“Coraggio, osate!”
(in La morte di Empedocle – Friedrich Hölderlin)
Non è facile spiegare per chi scrivere, per cosa scrivere, le motivazioni interiori sono molto complesse e spesso non molto consapevoli.
Per me, di sicuro, la scrittura è una sorta di impellenza, di necessità intrinseca, che talvolta sono riuscito a organizzare in una forma accettabile tanto da avere trovato il coraggio di farla leggere.
Sono riuscito persino a pubblicare su alcune riviste che anch’io ho concorso molto immodestamente a fondare.
Ma la caratteristica più evidente della mia scrittura è che essa è teatrale, partecipa cioè a ciò che nel suo insieme si chiama drammaturgia, grande o piccola, bella o brutta, valida o scadente che sia.
Ho avuto la fortuna nel corso degli anni di mettere in scena qualche mio testo – il più conosciuto è Giselda – e tuttora ne metto in scena di altri, musiche comprese.
Qui ad Agrigento è faticosissimo già di per sé montare uno spettacolo su testi noti, figuriamoci un testo teatrale scritto da uno sconosciuto: devo comunque praticamente tutto alla benevolenza e alla disponibilità di alcuni amici, attori e attrici dilettanti, cosiddetti, ma anche professionisti qualche volta – in ogni caso tutti dotati di un’eccellente preparazione ed esperienza …
Ed ecco la solita terribile trafila: conoscenze politiche … assessori allo spettacolo … cercare di convincere sulla bontà dell’operazione, almeno sul piano culturale … ma poi le solite remore … quali garanzie si offrono … a quali compromessi andare incontro … il non volerli accettare … però lo spettacolo viene pagato troppo poco … il rischio che non piace alla gente e allora che figura ci fa l’assessore … “naturalmente poi parliamo” e via discorrendo, con tutte le frustrazioni del caso. Tra l’altro quasi sempre d’estate, quando le strutture “ufficiali” sono a riposo.
Certo, non si può pretendere che ci sia un posto dove andare e poter dire:
“Guardate, ho scritto questa cosa, che ne pensate?” – per quanto a me risulti che in alcune città del nord Italia, ma soprattutto all’estero, questo avvenga invece regolarmente, addirittura nelle scuole, come in Inghilterra.
Ho avuto e ho tuttora delle difficoltà a mettere in scena i miei testi … e di sicuro le strutture pubbliche non hanno questa propensione, chiamiamola così, ad aiutare, ad agevolare. Probabilmente ero e sono tuttora un ingenuo.
In realtà altre logiche regolano la politica culturale delle nostre amministrazioni: tutto ciò che il nostro territorio faticosamente esprime in termini di idee, talenti, capacità, tende di solito a essere messo in secondo piano, ad essere soffocato, più che valorizzato, con la conseguente dispersione di un ingente, qualificatissimo bagaglio di risorse intellettuali e artistiche – e tutto a favore di un teatro cosiddetto ufficiale, sovvenzionato, più o meno ricco, fatto di nomi noti, per lo più attori e attrici che spesso hanno un loro riscontro anche televisivo con tutte le mitiche suggestioni che ne conseguono – e costruito su testi assolutamente collaudati, classici, e adattati per l’occasione alle esigenze dei suddetti personaggi noti, e comunque selezionati in gran parte per compiacere il pubblico, per ricercarne il favore – agevolarne il consenso – premessa indispensabile poiché questo teatro persegue quasi esclusivamente logiche di profitto. In tutti i sensi.
Legittime, per carità, soprattutto in campo privato, in cui anzi è auspicabile una certa autonomia finanziaria, più o meno conquistata al prezzo del biglietto, che è anche autonomia di scelte e di intenti … un ambito in cui non si è disposti più di tanto a rischiare, per questo è richiesta una altissima professionalità, e ovviamente vi si prediligono testi di sicura presa, ampiamente sperimentati da una lunga e radicata tradizione.
La maggior parte di ciò che viene considerato sommerso, non ufficiale, qualche volta persino non-allineato – continua fortemente a esistere malgrado che le istituzioni mostrino ben poca propensione a valorizzarlo.
In linea di massima questo teatro non aspira a quello che volgarmente viene definito “professionismo”, spesso non ne ha i mezzi né la propensione, per quanto altrettanto spesso esprima capacità e talento non indifferenti, e a volte persino genialità.
Ma in ogni caso questo teatro è fatto di idee e di persone assolutamente vive e attive, ben più che presenti nelle varie realtà territoriali, in cui anzi assurgono spesso a unico centro di aggregazione e dibattito, riferimento importante per quei forse minimi pezzi di società che davvero manifestano convinti segni di rinnovamento, espressione di una specifica e soprattutto efficace originalità che rifiuta ad ogni costo il livellamento culturale – che poi è anche politico – perfettamente adattato a certe perverse logiche di potere altamente “televisionarie” e produttrici di massificanti, pericolosissimi, uniformanti consensi.
Qui sì che cominciano a intravedersi i presupposti per un teatro più vicino alla gente, in cui gli sguardi si toccano, reciprocamente, e che produce, quasi determina – in quanto frutto di una medesima appartenenza – una sua multiforme scrittura, che per me è attività continua, movimento continuo, scoperta continua: qualcosa di sorprendente che avviene ogni giorno, e che ogni giorno cerca di configurarsi come luogo “altro” dove è possibile che persino un dolore possa esprimersi e possa essere affrontato, creativamente, cioè con mezzi assolutamente non convenzionali – dove persino un dolore diventa – eredi di Pirandello, siamo! – risorsa espressiva formidabile, più che una tomba in cui rinchiudersi: la scrittura diventa un luogo dove le parole si fanno voce di tanti, voce come il gesto più potente di corpi-soggetti che tentano affannosamente di farsi riconoscere e di stimolare con la loro presenza l’espressione dell’altro, voce di corpi che finalmente diventano teatro – teatròn: cioè guardare! – e farsi guardare! – esporsi, e non per mero esibizionismo, ma per donarsi, per ritornare all’origine di questa stessa espressione, che è la gente a cui apparteniamo!, le persone che giornalmente frequentiamo, e con cui condividiamo umori e responsabilità, gioie e diversità: un contatto vitale, e perciò necessario – ne cessere: il non potersi esimere, dal recuperare l’essenza di questo sguardo-soggetto da trasmettere e ricambiare in questa realizzata dialettica attoreautore-spettatore, in cui l’uno è indispensabile all’altro, e in cui ognuno è, pariteticamente, ugualmente corresponsabile.
Soprattutto in Sicilia, in cui quasi mai lo sguardo è attivo, decisivo, ma passivo, statico, uno sguardo-oggetto che è servito semmai a scorgere nell’altro il nemico da cui difendersi, per sottrarsi al suo sguardo, e quindi all’incontro, al confronto, allo scontro, alla crescita, al rendersi conto.
E la scrittura teatrale fa parte di un sistema molto più vasto in cui il rendersi conto passa, con ulteriore necessità, anche e soprattutto attraverso la fisicità, la concretezza – che è anche sociale – del corpo: il corpo dell’attore.
Tra parentesi, la mia pur minima esperienza di scrittore si fonda, anzi non può in alcun modo prescindere dalla mia altrettanto minima esperienza di attore e medico.
Suscita curiosità, questa associazione, ma per me è inscindibilmente organica al mio modo di ESSERE NEL MONDO, prima ancora che al mio modo di PENSARE IL MONDO. E tutto questo mi ha portato col tempo a una fortunata INTEGRAZIONE, intesa proprio come processo vitale e opposto alla DIS-INTEGRAZIONE cui quotidianamente il mio corpo, ovvero il mio vissuto, il mio essere, è sottoposto.
E in questo senso – ecco: scrivere per chi?, per cosa? – scrivere per me può significare essere qui e ora, in un continuo atto d’amore che tenta – che osa – mettere insieme, simbolicamente, tutte le diversità di cui io sono portatore.
Questa scoperta dello sguardo reciproco, del guardare e dell’essere guardati come fatto attivo e interdipendente da cui scaturisce un nuovo modo di intendere il teatro, ovvero lo stare insieme in uno spazio condiviso, dischiude all’inimmaginabile e allena; e vinti gli iniziali turbamenti, gli iniziali e decisivi disagi, sposta i suoi soggetti in un ambito meno controllabile, meno sottoposto al dispotismo di un sistema, all’autocompiacimento, alla furba maniera, all’autoreferenzialità sterile, al facile consenso, all’accettazione passiva, sudditanze sociali e culturali a un dominio soverchiante, precostituito, pseudo-politico, pseudo-culturale, pseudo-erogatore di servizi, di false consolazioni, di false conferme.
Questo teatro fondato sullo sguardo reciproco, esattamente come avveniva alle sue origini, in qualche modo educa – dove sia possibile un’educazione più che “al” teatro, “del” teatro – educa a scoprirsi, a esporsi, ma allo stesso tempo a ben difendersi, educa a non inquadrarsi, nel senso di non rimanere prigionieri di un sistema di idee univoco, senza per questo dover soccombere. L’essenza di questo teatro consiste dunque nel saper reciprocamente vedere dentro, a volte persino al di là.
Teatròn: guardare. E anche TALÌA, una delle Muse a cui il teatro è associato – significa, in siciliano, imperativamente: GUARDA!
Le cosiddette politiche culturali, ovvero le varie politiche più o meno attuate a favore di questa ormai indefinibile e inafferrabile cultura, dovrebbero essere volte, oltre che a garantire notevoli somme ai soliti noti – pochi e inutili! – a indirizzare una minima parte delle risorse economiche disponibili alla creazione di spazi multi-funzionali fruibili a più livelli sia dai fruitori-cittadini che dai propositori-artisti o presunti tali.
Penso che vi si debbano, anche, mettere in scena testi di autori non conosciuti, persino di chi vorrebbe cimentarsi per la prima volta nella scrittura teatrale e non solo – ne avrebbe tutto il diritto – e anzi, perché no?, facilitare una sorta di singolar tenzone tra vari autori di diversa estrazione, che favorirebbe – così come avveniva nel nostro illustre passato, dai tragici greci al secolo d’oro spagnolo – l’interesse della gente e la sua partecipazione attiva alla funzione sociale del teatro – la sua partecipazione comunque! – suscitando critiche e scontri, confronti, avversioni e malumori, ma anche simpatie più o meno spiccate e decise preferenze: un modo per rianimare lo stare insieme delle nostre piccole, bistrattate micro-società altrimenti destinate – per mancanza di occupazione da una parte, e per eccesso di media dall’altra – a precipitare nella dimenticanza, nella morte sociale e culturale, nel forno crematorio degli interessi oligarchici e del profitto ad ogni costo!
Questo concetto della corresponsabilità apre a nuove prospettive nel modo di intendere il teatro e dà inoltre la possibilità di intuire altre motivazioni di una scrittura, perché mette per forza di cose insieme l’esperienza artistica con chi la fruisce, di modo che questa stessa esperienza sia riconosciuta come qualcosa che fa parte di un patrimonio culturale condiviso, è un sapere che si appalesa, una nuova conoscenza, o un’ulteriore possibilità di conoscenza che insieme si danno l’artista di teatro e i suoi spettatori, è la messa in evidenza, il disvelamento di un qualcosa che in ogni caso circola tra di noi e appartiene a ognuno di noi: e in questo senso non può esistere un teatro – e una scrittura a maggior ragione – disgiunto dal suo contesto di origine, di appartenenza – per quanto sia assolutamente possibile, per contro, che lo superi! – l’artista di teatro produce la sua arte che alla fine appartiene al contesto in cui lui abitualmente si esprime, la sua arte è l’espressione di quel contesto, più o meno consapevolmente. (Ciò richiama a quel contesto di sciasciana memoria che ha permesso la proliferazione di quell’entità difficilmente comprensibile al di fuori di tale contesto, appunto, che è la mafio-politica!)
Questo comporta delle conseguenze abbastanza radicali e concrete: che per favorire questo contatto, questa espressione congiunta artista-spettatori, è necessario ritornare in qualche modo all’origine, là dove questo stesso contatto si realizza appieno con estrema semplicità: in provincia, nei paesi, nelle periferie, nei quartieri dove l’espressione è più vicina al quotidiano che la determina, fatto delle piccole gioie e dei piccoli drammi tipici delle nostre zone, con i suoi antichi e ancora irrisolti mali: disoccupazione, carenza di servizi, mancanza d’acqua, di collegamenti e via discorrendo.
Anzi, dove più insiste il disagio, più l’espressione artistica vi si fa tentativo di superamento, di presa di coscienza, di distacco ironico, possibilità di aggregazione, di discussione, un modo proficuo di investire il tempo libero, un modo di trasformare un limite in risorsa.
Gli enti pubblici dovrebbero secondo me attuare per definizione una politica culturale che agevoli e faciliti questo tipo di espressione. La quale è il risultato inaspettato e imprevisto di una interazione fra tradizione e quotidiano, ed è proprio questo che caratterizza ciò che normalmente definiamo cultura viva, attuale, di una comunità.
E ad Agrigento il teatro ha un ruolo determinante nel contribuire a formare questa cultura, che si consolida in numerosi, piccoli spazi, misurati, spontanei, per quanto spesso marginalizzati – dove io, a partire dalle mie esperienze di teatro dialettale a Naro, nella mia adolescenza – dove io, dicevo, e quando l’apertura del teatro Pirandello era ancora di là da venire, ho cominciato a incontrare veramente gli altri, i loro problemi, il loro sentire – incontri che hanno stimolato continuamente il mio innato senso alla scrittura – in spazi per lo più di quartiere, ma fondamentali come primo luogo di aggregazione e verifica, come una volta per esempio il teatro parrocchiale del Villaggio Mosè (adesso sede della chiesa!, curioso, no?), o quello di San Francesco in via Pirandello (adesso sede di una mostra e spazio multivalente, recuperato alle Fabbriche Chiaramontane), o anche taluni spazi all’aperto come i marciapiedi di San Leone, Porta di Ponte, Piazza Cavour, il Caos, (e adesso persino l’esperienza di via Vallicaldi o Kulturart ad Agrigento a denunciarne, viverne e superarne il degrado: la STRADA!, la STRADA!) ‘a Scalunata a Naro, il Villaggio della Gioventù a Raffadali ecc … e nelle scuole, all’interno di una mostra pittorica, e persino a Casa della Speranza, o all’interno dell’ex Ospedale Psichiatrico, con tutte le loro implicazioni ecc …
Un altro spazio che mi ha permesso di misurarmi con una scrittura più complessa e affidata alla mia voce e alla mia musica, è il Teatro della Posta Vecchia di Giovanni Moscato. Una struttura indispensabile che mi ha permesso una verifica attendibile e seria di ciò che io, artista di teatro, posso fare ad Agrigento. Comunque un luogo propenso ad accogliermi e a promuovermi.
Ed è in tutti questi luoghi, che ho potuto confrontarmi con numerosissimi altri artisti troppo spesso non tenuti in giusto conto dalle istituzioni ufficiali – è lì che ci siamo riconosciuti in una matrice comune, questa agrigentinità che aleggia un po’ dappertutto sottoforma di genialità indolente e repressa – è lì che abbiamo imparato soprattutto ad esistere senza essere inglobati sotto l’ègida, protettiva e asservente, del Big Brother, quello vero.
E infine, ecco stagliarsi finalmente all’orizzonte lo spazio degli spazi, la madre di tutti gli spazi, l’ambìto, l’agognato, il bramato Teatro Pirandello (che poi è il prototipo di tutti gli “spazi istituzionali” che ognuno vorrebbe frequentare: gestire!, in quanto emblema – riconosciamocelo! – di potere in ogni caso: il potere del politico di turno, che ne trae consensi; del personaggio di turno, più o meno televisivo, più o meno culturale, che ne trae prestigio; del piccolo teatrante locale, più o meno bravo, più o meno conosciuto, più o meno frustrato, che ne trae conferme, alla fine di un processo di conquista fatto per lo più di strizzatine d’occhio e proposte di “svendita” ai rappresentanti più influenti dei partiti più forti: nulla di più anti-teatrale!).
È lì, come un processo di evoluzione naturale, che dovrebbe trovare il suo luogo per eccellenza, la sua più giusta ed efficace collocazione, la sua definitiva consacrazione – pronta finalmente a confrontarsi da pari a pari con le culture di altre città, di altre regioni, di altre nazioni – l’espressione di ciò che invece viene tuttora etichettata e degradata in maniera assurdamente dispregiativa come “CULTURA LOCALE”! Ma quali autori nuovi, quali scritture! Quando un cosiddetto autore vivente ad Agrigento riesce a mettere in scena qualcosa di suo, e con difficoltà di ogni genere, si può senza ombra di dubbio gridare al miracolo: altro che Padre Pio e San Calò!
La cosiddetta politica culturale delle varie amministrazioni sembra essere indirizzata al mantenimento di una vera e propria industria dello spettacolo che esclude, altro che incentivare!, le varie forme di espressione, più o meno colte, più o meno popolari, e che in gran parte costituiscono il vero humus di cui si nutre il nostro far teatro.
Io credo che sia finalmente venuto il momento qui ad Agrigento di dare allo spettatore-società almeno una possibilità di redimersi dal suo ruolo di atavico voyeur passivo, affinché diventi protagonista attivo di un evento che investe e riguarda tutti quanti, spettatori e attori-autori, ognuno col suo ruolo, ma tutti ugualmente coinvolti, ugualmente destinati a condividere la responsabilità, l’esito della rappresentazione stessa.
E non sembri la pretesa più o meno intellettualistica di affibbiare al teatro significati che probabilmente non ha.
Uno dei più grandi maestri di teatro vivente, Peter Brook, afferma:
“L’esperienza teatrale è davvero ampia perché per un momento l’individuo è elevato a uno stato di comunione con gli altri.”
E un grandissimo drammaturgo tedesco recentemente scomparso, Heiner Müller, amava dire:
“L’arte è legata più alla distruzione che alla produzione di ideologie. L’arte, il teatro, hanno senso solamente se impediscono alle cose di rimanere come sono.”
Evidentemente sto avvalorando una funzione sociale del teatro, nel senso che gli spettatori, a teatro, non smettono mai di essere società, sia pure divertendosi, perché no?, tanto per citare pedissequamente la lezione brechtiana – e ognuno con la sua peculiarità, la sua diversità:
“Funzione del teatro”, direbbe ancora Heiner Müller, “è sviscerare la vera, reale differenza”.
E questo contro gli ammannimenti di un dilagante modello televisivo, e soprattutto oggi, in Sicilia come in tutta Italia, dove non ci sentiamo più appartenenti a un sistema di regole legittime e democratiche che caratterizzano una società cosiddetta civile!
Il teatro, il nostro teatro, è ancora qui tutto da scoprire – non da inventare: da scoprire! – ci ricorda ogni giorno la nostra appartenenza a una tradizione ad Agrigento! – che aspetta solo di essere valorizzata, e inserita in quella circolazione quotidiana di saperi che esprimono la parte migliore del nostro essere siciliani, e la nostra convinta speranza di continuare a sentirci veramente orgogliosi di far parte ognuno di un tutto, questa nostra società, questa nostra Agrigento – che per me è, innanzitutto, la provincia italiana! – che abbiamo sì il dovere di mantenere, ma da cui, anche, reclamare il diritto a un sostegno.
2. Un teatro.
L’opinione di tutti sull’uno.
L’opinione di ognuno su tutti.
La società condiziona gli uomini, che a loro volta concorrono a formarla, creando un sistema che li contiene, li determina, impone loro varie identità, sottoponendoli poi a delle regole, non si sa mai bene da chi dettate, un ordine precostituito che infine li sovrasta e ne influenza l’esistenza.
L’opinione di tutti sull’uno.
L’opinione di ognuno su tutti.
PIRANDELLO – Ogni uomo è connotato socialmente dalle tante, infinite verità che tutti gli altri – la società – esprimono su di lui, determinandone così, imponendole, le identità.
SCIASCIA – Ogni uomo deve poter esprimere la sua opinione. Un insegnamento di Voltaire. Solo così è possibile garantire la democrazia, fondandola sulla pluralità delle opinioni, organizzate in uno – da uno – stato di diritto.
BRECHT – A noi artisti di teatro (intellettuali in genere, forse?) spetta il compito, la responsabilità, di stimolare gli altri ad esprimere la propria opinione, invitandoli a prendere partito, più che a identificarsi.
IGNACIO RUIZ Y VIEIRA – Che rapporto c’è tra artista e società?… Difficile dire. Personalmente prediligerei uno stare insieme come soggetti entro certi limiti autonomi, ma che s’incontrano e si confrontano sulla base di rispettive prese di posizione, tensioni, responsabilità, e, perché no?: ruoli.
HEINER MÜLLER – Credo ci si debba liberare da un modo di pensare standardizzato. Bisogna puntare sulla differenza: importante è la differenza, non la somiglianza o l’uguaglianza o l’unità. La funzione del teatro è sviscerare la vera, reale differenza. Ma per questo, e qui Brecht aveva ragione, ci vogliono mezzi formali e tecniche drammaturgiche.
MAOMETTO – Ma se il tuo Signore avesse voluto, avrebbe fatto di tutti gli uomini una sola Nazione (Cor 11,118; 16,93).
PIRANDELLO – Non ci sono più differenze: tutti qui, riuniti dal medesimo appetito. Oh, mi scusi, signora, non intendevo parlare di lei. Lo so, lei è ormai anziana (stulituta, vecchia ntròpita che non serve più a nessuno), ma senz’altro abbastanza esperta della vita da essere capace di distanziarsene. Una fortuna. Vede?, quella povera donna ha esercitato il suo antico mestiere finché non è rimasta fuori anche lei, dalla vita, ma con amara delusione. Quale tragedia, signora, vede?, anche quei bastardi di strada adesso non hanno più nessuno che li accudisce. E quei rognosi derelitti umani ancora non trovano di che mangiare, né un posto per dormire.
Oh, ci sarebbero di là due porci, vede? Ma io, che sono … norcino coscienzioso, non li scanno. Mica per pena, no: sono troppo vecchi, avvizziti, smagriti – quattr’ossa, travagliu nnutili …
Puorci cani e buttani
Quannu su’ viecchi
Muorinu di fami.
BRECHT – Noi non dobbiamo far altro che “usare”, siamo spinti a “usare”, amplificando a poco a poco ciò che è pur sempre un’abilità, a scapito di qualcos’altro che ha a che fare con la nostra percezione, sacrosantamente vera, di sentirci “usati”.
PASOLINI – Quali atteggiamenti, quali comportamenti, quali riflessi condizionati scattano in ogni individuo che s’assembra, in apparente equilibrio con gli altri, perfettamente incanalato, inserito in una rete di valori che si perpetuano e che nessuno mette mai in discussione?
HEINER MÜLLER – L’arte è legata più alla distruzione che alla produzione di ideologie. L’arte, il teatro. Hanno senso solamente se impediscono alle cose di rimanere come sono.
BRECHT – C’è una sovrapposizione, una superfetazione di senso. Non serve produrne altro. È necessario, semmai, rendersi efficaci produttori di dis-senso.
PETER BROOK – La necessità del teatro di oggi consiste in questo: non c’è più modo di ritirarsi dal guardare, in tutti i sensi possibili. Non si tratta comunque di passivo voyeurismo, ma di un’indispensabile complementarità dell’essere guardati.
MARSHALL MACLUHAN – La televisione è espressione di cultura popolare? La cultura popolare, spesso, viene di proposito degradata a opinione della folla incolta che fruisce, fatua e istupidita, di qualche presunto passatempo.
PIER PAOLO PASOLINI – Il teatro ormai è un luogo intimo. La partecipazione del cosiddetto spettatore – colui che guarda l’attore – è facilitata. Anzi, sembra più propenso a lasciarsi coinvolgere attivamente dall’attore – colui che guarda lo spettatore – per cui, paradossalmente, il teatro diviene un’arte dello sguardo reciproco, come in uno scambio di relazioni sociali significative; diviene insomma più realmente sociale – nel senso formativo del termine – di quanto non possa mai essere una qualsiasi altra espressione mediatica massificata, pseudo-popolare.
PETER BROOK – L’esperienza teatrale è davvero ampia perché per un momento l’individuo è elevato a uno stato di comunione con gli altri.
DANILO DOLCI – Che ognuno riesca a esprimere il suo essere politico e il suo potere: questo è il segno distintivo della democrazia.
UMBERTO GALIMBERTI – Skenè, la scena greca su cui apparivano gli attori ricoperti di pelo e forniti come Pan di zoccoli caprini, è affine a skènos, il corpo, come corpo è l’antico dorico skanà da cui deriva la scena, il teatro.
ANTONIN ARTAUD – Non ci sentiamo più appropriati, in questa dissoluzione dei corpi, in questo restringerci a mera virtualità. Il teatro scuote, scopre, mette in mostra, svela – attraverso il recupero del corpo originario, pre-culturale, del corpo-soggetto che s’apre al mondo, del corpo-scena che si dilata, fino a coincidere con l’altro da noi, gli spettatori e la società di cui fanno parte, di cui facciamo parte. Nessuna linearità, tipica di una messinscena, di un testo, di un movimento, di uno svolgimento – bensì una circolarità vitale, primitiva, cultualizzante, officiatoria: a questo mira l’attore.
HEINER MÜLLER – Più gli artisti sono ammirati, più sono lontani dalla realtà vissuta dagli spettatori. Più sono al top, più sono funzionali a un sistema di potere, qualunque esso sia.
PIRANDELLO – L’artista cosiddetto puro si esprime e basta. Funzione dell’artista è esprimersi. Indipendentemente dalla volontà, può diventare stimolo e addirittura modello per qualcun altro a esprimersi, così come – con molta probabilità – qualcun altro è stato a sua volta modello per lui.
PASOLINI – L’artista istintivo?, inconsapevole?, speculativo?, intellettuale?… quello più o meno socialmente e politicamente indirizzato?, quello naïf?, il rivoluzionario?, il tradizionalista?, il conservatore?…
EZRA POUND – L’arte è un modo per comunicare: subisce la volontà dell’artista, ma la sorpassa.
PASOLINI – … artista è comunque chi riesce a collocarsi in un ambito meno controllabile, il meno possibile sottoposto al dispotismo di un sistema, all’autocompiacimento, alla furba maniera, all’auto-referenzialità sterile, al facile consenso, all’accettazione passiva, qualcuno che mette continuamente in discussione più o meno consapevolmente ma soprattutto con i suoi mezzi tecnici le sudditanze sociali e culturali a un dominio soverchiante, precostituito, pseudo-politico, falsamente consolatorio, rassicurante.
IBN AZIZ MOHAMMED – Coinvolgimento, divertimento, certo: non ammannimento, men che meno ipocrita rassicurazione. Ecco: del teatro rimane una responsabilità da condividere.
EMPEDOCLE – Amici, che abitate la grande città che dalla sua cittadella guarda giù sulla rocca gialla di Agrigento, occupati in utili lavori, rifugio onorato per gli stranieri, uomini incapaci di meschinità, salve!
3. Teatro, efficacia e finanziamenti. Una contraddizione necessaria?
Ci sono sempre grosse perplessità quando si tratta di coniugare l’espressione artistica con il suo valore sociale: poiché, se è vero che l’arte può avere comunque un valore sociale, è altrettanto vero che il suo finanziamento pubblico in qualche misura ne sminuisce l’efficacia.
Ciò non vuol dire che la società, nel suo insieme, non debba permettere ai suoi componenti di potersi esprimere.
Fatto sta che il controllo sociale agisce appunto là dove prevale un dominio – ideologico?, economico?, politico?… – il quale, tra l’altro, facilita o inibisce alcune manifestazioni piuttosto che altre a seconda degli opportunismi e delle convenienze del momento.
Il teatro, poi, per quanto mi riguarda, è da considerare – oggi più che mai – un evento territoriale: anzi, è la sua specifica territorialità che permette di valorizzarne appunto il suo precipuo valore sociale.
Questo vuol dire che così come una comunità produce la sua arte e il suo teatro in particolare, è altrettanto vero che parimenti produce i suoi politici e i suoi imprenditori: la verità è che la Sicilia produce troppi politici ignoranti e cafoni che fanno di tutto per differenziarsi dalla società cui appartengono e che in teoria rappresenterebbero, per dar sfogo a un non ben identificato senso di atavica rivalsa, che li fa ambire – e purtroppo spesso riuscendovi – a posti di potere per assecondare il puro gusto di comandare, più che di amministrare.
Cumannàri è meglio di fùttiri
È una questione di valori. Da noi certi valori di condivisione ancora non si sono formati: si vuole la cultura assoggettata, più che stimolo, più ancora base su cui costruire persino un modello economico, oltre che sociale, valido e congruo alle caratteristiche dei luoghi e delle persone.
Con questo voglio dire che il valore di una compagnia o associazione teatrale in un determinato territorio, si accresce quando, prima che pensare a una sua più o meno valida professionalità, riesce a far nascere in chi la fruisce – nel suo “PUBBLICO”, inteso in tutte le sue possibili accezioni – un germe di sana “morbilità”, ovvero di minima possibilità di scelta, ma con rigore e coraggio, senza mezzi termini, senza necessariamente aspirare a gestire un potere – anzi: un controllo – comunque sia determinato. Condizione, quest’ultima, tipica degli stabili, ai quali è affidato il compito di mantenere il controllo, ferreo, delle istituzioni, fermamente controllate dai dominanti politici – sulle varie espressività locali comunque manifestatesi, e appunto per questo conducendo semmai il territorio a una sterilità culturale impressionante, da cui deriva tutto il resto, atteggiamento mafioso compreso.
Per finire, al di là di facili proclami, reputo sia necessario innanzitutto fare delle scelte le quali, intanto, non possono prescindere dalla comunità in cui si opera: ci si deve, innanzitutto, prendere delle responsabilità nei confronti di chi ci “guarda”, e nei confronti di noi stessi, poveri e insignificanti artisti di teatro, e solo in un secondo momento considerare il senso non della propria professionalità, bensì della propria efficacia sociale, tanto per non essere tacciati di citazionismo. Con ciò esprimo comunque la mia solidarietà e la mia disponibilità per ulteriori e stimolanti confronti.
Na vuci
La chitarra sona pianu
Iu ti sentu di luntanu
Si’ nna vuci chiami forti
E mi porti unn’è la morti
Pianu pianu m’arricogli
Intra un largu chinu ‘i spogli
Sunnu spogli ittati nterra
E na morsa a mia m’afferra
È la morsa di na fanci
Chi talìa sempri dirittu
Fanci niura ed affilata
Mi la sentu nni lu pettu
Pettu miu grapiti tuttu
E stu cori lassa iri
Di sta vita mi nni futtu
Ma tu cori ‘unn’a muriri
Quannu senti na chitarra
Chi sona sempri cchiù pianu
Grida grida grida cchiù forti
Di la vuci di la morti.
4. Il teatro come incomprensibilità e incomprensione tra officianti e spettatori
Inteso così, non c’è alcun dubbio che il teatro codifichi un’etica dell’improbabile, del ciò che non dovrebbe essere, dell’annullamento del rapporto efficace individuo-società, attore-spettatore, l’esaltazione effimera e pericolosa di una devastante estetizzazione che nega ogni possibile scoperta, ogni possibile nascita – anzi: rinascita – ogni possibile crescita ed evoluzione, ogni possibile contatto, ogni possibile comunione, un’idea fascista, oppressiva, castrante di teatro in cui l’officiante è il vero detentore di un potere fine a se stesso che ha come unico scopo l’assoggettamento dell’altro, dello spettatore, un’idea che va conformandosi ai livelli politici ed economici più alti della nostra società, delle nostre nazioni più evolute ed occidentalizzate, in cui la crisi delle ideologie – benvenuta per certi versi – ha permesso a ben altre oligarchie – i maggior enti oligarchi gestori del mercato e dei media, perciò ridenominati oligomedia, altro che massmedia! – di proliferare e di imporsi subdolamente alla guida del mondo, portandolo verso una condizione di insanabile frattura, dilatando incolmabilmente le distanze tra due blocchi che non sono più Est e Ovest, superpotenza sovietica e onnipotenza statunitense, ma Nord e Sud, ricchi, troppo ricchi, e poveri, troppo poveri, con deliberata scelta, quasi demoniaca, da parte dei ricchi di soppiantare o soggiogare i poveri alle loro disumanizzanti condizioni, e in nome di un preteso quanto alteratissimo senso di progresso che in realtà nasconde la volontà, il progetto di rendere il mondo un unico, controllato, assoggettato mercato.
5. Le mani vuote.
a. “Una volta il teatro poteva cominciare con una magia, magia della festa sacra, magia quando spuntavano le luci di proscenio. Oggi è esattamente l’opposto. Il teatro non è desiderato, ed alle persone che ci lavorano non si concede fiducia. Sicché non possiamo sperare di raccogliere un pubblico devoto e attento. Sta a noi catturare l’attenzione e la fiducia. Per farlo, dobbiamo provare che non ci sarà trucco, niente di nascosto. Dobbiamo aprire le mani vuote e mostrare che non abbiamo davvero niente nelle maniche. Soltanto allora possiamo cominciare.” (Peter Brook)
b. “Sì, questa affermazione di Peter Brook mi piace molto, ovvio che non sia conveniente per una società avere un “teatro” che la sputtani. In questo senso il teatro è soprattutto “mezzo sociale”, oltre che “fine sociale”, il mezzo più adeguato per raggiungere il fine, che non è soltanto estetico…” (Sotirio Roccanuova)
c. Direbbe Francesco Gambaro, incazzandosi pure:
“Troppo melenso, la scrittura è ben altra cosa.”
I suoi giudizi sono spesso definitivi, come quelli sul teatro:
“Il teatro non vale nulla, è morto, la nuova vera arte è il cinema.”
Sarà. Roland Barthes rende il cinema erede della letteratura – del romanzo d’appendice, perché no? Probabilmente ribatterebbe a Francesco che anche il teatro è scrittura – e ciò che rimane del teatro tolta la scrittura, è la teatralità. C’entrerà qualcosa? Ma poi, in riferimento all’esperienza culturale che più sembra aver segnato soprattutto gli amici che frequenta Francesco, ovvero il Gruppo ’63, non c’era Michele Perriera?, uno che ha coniugato teatralità e scrittura? O forse non andavano d’accordo?
Salvatore Nocera Bracco