Se qualcuno dubitasse della saggezza dell’istituto della prescrizione nel processo penale, credo che dalla sentenza di ieri della Corte d’Appello che, a distanza di quarantuno anni dal fatto ha condannato all’ergastolo gli accusati della “strage di Piazza della Loggia”, dovrebbe trarne motivi sufficienti per ricredersi. E per considerare che la norma che esclude i reati puniti con l’ergastolo da qualsiasi ipotesi di prescrizione (istituto che, invece, viene additato come contrario al principio di “verità”, quasi complice del crimine e dei criminali) dovrebbe del pari essere oggetto di severe considerazioni critiche.
Certo su tutto ciò prevale un’altra e più grave considerazione: quella per la quale l’Italia è un paese nel quale tra gradi ordinari del giudizio, giudizi di rinvio, annullamenti e nuovi giudizi di rinvio si può far durare un giudizio quarantuno anni (e di più, perché manca ancora un ultimo (?) giudizio della Cassazione).
Certamente, se è assurdo giudicare qualcuno per un crimine commesso quarantuno anni fa, magari perché è tardata la “scoperta” del crimine o l’individuazione dell’accusato, ancor più assurdo, grottesco e, se possibile, comico, è il fatto che a durare decenni sia il balletto delle condanne, assoluzioni, ricondanne, riassoluzioni e così via.
In altri Paesi l’imputato assolto non può essere giudicato nuovamente neanche in un giudizio di appello.
Da noi una “novella”, subito oggetto delle ire del Partito dei Magistrati, aveva escluso la possibilità del P.M. di impugnare l’assoluzione dell’imputato, ma con una vera e propria gherminella la Corte Costituzionale, dichiarata incostituzionale altra norma e, poi, rilevando la “ingiustificata disparità” da ciò derivante per tale divieto, ha reintrodotto tale impugnabilità (esercitando, di fatto, un potere che non ha).
Ma torniamo alla sentenza di ieri.
Chi leva alto l’osanna per la “verità”, sia pure tardivamente riconosciuta, dimentica che tutte queste indagini “storiche” della magistratura (specialmente quella “democratica”) sui maneggi, devianze di poteri e di Servizi, dietrologie pressoché sempre “americane”, trame più o meno nere, il tutto più o meno reale o fantasioso, sono condotte dimenticando intenzionalmente proprio una verità “storica”, tale nel senso proprio di tale concetto: quello degli equivoci e delle ambiguità che hanno costituito una costante della vita politica interna ed internazionale del nostro Paese, almeno dagli anni della guerra in poi. Equivoci malamente coperti da reali momenti di ricerca di riscatto, come la Resistenza, che non sopprime il fatto della guerra civile. E poi la Repubblica, mal digerita da una parte considerevole del Paese, e la Costituzione, compromesso di opposte riserve mentali delle principali forze politiche che la redassero in simulata uniformità di intenti.
E poi, gli equivoci di una democrazia falsamente universalmente condivisa e di una falsa “legittimazione” reciprocamente professata dalle forze politiche nei confronti di quelle avverse. Di qui i Servizi Segreti “deviati”, tali poi ritenuti quando non esprimevano che la reale collocazione istituzionale e internazionale del Paese, o, magari, ritenuti più “affidabili” quando si coloravano di simpatia e di legami con i cultori della nostalgia del regime totalitario e sgangherato che formalmente ci eravamo lasciati dietro le spalle.
Che la “verità storica” di fatti sicuramente turpi, ispirata da tali indiscutibili ma volutamente dimenticate ambiguità obiettive, possa essere raggiunta attraverso delle pronunzie giudiziarie, è non solo impossibile, ma grottesco e ridicolo.
Se qualcuno, domani, volesse riscrivere la storia d’Italia, secondo i “giudicati” della magistratura, ne verrebbe fuori un pasticcio da consegnare ai posteri per soddisfare il senso dell’umorismo piuttosto che per contribuire alla conoscenza di ciò che correttamente può considerarsi “storia”.
Per questo il fatto mostruoso in sé di una “giustizia” fatta (ma anche ancora “da fare”) dopo quarantuno anni è ancora più mostruoso e grottesco se si pretende di sottolinearne il valore “storico”.
Ho sempre considerato un momento grande e generoso per la vita del mio Paese la frase pronunziata da parte di un Uomo per cui, fin da ragazzo, ho avuto la più grande ammirazione. Ugo Foscolo “bello di fama e di sventura” morto in povero esilio mentre altri si arrangiavano a voltar gabbana, che nella sua famosa prolusione universitaria a Pavia disse “Italiani io vi esorto alle istorie!”.
Alle “istorie”, alla storia, che è momento grande della conoscenza per lo spirito umano, che non passa mai in giudicato e non si fonda su giudicati. Non alle storie e storielle, alle dietrologie ed archeologie costruite su eventi delittuosi, che, al di là ed al di sopra della esigenza del far giustizia nei modi, nei tempi e con gli intenti che debbono esser propri di tale funzione, si pretende, invece di trarre dal giuoco screditato di processi inevitabilmente grotteschi e sospetti.
Mauro Mellini – www.giustiziagiusta.info