Il 18 dicembre ha testimoniato a Palermo Luciano Violante ex magistrato, ex iscritto al P.C.I., ex Deputato, ex componente e, poi Presidente della Commissione Antimafia, ex Presidente della Camera (ma i giornali sembra abbiano voluto ricordare solo la presidenza dell’Antimafia, non quella della Camera, ritenuta, forse meno importante).
Ha testimoniato nel processo cosiddetto (anzi dovevamo dire “il cosiddetto processo”) della “trattativa Stato-Mafia”.
Luciano Violante è uomo di grande intelligenza ed abilità politica. E’ il vero fondatore del Partito dei Magistrati, autore del marchingegno con il quale “traghettò” praticamente l’intera Magistratura nel difficile guado del referendum sulla responsabilità civile dei Magistrati salvandola, (e salvando il P.C.I. che non poteva non sostenerli) da una solenne batosta, facendoli uscire sostanzialmente vincitori della partita malgrado l’ottanta per cento dei voti del Popolo Italiano per la fine della loro irresponsabilità.
A Palermo, Violante è andato in una situazione in cui, obiettivamente, doveva badare essenzialmente a “pararsi le terga”. A volerlo teste d’accusa ma, in sostanza, quale “imputato” (sia pure del ridicolo “reato” di cui si tratta in quella commedia giudiziaria) era una Magistratura ingrata, una “scheggia impazzita” di quel Partito dei Magistrati da lui fondato o, almeno, reso possibile, che, poi, sembra ora gli contesti la sua “conversione al garantismo” a lungo più o meno sinceramente e manifestamente professata in vista di una agognata nomina alla Corte Costituzionale. Nomina che non è arrivata e che ora direi non possa più arrivare.
Violante recentemente è stato attaccato con violenza da quello che Ingroia definisce “l’organo ufficioso della Procura di Palermo”, Antimafia 2000 (il sito internet del Guru Bongiovanni, quello che parla con gli extraterrestri) che pare gli rimproveri una sostanziale partecipazione alla demoniaca “trattativa”, soprattutto per avere caldeggiata (in verità un po’ freddamente) una normativa per sconti sostanziosi di pena per i mafiosi “dissociati” ma non “collaboranti” che ricalcasse quella che era stata introdotta per i terroristi. Una proposta indubbiamente e gravemente sbagliata, ma non per questa “trattativista” né tanto meno “delittuosa”.
Violante ha saputo abbastanza bene destreggiarsi. Chiamato a confermare che il gen. Mori gli aveva riferito la richiesta di Vito Ciancimino di avere un colloquio riservato con lui (cosa negata dal gen. Mori, in grado, ora, di esibire la lettera con la quale Ciancimino aveva chiesto, invece, di essere ascoltato dalla Commissione Parlamentare Antimafia, allora presieduta da Violante), ha “spostato”, così dovrebbe dirsi, la richiesta del colloquio “riservato”, che egli avrebbe respinto, a data anteriore a quella della lettera. Il confronto richiesto dal gen. Mori sul punto e rifiutato perché “irrilevante” dai giudici avrebbe potuto chiarire la questione. Anche l’ingratitudine ha, qualche volta, un limite.
Ma, a ben vedere, se c’è qualcosa di somigliante alla logica che può aver peso in quella specie di processo “per tentativo di subire il ricatto della mafia”, proprio la richiesta di un colloquio con Violante da parte del presunto “mediatore” (dirò poi perché ritengo che Ciancimino non poteva esser tale) starebbe a dimostrare che quella “trattativa”, anche se ci fosse stata, sarebbe stata tutt’altro che un delitto consumato o tentato. Perché sarebbe stata veramente una “trattativa con lo Stato”, che è fonte di legittimità e di legittimazione, quando si esprime attraverso il Potere Legislativo, di cui il Parlamento (e la Commissione Antimafia che ne è espressione) è depositario. E Violante, oltre tutto appartenente ad un partito di opposizione, nella sua funzione istituzionale, anche riservatamente, non avrebbe potuto che “trattare” provvedimenti legittimi, ex lege, espressione della potestà dello Stato di legiferare e, quindi di conferire legittimità alle norme, ancorché criticabili improvvide, sciagurate (come spesso avviene).
Certo questo significa che quel processo, per il fatto stesso che in esso si discuta di quell’addebito come di cosa seria, è una solenne baggianata. Peggio: è esso stesso (o, almeno, lo sarebbe ad usare un metro diverso da quello garantista oggi in disuso) oggettivamente un delitto. Un attentato di tipo Komeinista alla sovranità dello Stato, a quella del Parlamento.
Ma, come ho accennato poc’anzi, ho buone ragioni per ritenere impossibile che Vito Ciancimino avesse funzioni di mediatore con la mafia per una qualsiasi “trattativa”. Vito Ciancimino era un disperato. Sognava di riemergere in politica.
Ripeto quanto ho scritto l’altro giorno e alcune altre volte in passato.
Ne ebbi la prova un giorno in cui si presentò, senza alcun preavviso e senza che io lo conoscessi, nel mio studio in Roma per propormi una sua candidatura nel Partito Radicale (oramai già allo sbando e nel quale ero stato “scomunicato” per essermi opposto al suo scioglimento) ed a chiedermi di caldeggiare tale candidatura, millantando la “disponibilità” di voti (settantamila) e la sua possibilità di fare “grandi cose” in Parlamento. Faticai a togliermelo di torno. Era, dunque disposto a battere a qualsiasi porta, anche quella che, come nel mio caso, addirittura non c’era. Mai la mafia si sarebbe servita di un uomo in procinto di affogare per “agganciare” la barca dello Stato. E’ assai più probabile (e starebbe a significare che Ciancimino non avesse perso del tutto la ragione) che, magari, volesse intraprendere la via di un vantaggioso pentimento, magari millantando un po’ l’utilità per la controparte (le rivelazioni su Lima).
Ma torniamo a Violante. Nel suo abile barcamenarsi ha voluto concedere qualcosa che non gli costava nulla. Ha riferito di essere rimasto sorpreso della decisione (di Conso) di sostituire Nicolò Amato con Alberto Capriotti alla guida del Dipartimento degli istituti di pena al Ministero della Giustizia.
“Amato aveva fatto bene, gli fu preferita una persona con poca esperienza”.
Violante non ha detto tutta la verità. A parte la “poca esperienza” di Capriotti (qualsiasi magistrato che va a quel Dipartimento non ha “esperienza” di carceri) non ha detto quello che certamente sapeva: che si era dovuto trovare in fretta e furia un posto di adeguato livello per Capriotti – ottimo magistrato, mite, riservato e severo) costretto a lasciare la Procura Generale di Trento perché vittima di una mattana o mascalzonata di Carlo Palermo, che da Giudice Istruttore a Trento ne aveva fatte di cotte e di crude con il famigerato processo “armi e droga” e poi era andato “a combattere la mafia” a Trapani, dove la mafia si macchiò di un orrendo delitto con un attentato a lui diretto nel quale persero la vita una madre con i due bambini. Palermo se la cavò rimanendo, come si dice, un po’ “intronato”. Andò in pensione “privilegiata” per infermità di mente aggravata da tale attentato e, quindi, per causa di servizio. Si mise a fare l’avvocato (ne aveva fatti arrestare parecchi nella sua famigerata inchiesta). Un giorno, avendo avuto occasione di tornare a Trento, andò a far visita a Capriotti, Procuratore Generale, e si mise a dirgliene di tutti i colori a carico del Procuratore presso il Tribunale, Luzzi, che aveva cercato di arginare le sue baggianate (persino quello di procedere senza l’iniziativa del P.M.).
Capriotti, persona cortese e paziente, allo scopo di toglierselo al più presto di torno prese a dar segno di assenso ed a “dargli ragione” (come si fa con una certa categoria di persone). Senonché Palermo aveva un registratore nascosto e subito si recò ad una televisione locale e fece sentire “il parere del Procuratore Generale” sul Procuratore della Repubblica.
L’ottimo Capriotti chiese subito di lasciare la sede di Trento dove, suo malgrado, era divenuta impossibile la sua permanenza. La destinazione, per evitare la trafila del concorso al C.S.M., era necessariamente quella ad un posto d’alto livello al Ministero. Appunto a quello delle Carceri. Dove certo non si arrese alla mafia, se dovettero adottare misure eccezionali di sicurezza per lui e per la famiglia costringendolo a vivere in un luogo “blindato”.
Violante non poteva riferire tutto ciò. Carlo Palermo, che non ha pagato per quella né per altre appena meno gravi imprese, era stato applaudito al tempo del “processo armi e droga” dal P.C.I. in cui era autorevolissimo esponente istituzionale lo stesso Violante, poi, dopo il pensionamento “per l’infermità aggravata per causa di servizio” era stato fatto eleggere dal P.C.I. primo consigliere regionale del Lazio, poi deputato, collega di Violante.
Si capisce che era meglio per l’ex Presidente della Camera sorvolare su quell’episodio, che peraltro rendeva un po’ meno “sorprendente” la nomina di Capriotti all’Istituto di Prevenzione e di Pena.
C’è da rimanere sorpresi se Violante ha dimenticato di “integrare” il discorso sulle sue “sorprese”?
Mauro Mellini