire interferenze generate dalle altre, con regole al loro interno. Non si tratta di una società anonima, senza volto, ma di un apparato composto dal fior fiore dell’intellighenzia…”
Una narrazione che sembrerebbe trovare riscontro anche con le tante indagini che riguardano le collusioni tra soggetti politici, poteri economici, mafie e pezzi deviati delle Istituzioni, spesso questi ultimi identificati con i Servizi Segreti Deviati (vogliamo chiamarli S.S.D. o somiglia troppo alla sigla della Banda Bassotti?) dei quali si fa uso e abuso nei memoriali.
La domanda è: perché cinque Entità, distinte e ognuna delle quali con una propria autonomia, e non un numero superiore che rappresenti diverse categorie? Che senso avrebbe infatti pensare a due diverse Entità per Cosa Nostra e Ndrangheta, salvo poi racchiudere in una sola Entità tutti i pezzi deviati delle Istituzioni?
Se le Entità per sopravvivere e garantirsi il potere creano una fitta rete di penetrazione e spionaggio, sovversione ed eversione, vigilando su tutto, come potrebbero mancare i rappresentanti dei singoli tre poteri dello Stato?
Di due di questi poteri (legislativo ed esecutivo) ne troviamo traccia in quasi ogni singola operazione di polizia che riguardi gli intrecci politico-mafiosi-affaristici. Ma senza il potere giudiziario, potrebbero sopravvivere le “cinque Entità”? E senza quest’ultimo potere, si sarebbero potuti mettere in atto i tanti depistaggi che riguardano le stragi?
Se alti rappresentanti del potere esecutivo possono essere sospettati (e a volte condannati) per aver preso parte ad attività criminose la cui gravità la possiamo giudicare anche dall’esito di recenti inchieste, perché ci dovremmo indignare dinanzi il sollevare il dubbio che anche rappresentanti del potere giudiziario possano avere avuto parte attiva nei depistaggi?
Del resto, non è una novità il fenomeno dei dossieraggi basati su informazioni personali o segrete utilizzate come strumento di ricatto o per distruggere un avversario politico o economico. Di cosa meravigliarsi dunque se gli stessi sistemi fossero stati utilizzati anche in ambito giudiziario? Non era forse il timore degli stessi giudici Falcone e Borsellino?
Chi dovrebbe denunciare tutto questo, se i giornalisti e la stessa classe politica, che pure spesso è chiamata a render conto delle proprie malefatte, tacciono? Canis canem non est (cane non mangia cane).
E chi a quella categoria non appartiene? Purtroppo, anche in questo caso, difficilmente potrà agire. Specie se non ha alcuna tutela ed è soggetto a quella legge di natura secondo la quale il pesce grande mangia quello piccolo…
Cosa si cela dietro i silenzi sul processo in corso a Caltanissetta? Cosa c’è dietro qualche articolo stampa che, quasi ad orologeria, ha dato notizia di un presunto testimone che conoscerebbe Matteo Messina Denaro e che, certamente per puro caso, nonostante si tratti di due diversi soggetti, porta lo stesso nome di battesimo (seppur di fantasia) del testimone degli incontri del ’91, del quale avevamo dato notizia appena qualche settimana prima, auspicando che venisse sentito dai magistrati?
A volte ho come l’impressione che anche talune attività investigative, giornalistiche e giudiziarie, vengano condotte con un tempismo e una foga tale da rivelarsi utili a spostare l’attenzione da fatti seri – quali quelli del processo a Matteo Messina Denaro o quelli che riguardano alcuni pentiti – verso aspetti totalmente insignificanti che nulla aggiungerebbero a quanto non si sappia già.
Ma è ovvio che si tratta soltanto di un’impressione e sono certo che questo non impedirà che si possa cercare di fare chiarezza su quello che accadde nel ’92, uno dei periodi più bui e tristi della storia del nostro paese.
Gian J. Morici