America, dove vai?
È da un po’ che me lo chiedo. Mi sono anche chiesto se è giusto vergognarsi di un Paese che ti ha dato i natali e che prima di te li ha dati a tua madre. Capita a tutti nella vita di sentire criticare il proprio Paese d’origine e, ovviamente, mi era già accaduto in passato, quando parlando della politica estera degli Stati Uniti, le critiche erano rivolte ai presidenti americani guerrafondai, asserviti alle lobby delle armi e così via dicendo.
Neppure le accuse a Reagan – definito da molti un criminale – o ai Bush, mi avevano mai portato a dovermi vergognare come un cane di quella grande Nazione, nel bene e nel male, che è l’America.
Non sono un “buonista” e neppure un credente, quindi chi legge può risparmiarsi di accusarmi di appartenere a una di queste categorie. Sono un assertore convinto del diritto-dovere di ogni nazione di garantire la sicurezza dei propri cittadini e sono anche convinto che per ottenere questo sia necessario avere un maggiore controllo dei flussi migratori alle proprie frontiere, avere un ordinamento giuridico che punisca severamente taluni reati, avere la certezza della pena.
Quali che siano le mie opinioni e i miei valori, lo dimostra la mia storia nel contrastare – a mio rischio – il fenomeno del terrorismo islamico, infiltrandomi tra le loro fila.
Fatte queste premesse, oggi mi trovo a provare vergogna a causa del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Un uomo nel quale non riesco a comprendere se prevalga più la stupidità o uno scellerato progetto che rischia di portare il mondo intero verso il baratro di una nuova guerra. Le sue dichiarazioni shock, utilizzate nel corso di un incontro con alcuni membri del Congresso, con riferimento agli immigrati, provenienti da un “cesso di Paesi”, hanno suscitato non poche rimostranze e critiche, anche all’interno del partito di questo presidente che cura più la sua capigliatura che l’interesse nazionale.
Il seminare odio, in un momento qual è quello che stiamo attraversando, avrà come unico risultato l’acuirsi delle tensioni e la recrudescenza di fenomeni di estremismo violento, che sia quello del fanatismo religioso o quello razziale. L’America e il mondo, hanno bisogno di tutto questo?
Il Tweet-President non è l’uomo della strada, i cui stupidi cinguettii possono non avere conseguenze. Questo idiota è a capo di uno dei Paesi più potenti al mondo – se non il più potente in assoluto – e ogni parola che pronuncia ha un notevole peso negli equilibri geopolitici e nel campo dell’economia.
Dalle esternazioni sessiste, a quelle razziste (come quelle pronunciate lo scorso giugno quando affermò che i 15mila haitiani arrivati negli Stati Uniti nel 2017 “hanno tutti l’Aids” o i 40mila nigeriani arrivati in America “non torneranno più nelle loro capanne”) non passano inosservate.
Non mi sono mai vergognato tanto di essere americano.
Purtroppo – ed è questo l’aspetto peggiore della vicenda – le parole di Trump hanno una valenza politica e spesso sono condivise da una moltitudine che specula politicamente su un populismo che rischia di diventare pericolosissimo e riproporci errori e orrori del passato che speravamo non dovessero più ripetersi.
Tutti pronti ad aborrire quello che significò il nazismo – del quale, per molti aspetti, si inorridì anche Mussolini – oggi, parte dell’opinione pubblica plaude a un presidente americano che avrebbe avuto il coraggio di dire ciò che pensa. Lo pseudo “coraggio” di un idiota che ha poi cercato di ritrattare sulle parole pronunciate, dimenticando di essere il presidente e non l’ultimo cretino della strada. Non sono un simpatizzante di Putin, ma devo ammettere che come statista e sotto il profilo strategico, anche della comunicazione, non può temere la concorrenza del folle capelluto biondo. Putin agisce, non parla a vanvera.
Quanti ancora oggi accusano George W. Bush che solo pochi giorni dopo l’11 settembre 2001 dichiarava che non tutti i musulmani erano terroristi e meritavano rispetto, salvo poi intraprendere una selvaggia guerra neo-coloniale contro l’Iraq basata su una palese menzogna?
Una guerra che ha provocato la morte di centinaia di migliaia di civili innocenti e di soldati – americani e non – e che ha aperto le porte alla nascita dell’ISIS.
Oggi condanniamo quella guerra che si poteva tranquillamente e ragionevolmente presumere avrebbe avuto le conseguenze alle quali assistiamo. Contestualmente, però, facciamo il plauso a questo circo grottesco. Alla gara tra Trump e Kim Jong Un, giocata sul filo delle minacce di attacchi nucleari, tra due idioti che sembrano giocare a chi ce l’ha più grosso.
Quanto è profonda la nostra disconnessione da ciò di cui dovremmo vergognarci di più?
Sono sempre di più gli americani che esprimono la loro delusione e indignazione su dove sta andando il Paese; quelli che temono le conseguenze delle azioni del presidente peggiore dei tempi della storia contemporanea degli Stati Uniti; quelli che ricordano il silenzio da parte del popolo e della stampa sull’inimmaginabile numero di morti in Iraq, per una guerra pianificata a tavolino.
Che Trump sia più cretino che criminale, o viceversa, poco importa. Forse è solo l’utile idiota funzionale a una guerra che nasce dai soliti interessi: armi, energia, ricostruzione ecc.
Quanto pericolosi possono essere gli stereotipi persistenti e di ampia portata e la disumanizzazione dei popoli, che stanno portando una parte della società ad accettare e condividere il pensiero di un Tweet-President, senza valutarne le conseguenze?
Nella valanga di copertura mediatica dei cinguettii di questo idiota, i media nazionali americani e la stampa estera fanno poca o nessuna menzione del pericolo che rappresentano. Questa riluttanza dei media non è sorprendente, dal momento che ricalca quanto già avvenuto dopo l’11 settembre, con le conseguenze che abbiamo visto. A quale nuova guerra dobbiamo prepararci?
Tra le reazioni più dure alle parole di Trump, le dimissioni da parte dell’ambasciatore americano a Panama, John Feeley, che ha dichiarato: “Come funzionario del ministero degli Esteri ho firmato il giuramento di servire il presidente e la sua amministrazione senza farmi condizionare dalla politica, anche se posso non concordare con certe scelte. Le mie istruzioni sono chiare: se ritenessi di non poter più servire, sarebbe per me un obbligo d’onore dimettermi. Questo momento è arrivato adesso”.
Una scelta, quella delle dimissioni, che ha potuto fare John Feeley nella qualità di funzionario del ministero degli Esteri, ma che non possono fare i cittadini americani in quanto tali.
Grazie, Tweet-President. Grazie a te, mi vergogno di essere americano!
Gian J. Morici
P.S. Se come accaduto a Peter Strzok, l’agente dell’FBI che hai rimosso la scorsa estate definendolo un “traditore”, vorrai definire traditori tutti coloro che ti accusano, ne saremo onorati. Vorrei solo ricordarti che per la legge americana il “traditore” è un nemico degli Stati Uniti, non chi critica un presidente idiota che è il vero nemico di tutto ciò che rese grande questa Nazione.