Come affermato da Matthew Olsen, direttore del US National Antiterrorism Center (NCTC), l’ISIS, ancor più delle altre organizzazioni terroristiche, sta dimostrando di avere una capacità senza eguali nell’utilizzare le piattaforme online di social network a fini propagandistici.
Il ruolo importante che avrebbe assunto la rete anche in questo campo, lo avevamo compreso fin da quando iniziarono le rivolte che portarono alla cosiddetta “primavera araba”. Le rivolte nascevano e correvano lungo la rete. Partendo da un’Op lanciata attraverso i social network, si arrivava alla rivolta; quella vera, quella fatta di sangue, dolore e morte.
Fu grazie a quest’intuizione, e al monitoraggio costante in rete di soggetti che potevano rappresentare fonti d’informazione attendibili, che riuscimmo a dare la notizia della rivolta in Siria due giorni prima che la stessa iniziasse. Ma non solo le rivolte nascevano in rete. Alle informazione sulle forme di resistenza, rispetto le quali ancora oggi non sempre sono chiare le prospettive e le finalità, si aggiungevano quelle di altri gruppi nati sui social che facevano da corollario alle rivolte stasse. Persone e mondi tanto distanti fra loro, quanto a volte diversi, che entrano in contatto, scambiano informazioni tra loro, si organizzano.
Un tweet rimbalza da un capo all’altro del mondo. Ripreso, ripetuto, lanciato nuovamente. Sono i nuovi spazi di comunicazione che – come avevamo già scritto qualche anno fa – propongono nuovi scenari di strategia della tensione con metodi e mezzi tanto innovativi che stentiamo a comprendere.
E mentre i media, compreso quei giornalisti che scrivendo per testate nazionali si definiscono “esperti di geopolitica e terrorismo, ci spiegano che i terroristi dell’ISIS utilizzano i social network postano o twittano foto e messaggi e hanno creato magazine per sponsorizzare la propria causa – lo avranno appreso a seguito delle dichiarazioni di Matthew Olsen – in rete si combatte un’altra guerra per bannare dalla rete il proprio nemico.
Muslim Hadeeth – vedi foto accanto e clicca per ingrandire – invia un tweet a twitter chiedendo che vengano bloccati i profili di presunti supporter di organizzazioni terroristiche, la risposta non si fa attendere ed ecco che Akhbar Mujahid 5 – uno dei presunti supporter dei terroristi – insieme ad Abu Aminah lanciano il loro tweet chiedendo alla propria rete di contatti di segnalare l’account di Hadeeth.
Una battaglia condotta sul campo a colpi di mitra, mortai e bombe a mano, e in rete con raffiche di tweet e di segnalazioni finalizzate ad “uccidere i profili nemici”, il tutto mentre l’Islamic State News, altro profilo jihadista, trascorsi un paio di minuti manda un tweet per Akhbar Mujahid 5 chiedendo di seguire e diffondere i messaggi dei “fratelli” con il nuovo account.
Una battaglia senza esclusione di colpi della quale è difficile seguire ogni singolo passaggio. C’è chi muore sul campo, chi virtualmente, chi uccide veramente e chi colpisce il profilo di un nemico che letale è anche nella realtà.
Ma se le azioni o gli attentati trovano spazio nel mondo dell’informazione o nella diffusione delle notizie da parte degli stessi autori delle gesta che hanno tutto l’interesse ad ampliare gli effetti propagandistici dei loro successi, la guerra che si combatte in rete sembra essere destinata a pochi professionisti, a vario titolo addetti ai lavori, che pazientemente seguono decine di profili, ne spiano messaggi pubblici e privati, raccolgono dati, immagini e informazioni di ogni genere (a volte anche da decriptare) che li portano ad avere un quadro più completo su quali siano gli scenari che si prospettano a livello globale.
Foto dopo foto, messaggio dopo messaggio, vengono immagazzinate informazioni sugli spostamenti dei presunti terroristi, le richieste di qualcuno a voler essere martirizzato, le foto di chi parte, di chi muore, di chi ritorna.
E mentre le forze di polizia – come nel caso dei francesi – si fanno vanto di essere riuscite ad espellere dal proprio paese qualche soggetto vicino a gruppi terroristici, le informazioni contenute negli archivi di questi addetti ai lavori mostrano un volto del terrorismo ben più temibile di quello presentato sulle prime pagine dei giornali.
Conflitti come quello siriano o quello iracheno attirano combattenti provenienti da più parti del mondo. Terroristi per fede, mercenari, perseguitati che rifugiatisi all’estero tornano in patria per combattere.
Se ribelli e mercenari non rappresentano un problema per gli europei, lo stesso non si può dire dei rimpatriati che avendo ricevuto indottrinamento radicale e formazione nell’uso di armi ed esplosivi, tornano dai campi di battaglia o dai campi d’addestramento pronti a portare a termine attacchi terroristici nei loro paesi d’origine.
Centinaia e centinaia di uomini che scampati alla morte durante i combattimenti, tornano per seminare sangue e morte in casa propria. La rete è fatta di immagini, messaggi, storie di vita e di morte. Tra queste tante storie, anche quelle di chi tornerà nel paese d’origine a combattere contro un nemico che non sa d’esser tale: il vicino di casa, i compagni di scuola del proprio figlio, l’anziana che fa la spesa al supermercato, i passeggeri di un autobus o i tifosi che escono dallo stadio.
Gjm