Dal mimetismo della farfalla cedronella che per sfuggire ai nemici naturali assume le sembianze di una foglia, ad alcune piante, come le orchidee, che con colori o odori attirano i propri insetti impollinatori, ci insegnano come l’inganno in natura non sia prerogativa dell’essere umano.
Se in natura l’inganno possiamo indicarlo come falsità, e comunque finalizzata alla conservazione della specie o all’evoluzione, nel caso dell’essere umano non è così. Infatti, non è detto che il contrario della menzogna risponda a verità e neppure che la menzogna abbia un fine, per così dire, nobile, come può esserlo in natura. Si può essere sinceri pur dicendo qualcosa di diverso da quella che è la realtà perché crediamo che sia tale e in tal caso potremmo parlare di verità putativa, nella quale non c’è il dolo della consapevolezza della menzogna. Una sorta di autoinganno.
Ci sono invece casi nei quali non v’è dubbio che la costruzione di una verità inesistente avvenga in maniera dolosa per trarne beneficio in danno di altri.
È questo il caso dei falsi pentiti, i quali si avvantaggiano della fiducia che riponiamo in loro, a volte per debolezza cognitiva, altre volte perché costretti dalle circostanze e dalla mancata possibilità di mettere a confronto la falsa verità che ci viene proposta con i dati che la smentirebbero.
Quello che di più grave avviene al giorno d’oggi, è la capacità che abbiamo di punire chi svela la menzogna. Tanto per citare un caso recente, quello che è accaduto con il sito di Michelangelo Coltelli, Butac – Bufale un Tanto al Chilo – che è stato posto sotto sequestro preventivo a seguito di una querela per diffamazione che risale al 2015. Un sito nato per scoprire le bufale, che fino a qualche giorno fa ha reso un ottimo servigio, e che oggi si trova sotto sequestro.
“La verità trionfa da sola, la menzogna ha sempre bisogno di complici” sosteneva Epitteto. Ma anche questa è una bugia. O forse una mezza verità. La verità, infatti, per trionfare a volte ha bisogno anche dell’aiuto di altri, ma non certo di “complici”, come avviene invece nel caso della menzogna. E forse ne ha tanto più bisogno quanto più si appalesa come l’ingannatore possa esistere solo grazie al fatto che esiste la possibilità di trovare chi si lascia ingannare.
È questo il caso di Vincenzo Calcara, l’uomo che, a suo dire, avrebbe dovuto uccidere il Giudice Paolo Borsellino. Come non avrebbe dovuto trovar credito in quanti per stima o per affetto erano legati al Giudice che il “pentito” diceva di voler salvare, svelando a lui stesso il progetto omicida che lo vedeva vittima designata?
Che l’attendibilità del Calcara sia stata poi smentita da altri pentiti – questi sì giudicati attendibili – e dalle decine di pagine scritte dai magistrati, ha poca importanza. Certamente lo stesso Paolo Borsellino – così come avvenne per il pentito Spatola – se ne avesse avuto il tempo, avrebbe sbugiardato il Calcara. Ma sentenze e testimonianze riguardano un piccolo numero di “addetti ai lavori”, non il grande pubblico che affida le proprie conoscenze all’acquisizione delle notizie riportate dalla stampa.
Eppure, in questo caso, è leggendo il libro del “pentito” Vincenzo Calcara, che ci si può fare una chiara idea di come la menzogna raggiunga le cime più elevate mescolandosi a verità – magari acquisite de relato o attraverso le notizie riportate dalla stampa – e trasformandosi nella manipolazione che porta la vittima a credere alla bugia, seguendo inconsciamente il desiderio di conferme a una verità che ha ormai fatto propria.
È sufficiente una rapida lettura di alcune pagine del libro per rendersi contro dell’incongruenza delle dichiarazioni e di come le stesse avessero avuto due diverse finalità in due diversi momenti della vita del pentito.
Un primo momento, quando Calcara mette in atto quanto scritto al proprio avvocato nel 1983. Ovvero, la richiesta di un consiglio in merito alla possibilità di dichiararsi disposto a fare rivelazioni relative a omicidi di mafia e altro, per ottenere l’estradizione dalla Germania dove era detenuto e dove sosteneva che un anno di prigione equivalesse a cinque anni trascorsi in un carcere italiano.
Rivelazioni false che, secondo il “pentito” al massimo gli avrebbero fatto rischiare una condanna per calunnia, facendogli però risparmiare lunghi anni di detenzione nelle carceri tedesche.
Un interessante ritratto del “novello pentito”, è quello che successivamente ne fa Sarullo Calogero, anch’egli detenuto in Germania durante il periodo in cui vi si trovava il Calcara, il quale, avendo appreso del “pentimento” dell’ex compagno di carcere , scrive al Giudice Genna Andrea, Presidente del Tribunale di Marsala:
“…non faceva altro che informarsi sulla mafia (riferendosi al periodo trascorso insieme nel carcere tedesco) e anzi cercava qualcuno per farlo diventare mafioso, così poi diceva che poteva fare finta di essere come Buscetta, e si prendeva tutti i soldi e pure la libertà. Mi confidava che voleva mettere in ballo un sacco di persone importanti, come onorevoli, sindaci e altri del suo paese e di altri vicini paesi. Si inventava che erano mafiosi, anche se lui non conosceva nessuno, o di vista o per sentito dire o perché l’aveva letto sui giornali. Voleva inventare che spacciavano, però chiedeva notizie sulla droga, che non ne capiva niente. Mi confidava che bastava prendere per fessi i Giudici e Carabinieri. Bastava un po’ di fantasia…”
E fin qui, si tratta soltanto della furberia di un lestofante pronto a tutto pur di sottrarsi al duro regime carcerario tedesco. Del resto, non dobbiamo dimenticare le “indubbie qualità” di un uomo che dopo aver truffato un milione di vecchie lire (500euro ca) a un povero disgraziato, nel momento in cui gliene viene chiesta la restituzione, non esita ad ucciderlo.
L’apoteosi dell’inganno, forse il più biasimevole, la raggiunge in un secondo momento, quando fa leva sul dolore e sui sentimenti dei famigliari del Giudice dopo il suo vile assassinio. Calcara scrive nel suo libro che conosce la Signora Agnese nel ‘92, dopo l’uccisione del marito, Paolo Borsellino. Manfredi – il figlio del Giudice – nel corso di una deposizione dichiara di aver conosciuto Calcara come nome, visto che il padre si era occupato di questo collaboratore, e che solo mesi dopo la strage lo stesso cominciò a telefonare e scrivere alla famiglia Borsellino, glorificando la figura del Giudice.
Entra così nelle grazie dei familiari di Borsellino, tanto da ricordare nel suo libro come la Signora Agnese e il figlio Manfredi lo accolsero quando lo portarono a visitare la tomba del loro congiunto. Dopo essere uscito dal programma di protezione nel ’98, scrive Calcara, nel 2001 la Signora Agnese lo mandò dal vescovo di Ivrea affinchè gli desse una casa e lavoro. Lavorò per lui dal 2002 al 2009.
Manfredi Borsellino, nella sua deposizione in tribunale, sostiene di essersi reso conto, negli anni, che Calcara era una persona che andava aiutata, visto che comunicava telefonicamente e via mail rappresentando disaggi economici notevoli. Memore del fatto che il padre aveva potuto portargli un aiuto minimo (sigarette, schiuma da barba…) decide di aiutarlo e non fa mistero di avergli pure pagato l’assicurazione della macchina.
Un aiuto di entità diversa rispetto quello che lascia intendere nel libro e nei post su Facebook il Calcara: “È solo grazie a questa famiglia unica e speciale – scrive nel libro – se sono riuscito a sopravvivere sino a oggi insieme alla mia compagna e alle mie quattro figlie”.
Calcara, inoltre, ricorda anche come nell’autunno 2008, dopo aver ricevuto minacce di morte perché non testimoniasse al processo Calvi, scappò da Ivrea e venne aiutato dalla famiglia Borsellino che gli trovò una casa e un appezzamento di terreno dove iniziò a vivere facendo l’agricoltore.
Se i Borsellino avessero saputo che Calcara al processo Calvi aveva già deposto come teste all’udienza del 10 maggio 2006, si sarebbero subito accorti dell’incongruenza della presunta minaccia del 2008. Ovvero, due anni dopo che era stato già sentito come teste. Ma di vere o presunte minacce, la vita del pentito e della sua compagna sono costellate. Come quando dopo una minaccia subita dalla compagna, il Calcara, ad “altissimo rischio di vita”, rende noto il proprio indirizzo dove vive con la famiglia, pubblicandolo sulla sua pagina Facebook, affinchè i suoi ammiratori potessero inviargli del denaro…
Ancora una volta, i sentimenti fanno sì che nessuno si accorga delle discrasie delle affermazioni del Calcara. Non se ne accorge neppure un più lontano parente del Giudice, il quale, nonostante sia un criminologo, non nota nulla di strano nei comportamenti del “pentito”. Anzi, ne esalta le virtù. A tal punto da permettere che nel libro venga riportata una sua versione in merito la visita del Calcara alla famiglia Borsellino: “Vincenzo era in contumacia. È venuto a Palermo in gran segreto, perché i nemici dello Stato non lo vogliono. Non si deve sapere né da dove parte, né da dove viene…”
Già, poco importa se poi lui non farà mistero neppure di dove risiede…
Eppure, già prima che i Borsellino si prodigassero nel 2008 a trovargli un appezzamento di terreno da coltivare, dopo essere fuggito da Ivrea a seguito delle minacce di morte, l’autorità giudiziaria aveva sancito l’inattendibilità dello pseudo pentito. Tanto per citare un esempio, un ANSA del 19 luglio 2005 riporta come Calcara fosse sotto processo per calunnia e per la DDA di Palermo non fosse un pentito attendibile. Andando a ritroso, oltre le tante pagine scritte dai magistrati, un’altra ANSA, questa volta del 01 dicembre 1998 riporta come Tiziana Maiolo, componente della Commissione Antimafia, sottolineasse com’era “scandaloso che gli organi investigativi, a partire dalla Dia, non siano stati in grado di catturare un così pericoloso latitante (Francesco Messina Denaro –ndr) … mentre ci si è accaniti, sulla base di dichiarazioni di un pentito rivelatosi del tutto inattendibile, Vincenzo Calcara, su persone poi estranee ai fatti..”
Atti parlamentari, testimonianze processuali, sentenze, che forse nessuno ha letto, tanto che lo stesso figlio del Giudice Borsellino, nel corso della sua testimonianza lascia intendere di aver appreso talune notizie solo tramite gli organi stampa. Persino il fatto che gli avessero commissionato l’omicidio del padre, lo apprese dalla stampa quando il padre era ancora vivo.
Quella stessa stampa che il 21 ottobre 2002 dava notizia di come negli anni precedenti “Calcara, nel corso di un processo, ebbe a dire in aula che era proprio curioso di vedere fino a che punto arrivava la giustizia italiana, ammettendo di aver fatto anche dichiarazioni non veritiere. (ANSA).
Tornare indietro e rivedere le proprie opinioni è difficile. Inconsciamente è forse più facile reinterpretare il nostro modo di pensare le cose. Difficile e doloroso mettere a confronto i dati oggettivi e indizi; rimettere in discussione ogni cosa liberandosi dai pregiudizi.
Eppure, è l’unica scelta possibile per arrivare a conoscere la verità e smascherare un uomo che puzzava di posticcio lontano un miglio, dopo che negli anni successivi alle stragi le sue propalazioni vennero fatte a pezzi anche dalla stessa magistratura. Il non prenderne atto, ha finito con il permettere l’inganno in danno di altre persone che forti della credibilità acquisita dal Calcara in seno agli affetti più intimi del Giudice, hanno creduto alle sue parole.
Proprio nei giorni scorsi, un giornalista che fino a poco tempo fa aveva creduto allo pseudo pentito, invitava un familiare di Borsellino a prenderne le distanze: “ il pentito Calcara è indifendibile. Glielo dice uno che, sbagliando, negli anni passati, lo ha sostenuto, concedendo ampio spazio sulla stampa. Bisogna avere il coraggio di prendere atto degli errori di valutazione” – scriveva il giornalista sulla sua pagina Facebook.
Cosa ci attendiamo dal processo in corso a Caltanissetta che vede imputato Matteo Messina Denaro per le stragi del ’92? Ci attendiamo la verità?
“Il valore dell’uomo non sta nella verità che qualcuno possiede o presume di possedere, ma nella sincera fatica compiuta per raggiungerla” – Gotthold Ephraim Lessing.
Gian J. Morici
Su questa vicenda mi faccio tante domande ma la prima è: il giudice Andrea Genna, dinanzi alle prime inequivocabili prove della inattendibilità del Calcara, come ha potuto incorrere in tale errore emettendo dure condanne basate solo sulle dichiarazioni di un personaggio tanto squallido quanto falso? Solo incapacità oppure il Genna é un tassello del sistema depistatorio?
Gent.mo Sig. Andrea,
non credo che il giudice Genna faccia parte di un sistema depistatorio.
Molto probabilmente, all’epoca dei fatti, Calcara godeva ancora di una certa credibilità, forse anche grazie all’erroneo conforto della famiglia del Giudice Borsellino, e per contro la lettera del Sarullo appariva come una voce isolata la cui credibilità era da dimostrare.
Discorso ben diverso oggi, visto che magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine, testimonianze e altro, hanno finito con il mostrare il vero volto di un pentito, o pseudo tale, che non avrebbe meritato alcun credito.
Certo, oggi, chiunque non può fare a meno di dover prendere atto di quanto emerso dai processi.
Ai tempi del Giudice Genna, così come quando era ancora vivo il Giudice Borsellino, questi fatti erano ancora sconosciuti.
Veramente grave sarebbe invece continuare a dar credito a questo personaggio, dopo aver avuto prova di quale sia il suo spessore e la sua moralità.
Cordialmente
G. J. Morici