La partenza
Be’, quando uno parte soldato c’è da aspettarsi di tutto. È come andare all’estero. Non è certo un’esperienza esaltante come quella fatta dal grande Totò a Cuneo.
Io mi sono laureato in medicina e chirurgia il 05 novembre 1986. Ero un giovane medico disoccupato. Non avevo comunque nessuna preoccupazione. Ho sempre saputo che “fare il dottore” non ti lascia mai disoccupato, anche se si hanno altri interessi, anche a rinunciare alle carriere, non solo accademiche o specialistiche, anche quelle locali, da medico di famiglia, da turnista nelle guardie mediche ordinarie o turistiche. Tuttavia attendevo una sistemazione, alla meno peggio, provvisoria. Studiavo con passione, ma più mi soffermavo sulle malattie più scoprivo le persone, quasi a intravvedere una contraddizione tra la medicina ufficiale – tutta diagnosi, biologia, evidenza clinica – e gli esseri umani, con la loro storia, i loro vissuti, ma soprattutto le loro sofferenze e i loro bisogni. Questo mi teneva in una sorta di limbo che non mi faceva decidere tra una carriera qualunque, magari ospedaliera, con la solita raccomandazione dal politico maggiorente di turno, e un dedicarmi invece ai bisogni delle persone semplicemente perché ne avvertivo le sofferenze e la loro incapacità di affrontare e risolvere il dolore. Sarebbe davvero interessante se il compito del medico fosse primariamente quello di lottare per emancipare gli uomini dal dolore, anzi: dalla sofferenza, che non ha bisogno soltanto di essere incanalata in un senso, buono o cattivo che sia, ma ha soprattutto bisogno di essere risolta: tutti dobbiamo aspirare alla felicità, alla gioia di vivere, malgrado le sofferenze umane, spesso inutili e ingigantite ancora più spesso dai cosiddetti interventi medici.
Per non tacere di interessi artistici impellenti a cui indulgevo intuendo in me grandi talenti, la musica innanzitutto, la passione per il flauto e la chitarra, le canzoni, il teatro, la letteratura…
Nel periodo universitario, prima Pavia e poi Palermo, avevo prodotto ogni anno presso il mio distretto militare di appartenenza – Agrigento – l’istanza di rinvio per rimandare la mia partenza per il servizio di leva. Poi la laurea, e poi, finalmente (a me è sembrato tra capo e collo!) la cosiddetta “cartolina rosa”, lo spauracchio di molti, di solito. Anche per me. Questa cosa della leva obbligatoria, spregiativamente detta Naja, non l’avevo mai digerita. Tuttora ci penso con il mal di stomaco: dicevano che fosse un periodo formativo, di responsabilizzazioni – che brutta parola! – di disciplina alla vita! Forse per qualche giovane imberbe appena diciannovenne, età tipica dei soldati italiani di allora. Ma per un ventottenne attempato come me già laureato ormai da un anno in medicina … non era certo soddisfazione quella che provavo, mentre partivo “militare”, destinazione Nocera Inferiore. Ironia della sorte il mio stesso cognome: CAR (Centro addestramento Reclute) in un battaglione speciale, Scuola di cuochi e macellai. Quale onore. Grande onore. Medico macellaio. Chissà gli equivoci. Vaghe reminiscenze di un passato per quanto ancora recente: Auswitz, Dachau – su cui il mondo sembra aver smesso di riflettere.
Il 13 dicembre è proprio il giorno di Santa Lucia, una santa tipicamente siciliana, siracusana, la Santa dei ciechi, con gli occhi in mano. E io in mano tenevo ben altro, quel 13 dicembre del 1987, avvertendo con un fremito di impotenza che tra dodici giorni esatti sarebbe stato Natale. Nulla di speciale, per carità, ma avevo poche abitudini, allora, ancora del tutto giovanili – adolescenziali: i veglioni, le feste natalizie e capodannare, le giocate a carte, i poker con le sigarette per fiches, il primo whiskey, la ragazzina alla quale chiedevi di ballare un lento e subito dopo l’imperversare della disco music: wow, che sballo!
Ora invece niente di tutto ciò: allora davvero qualcosa stava cambiando. In peggio. Era finita un’era. La mia gioventù ormai tramontata. Dove sarò tra dodici giorni, pensavo, so che raggiungerò un traguardo, prima o poi, il finish della mia esistenza. Ero proprio tragico. Quasi quanto Fantozzi. E sul traghetto Messina-Villa San Giovanni, all’una meno dieci di notte, appena appoggiato su uno di quei parapetti coperti di legno a fissare le luci romantiche di Messina che si allontanano, e di Villa San Giovanni che si avvicinano, in una strana atmosfera placida e tranquilla, quasi tiepida e accogliente come un utero da cui non si vuol nascere, le voci innocenti, pudiche, di due compagni di sventura favaresi, a cui il buon Dio ha riservato un’esistenza pacata e per fortuna priva di bisogni:
“Arsìra mi fici na ficcata all’albergu: quarantamilaliri.1
“Quantu? …
“Quarantamilaliri.
“A sta minchia: e ch’avìa, u sticchiu placatu d’oru?2
Si riferivano ad un albergo di Agrigento, in Via Gallo, proprio accanto Via Atenea, dove si praticava il mestiere più antico del mondo con novità mensili e a volte anche settimanali, mentre le puttane stanziali occupavano stanze e stamberghe nelle vie sottostanti, fino a Via Vallicaldi, un pullulare giornaliero di paesani, studenti, liceali: non di rado alunni e professori si incontravano per quelle vie disastrate. Oggi un muro ostruisce il passaggio di Via Gallo dalla Via Atenea, una piccola scalinata su cui si apre l’ingresso di quel famoso albergo. Crolli e abbandono. Mah. Altri tempi, si direbbe.
E quarantamila lire, l’equivalente di circa venti euro attuali, almeno nominalmente, ma molti di più, considerato che il salario di un lavoratore medio, muratore o bracciante, variava da otto a diecimila lire al giorno, e che il prezzo di una puttana media non superava le diecimilalire.
Quella volta i miei compagni di viaggio avranno esagerato, tanto per darsi delle arie, di coloro che possono spendere soldi per andare a puttane. Che strano modo di vantarsi.
Il mio servizio di leva era appena cominciato, e reso incerto da uno sciopero dei treni. Che forse “qualcosa” mi stava aiutando per non farmi arrivare a destinazione? Un pensiero col sorriso ironico. Sì, perché io, in realtà, avevo avuto uno dei miei soliti presentimenti, chiamiamoli così: che non avrei fatto il militare. Forse proiettavo il mio disgusto, non avevo proprio alcuna voglia di fare il soldato, ma il dovere civico! … ripercorro con la mente la giornata appena passata, Santa Lucia, ricordando gli arancini di riso lasciati ancora caldi e croccanti sulla tavola della cucina di mia madre, e i grossi cedri giallo-rugosi (piretti o pirrittuna, in dialetto) venduti sulle bancarelle per strada improvvisate dai contadini che vendevano gli agrumi dei loro giardini coltivati nella Val Paradiso di Naro.
2.
Eccomi qua, lo sciopero ferroviario non impedisce al treno di partire praticamente in orario da Canicattì, quella solita stazione di Canicattì che aveva segnato tutte le partenze e tutti gli arrivi della mia vita appena trascorsa. E in orario il treno arriva a Catania. Primo blocco. Ci fanno trasbordare su di un altro treno. Dopo due ore partenza per Messina. Secondo blocco. Non ci perdiamo d’animo. In fondo è soltanto il ritardo di un inizio. Un gregge di teste già pelate si dirige al traghetto. Traversiamo lo Stretto. Adesso, appunto.
La luna, calante, appena nascosta da un velo leggero di nubi, ammalia per l’inusuale luminosità soffusa, mentre il mare, calmo, non produce alcun fastidio da rollio. A parte il solito vocabolario forbito – che oramai ho imparato a riconoscere – dei miei non ancora ufficialmente commilitoni. Le minchie inquinano lo Stretto, e coglione, l’imprecazione più usata, trova subito una sua pertinente, efficace, appropriata collocazione:
“Vaiu a Nocera Inferiore? Me ne frega un coglione.
“Ma a noi che ce ne frega? Un coglione, mentre le luci dello stretto mi distraggono dalle loro domande inaspettate:
“Ma chi ssì, cumpà, patri di figli?3
A pensarci ora, sinceramente, ho l’impressione di essermi preparato quasi inconsapevolmente a una domanda del genere. Li guardo senza troppo interesse: età media? Diciannove anni. Appunto. Scolarità? Forse elementare, nel senso che nemmeno quella. Per qualcuno tutt’al più scuola media serale. M’è rimasto sempre qualche dubbio, a riguardo. A guardarli adesso, con più attenzione, i miei 28 anni potrebbero pesarmi: mi sento costretto a perderne qualcuno, almeno sette, per adattarmi, per me è facile, non per loro, si sentirebbero troppo a disagio se io rimanessi nella mia età. E infatti, con il passare delle ore, la mia presenza è accettata così com’è. Sanno che sono “dottore”, ma in apparenza mi trattano come uno di loro. E pendono dalle mie labbra, aspettandosi da me sempre una battuta, quella finale, sul da farsi, dato che lo sciopero dei treni, anche al di là dello stretto, continua, rendendo avventuroso l’avvicinamento alla Caserma Testi. Lo sciopero infatti non si risolve, e comincia a serpeggiare la paura di una punizione nell’eventualità si arrivi in ritardo. Per questo mi investono tacitamente del ruolo di guida, i furbacchioni, come a scaricarsi delle loro eventuali responsabilità per appiopparle a me! Ci sto, e non me ne faccio un cruccio.
3.
Angelo S. non è mai salito su di una nave. Ed è la prima volta che vede un traghetto. Non è andato più lontano dalla stazione ferroviaria di Palermo, da Favara, una volta che è arrivato un parente importante da chissà dove. Aveva visto il mare, naturalmente, e grandi navi solcarne le onde, ma salirci sopra! L’eccitazione lo spinge a parlare delle sue preferenze sessuali:
“I fimmini miegliu, dice, su’ chiddi vergini. L’antri l’hannu milli e quattru quasi trimila. Pari ca ci trasi e nesci na moto lambretta.4
E ride forzato, commisurando l’ampiezza del sesso di una donna smaliziata alla cilindrata più o meno grossa del motore di un’automobile, a parte l’allusione a un garage per quelle davvero “larghe”.
Angelo S. è rosso, piccolo, lentigginoso, nervoso, e ha due dita mozzate. Gli sono saltate via mentre lavorava con una motosega. Così dice. È capraio e guarda-cessi come il padre, che ha sulle spalle anche 25 anni di onesto lavoro di spazzino e sembra avercela a morte con gli sbirri:
“Una volta ha tirato addosso agli sbirri una cugnatedda5, allora gli sbirri lo hanno gentilmente invitato a salire sulla loro volante, e lui ci è salito. Si’ l’àssiru pigliatu cu i tinti ‘un ci assi iutu, va!6
Otto anni di galera, dice, di cui quattro condonati, tra amnistie e buona condotta.
Angelo il rosso interroga se stesso meravigliato:
“Ma quanti fratelli ho?
Ne parla candidamente, discorrendo con i suoi paesani quasi aspettandosi da loro una risposta. In realtà sa come captare l’attenzione, creando una finta suspense che lo riguarda: riferisce così di Minica Pidditta, una puttana a sentir lui che se l’intende con il padre, e dal quale ha avuto almeno due figli. Angelo stesso del resto non sa dare ragguagli precisi sulla sua maternità, mentre invece è più che sicuro di suo padre: Mah. La famosa sentenza latina Mater semper certa est, pater numquam sembra essere eccezionalmente disattesa. Da un resoconto molto approssimato gli risulterebbero altri diciassette fratelli, che il padre avrebbe avuto “tutti da buttane diverse”!, riferisce soprattutto del più piccolo, che ha sicuramente 11 anni e che vive alla Marina7, non è chiaro con chi:
“Iu ci pisciu ‘nculu, dice Angelo con insolita crudezza. A mmia di stu fratastru cchiù nicu ‘un mi nni futti propriu nenti.8
Questa sua ultima affermazione, forse non troppo casualmente, mi cade addosso insieme al suo sguardo:
“Decimilaliri però ogni tantu ci li dugnu9, aggiunge, quasi a riscattarsi nei miei riguardi, a rassicurarmi:
“Tanto … non me ne frega un coglione.
Già. Angelo S. era un linticchieddu, piccola lenticchia, una genìa di ex nomadi, dicono, stanziatisi a Favara e caratterizzati dal colore rosso dei capelli e dalle lentiggini, linticchieddi, piccole lenticchie sulla faccia. In realtà la loro origine è controversa. Qualcuno si rifà allo scacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi nel 16° secolo: Lanzichenecchi, servi della terra in tedesco, comunque servi in ogni caso, a indicare le mansioni più umili a cui si erano dedicati sbarcando sulle coste agrigentine, quello che nessuno del luogo avrebbe fatto: tuttora è così, e dei lavori più umili se ne incaricano i cosiddetti extracomunitari. Da Lanzichenecchi a Linticchieddi il passo sarebbe stato breve. Oppure una genìa di irlandesi emigrati, ovvero di normanni decaduti dal tipico colore rosso, barbari vichinghi che avendo smesso di guerreggiare si sarebbero ritrovati con il culo per terra e costretti ad adattarsi ai lavori più infimi per sopravvivere. Oppure la provenienza di alcuni da Pantelleria, notoriamente terra produttrice di lenticchie più piccole del solito: linticchieddi, appunto. O, ancora, il fatto che la popolazione più povera di Favara, in qualche passato non meglio precisato di carestia, avesse preso d’assalto i silos dei ricchi proprietari terrieri, all’Agiatedda, quartiere periferico di Favara, ma che, al posto del grano appunto carente, erano stati colmati di lenticchie, di cui i neo battezzati Linticchieddi quella volta fecero appunto incetta.
Ora, aldilà delle origini, ho saputo che Angelo S. è deceduto la notte del 15 agosto del 2011 all’ospedale di Agrigento. Il giornale web che ne da la notizia riferisce, cito testualmente, che “è morto libero, rinunciando fino all’ultimo il ricovero. Ha rifiutato qualsiasi aiuto, compreso quello dell’Amministrazione comunale, che lo togliesse dalla strada per dargli una morte decorosa. Il sindaco, Sasà Manganella, ci ha chiamati di buon mattino per darci la notizia del decesso e per informarci sull’interessamento della sua Giunta a farsi carico dei funerali e della sepoltura”10. Una notizia pubblicata il giorno dopo, il 16 Agosto, curiosamente il giorno del mio compleanno.
Infermeria
1.
È il 21 dicembre 1987. E questa storia del soldato continua a snervarmi non poco. Sono arrivato in caserma da sette giorni esatti, il giorno del mio arrivo mi hanno messo in fila, con un migliaio di altre reclute, qualcuno mi ha urlato addosso di stare nei ranghi – boh, sono esterrefatto – non capisco questa inquietante sensazione di controllo oppressivo:
“Tu, come ti chiami?”, un ragazzotto di neanche vent’anni con un paio di gradi sulla manica (“È un caporale!” “Caporale?…”) sa come modulare i toni più alti e bastardi della voce per incutere timore, per intimidire, per sottomettere, almeno così crede lui, immagino:
“Ma dice a me?”, io sono sinceramente sorpreso.
“A te, a te, e sta’ sull’attenti, chiaro?”, continuando a gridare come un ossesso (“È solo una farsa, non ti preoccupare, fanno così per darsi un contegno”. “Ma davvero?” “Digli come ti chiami e il problema non si pone” “Sicuro?”)
Certo che se questo continua così! …
“Mi chiamo Salvatore Nocera”
“E chi ti credi di essere?”
“Io?, veramente …” forse se la prende con me perché mi vede diverso?, più grande in età degli altri?, quello da tenere sotto controllo più di tutti?
A dire il vero ho notato un altro paio di persone più o meno simili a me, grosso modo la mia stessa età, il mio stesso smarrimento confuso, la mia stessa montante insofferenza. Lui, invece, il caporalotto, sarà alto al massimo un metro e sessantacinque, paciocconcello, una barbetta rada sul viso rotondo e arrossato, capelli rasati quasi a zero, e una strana rigidità muscolare che non gli appartiene affatto.
“No, guarda, io non ho nessuna intenzione di …” ma non mi dà nemmeno il tempo di finire che già m’aggredisce per l’ennesima volta:
“Soldato, ai superiori si dà del lei, non vedi i gradi?”
“Sto cazzo! …” un’esclamazione spontanea. Ma non mi agito più di tanto, non percepisco cattiveria nel tizio, è come se recitasse una parte, se fosse costretto a mostrarsi isterico perché qualcuno glielo ha prescritto. Ma non posso nemmeno accettare di farmi trattare in questo modo, davanti a tutti, da uno sbarbatello di minchia che ha deciso di prendersela con me per una motivazione che comunque per ora mi sfugge. Tra quelli che mi stanno vicino, un paio di soliti favaresi già si predispongono a prendere le mie parti nel caso la situazione dovesse degenerare. Ma un’altra voce, ancor più bastardamente impostata, interrompe il mio impaccio:
“Truppa, At-tenti!” questo ha gradi diversi (“Sergente maggiore” “Caspita)
Tutti fermi, ho qualche reminiscenza scolastica sull’Attenti e il Riposo, alla prima elementare, nel ’65, le lezioni seguivano ancora un andamento ante-guerra, con le marce, gli esercizi ginnici nel cortile e “Attenti! – Riposo!…” Discipline ormai superate, pensavo. Invece …
“Aprite bene le orecchie”, urla ancora il sergente.
“Riposo, sergente, grazie”, una voce più calma, stavolta, autorevole ma gentile: anche se non urla, stranamente lo sentono tutti:
“Sono il sottotenente Boscardelli. Ho saputo che tra di voi ci sono tre medici. Potreste avvicinarvi, per favore?”
Dopo un silenzio quasi imbarazzato di tutta la truppa – chissà perché – io e gli altri due che avevo notato prima ci avviciniamo. Il caporalotto mi guarda con occhi sgranati mentre ci avviciniamo al sottotenente, il quale ci accoglie molto amichevolmente, presentandosi con il nome e mettendoci subito a nostro agio:
“Antonio Boscardelli. Scusate, sono medico come voi e ho bisogno urgente della vostra collaborazione. Sergente, li accompagni subito a prendere la tuta e il drop”
“Sissignore”, il sergente obbedisce al volo senza fiatare, “Venite con me”, stavolta il tono è improvvisamente più dolce. Ci avviamo verso il magazzino. Il soldato ci guarda, “La taglia?” “Quarantotto” “Va bene cinquantadue” “Ma mi sta largo il cinquantadue” “Allora cinquantaquattro?” “Cinquanta” “Cinquantadue, trovato. Anfibi quarantaquattro” “Ma non saranno larghi?” “Sempre puliti. Avanti un altro”
E con queste divise in una mano e gli scarponi anfibi nell’altra il sergente ci riaccompagna subito dal sottotenente.
“Bene, sergente, grazie. Voi seguitemi e statemi accanto”
Ed è così che siamo entrati in infermeria, il tempo di vestirci (“Mi pare piuttosto un travestimento”), i capelli già tagliati prima di partire, onde evitare eventuali, sgradevoli sorprese.
Io, Spello e Confalonieri veniamo seduta stante nominati assistenti di sanità: è da sette giorni che visitiamo centinaia di reclute al giorno, le vaccinazioni, le iniezioni, anche quella classica al petto (Gulp!, mitica l’iniezione al petto!), alcuni li mandiamo inevitabilmente all’Ospedale Militare, altri mostrano insofferenze molto più marcate delle nostre, che nell’ambito civile esterno sarebbero piccole alterazioni dell’umore dovute alle circostanze della vita, qui dentro in caserma assumono il carattere di forti crisi di pianto e incapacità di adattarsi a regole troppo rigide e il più delle volte anche incomprensibili.
È da sette giorni che lavoriamo, il tempo necessario per mangiare qualcosa che ci portano direttamente dalla mensa della caserma, (“Questo cibo è preparato apposta per l’infermeria” “E perché apposta?” “È il più buono, per noi hanno sempre un occhio di riguardo” “Ah sì?, e come mai?”) la sera siamo distrutti, ci stendiamo sulla brandina in una stanzetta del corridoio accanto l’infermeria vera e propria e ci addormentiamo, in un unicum spazio-temporale che non ci permette altro.
2.
Anche se non ho nemmeno il tempo di pensarci, questa non è una situazione normale, è un limite improvviso contro cui sbatto e non so come superare, è il limite di un comportamento coatto che mi costringe a muovermi come un leone in gabbia, ingoiando continuamente saliva amara. Me ne accorgo visitando ogni giorno decine e decine di reclute: sono pochi quelli che accettano il “militare”, la maggior parte lo sopporta, la minoranza, molto più pericolosamente, lo subisce, esponendo fragilità finora tenute faticosamente sotto controllo.
Io non sono certo immune, malgrado che il lavoro continuo un po’ mi stordisca. Non riesco proprio a comprendere questo strano mondo super strutturato, e continuo a martellarmi il cervello con pensieri ruminanti.
Le poche parentesi che mi concedo per dedicarmi anche solo interiormente a me stesso, cerco di farle durare il meno possibile: a letto prego affinché mi riesca di addormentarmi presto. Ma durante il pranzo e la cena, avverto la mia impreparazione, chiamiamola così, ad affrontare questi limiti che il contesto mi fa percepire estremi: io sono comunque fortunato perché lavoro e non ci penso; ma qualcuno, lo noto bene, è venuto a contatto con se stesso in un modo assolutamente brutale, violento, inaspettato. Potrebbe darsi che si tratti di una qualche tara adattativa. È proprio sgradevole questa continua sensazione di saliva amara.
“Ehi, dottore!, una sigaretta?”
“Oh, Massimo, grazie, ti faccio accendere io”
Massimo è un ragazzo milanese che conosce bene LE SCIMMIE, un pub sul naviglio pavese dove anch’io ho avuto la ventura di suonare un paio di volte, durante l’Università a Pavia.
“Bella, la musica, eh dottore?”
Sì, bella la musica. Abbiamo avuto il tempo di parlarne, un altro modo per non permettere ai pensieri molesti di attecchire e fare danni. In effetti la musica mi ha sempre rilassato, ancor di più suonarla, e scrivere canzoni. A casa ho una chitarra che giace abbandonata in una custodia aperta sul pavimento. È proprio in momenti come questo, di tensione e stress, che amerei suonarla. Per me è quasi una compagna. Quando sono partito è stato un grande problema: sapevo che ne avrei avuto bisogno, ma non me la sono sentita di portarmela dietro. Anche le mie ultime canzoni giacciono nel classico fondo di un cassetto, trascurate. Quando sto giù, e la malinconia mi ingombra la bocca dello stomaco, il miglior rimedio è suonare, suonare la mia chitarra, la mia musica, cantare le mie canzoni.
“Dottore, senti: che ne diresti se …” e Massimo si interrompe.
“Cosa?”, dico. Quasi sorride:
“Guarda che è mia, la tengo qui in infermeria con il permesso del sottotenente Boscardelli e … da come parli … aspetta un momento”. Va via e ritorna subito dopo con una chitarra: “La puoi provare, se vuoi, non è granché ma per quello che ci serve!…”
“Non è granché?, mi stai salvando la vita”, non so più come esprimergli la mia gratitudine per questo dono improvviso, un grande conforto, davvero. Ci sono poche cose veramente importanti nella vita, per me, a parte gli affetti per le persone che contano e le responsabilità: esprimere il mio talento innanzitutto, anche scrivere, ma suonare la chitarra è al primo posto, non potevo desiderare di meglio.
“Discreta, una chitarra discreta”, trattengo le fusa mentre l’accarezzo. Un paio di note, non di più, una piccola melodia improvvisata: già respiro meglio.
Scara entra pallido in infermeria, interrompendo il mio orgasmo. Non ho nemmeno il tempo di dimenticare che in questa caserma, sono tuttosommato un medico, per quanto le circostanze formali decidano che io debba essere innanzitutto un soldato. Le istituzioni militari stanno usandomi a dovere. Per questo rimando il piacere di suonare.
Scara detto Pinetto, già lo conosciamo tutti, è di una frazione sperduta della provincia di Trapani, e Massimo subito mi sussurra all’orecchio:
“È finocchio e gli piace averlo in culo”
“Ma dài! …” Di sicuro Scara detto Pinetto non gode di molta stima, soprattutto in un ambiente militare dove l’omosessualità è meglio sublimarla in atteggiamenti autoritari e di dipendenza al tempo stesso, piuttosto che manifestarla apertamente come fa lui, anche se ritengo non se ne renda poi del tutto conto. Gli si legge in faccia. E quando non gli si legge te lo dice lui: “Ciao, dottore”. Tipico.
“Scara, come va? Non dovresti essere di servizio, stasera?” Servizio pesante, corvè cucina.
“Appunto”, ammicca devastato.
“Sei pallido, come ti senti?”
“Male”, e piange femmineamente, senza un motivo valido apparente.
Gli misuro la pressione: 90/60 mmHg, bassina, in effetti:
“Sei stanco?”
“Sì”, un sì che è una preghiera del tipo: “Aiutami, solo tu puoi farlo”; con un ammiccamento, ma con un ammiccamento …
“Dottò, ci sta provando”, mi ri-sussurra Massimo all’orecchio.
“Ma cosa dici?, finiscila. Piuttosto … visitalo tu”
“Io?, non sono mica medico!”
“Ah, già, aiutante non medico, scusa. Però con la chitarra”
“Certo!”
“Meno male che almeno la chitarra … Va bene: riposo branda, te lo scrivo subito, Scara”
“Pinetto”
“No, dicevo: il riposo-branda ti esclude dalla corvè. Ecco fatto, tieni: portalo in fureria così li avverti”
“Veramente … se ci chiami tu! …” Troppi piagnistei.
“Va bene, ci penso io”. Chiamo i furieri al telefono e gli comunico il riposo-branda di Scara detto Pinetto. Reagiscono male. Capisco. Ma mi faccio valere dall’alto della mia posizione di medico dell’infermeria: soldato semplice, come quasi tutti gli altri, del resto, ma medico. E il sottotenente in questo momento non c’è. Chiudo il telefono:
“Bene, riposo-branda accolto: la fureria accetta di sostituirti”
Un ragionamento parassita nel frattempo si fa strada nella mia testolona rapata, e mi sorprende il pensarlo: “Potrebbero sempre aver bisogno di me, non si sa mai: è meglio tenermi come alleato”. Oddio, che ho pensato: anch’io sto facendomi prendere la mano dal gusto del comando? Una bella tecnica di sopravvivenza, in ogni caso, per non soccombere e riconoscermi almeno una qualità, una risorsa interiore a cui aggrapparmi: persino l’aria che si respira qui dentro sembra voler negare il nostro essere persona, uomini, cristiani: un diabolico disegno attuato non so ancora bene da chi. È un disagio difficile da sopportare, da sostenere: ho continuamente a che fare con le nevrosi, le incapacità e i difetti degli altri, che amplificano inevitabilmente i miei. Spero di riuscire a controllarmi: tutto questo è menomante! Manca ciò che normalmente ci permette di affrontare la realtà cosi com’è, coi suoi problemi grandi e piccoli, i suoi equilibri malfermi, i suoi compromessi, le sue più o meno necessarie mediazioni: manca il senso. Una specie di perdita luttuosa e devastante. Che mi abbiano fottuto?
Ma non è proprio rabbia. Il fatto è che non so a chi rivolgermi, né con chi incazzarmi.
Avverto lo sguardo di Scara addosso, mi sento incerto:
“Che c’è?”
“Nulla”, risponde languido e con la bocca semiaperta, la lingua leggermente protrusa:
“Secondo me vorrebbe ringraziarti”, Massimo allude.
“E di cosa? Non …”
“Ringraziarti a suo modo, naturalmente!”
“Ma la vuoi finire? E tu Scara cosa vuoi, perché mi guardi così?”, lo vedo come eccitato, mentre una goccia di saliva gli cola giù dall’angolo della bocca.
“Scara, per favore! …”
“Pinetto, dottore!”
“Scara, basta, non ho alcun bisogno di essere ringraziato, va bene?, e non guardarmi più con questa cazzo di bocca lasciva che fai. Anzi, siediti, e ascolta, che adesso io e Massimo suoniamo”
“Con me?, davvero?”
“Ma vafanculu!, Massimo, piglia la chitarra e suona”
Scara si siede tuttosommato sorridente, mentre Massimo …
“Bastardo, non ridere e suona”. Massimo mi guarda furbescamente divertito:
“La chitarra, stronzo!” In fondo mi diverto anch’io. Magari ci voleva.
Le prime note timide, accordi blues improvvisati da Massimo, la mia voce contorta, una canzone prende forma. Effervescenze, nell’afa umida dei termosifoni:
e non andare lontano di qua
è qui vicino la tua libertà
prendila sana prendila bene
prendila solo se ti conviene
se poi un uccello che vola che vola
se poi un uccello che vola che va
prendila bene la rosa la rosa
prendila bene che non pungerà
prendila a spalla tirala dietro
rimane a galla scheggia di vetro
e non andare lontano di qua
è qui vicino la tua libertà
prendila sana prendila bene
prendila solo se ti conviene
“Che bella: bravi!”, esplode Scara con entusiasmo. Massimo invece mi guarda strano:
“Ma che roba è, dottò?”, tra il sorpreso, il divertito e il rimproverante.
“E che ne so?, ho improvvisato.”
“Chiari riferimenti erotico-sessuali di rimaneggiamenti libidici ed estrinsecazioni del cazzo”
“Ah, vedo che nascondi una certa cultura, in fondo!”
“Sì, dottò, sarà la presenza di Scara. Meglio non pensarci!”
“Scara?, lo spettacolo è finito, puoi andare”
“Ciao, dottore!, e anche tu: suonatore!” Massimo gli lancia un’occhiataccia, mentre Scara si alza con il foglio del riposo-branda in mano e va via soddisfatto.
Fuori, nel cortile grande, un cane di nome Woody abbaia sperduto, sconfortato, sotto il pennone dell’alza bandiera. La tivù, di là, nella stanza degli aiutanti di sanità, propone ricordi di tranquille giornate assaporate da solo in perfetta, rumorosa solitudine.
Salvatore Nocera
1 Ieri sera mi sono fatto una scopata all’albergo: quarantamila lire.
2 Caspita, e che aveva la vagina placata d’oro?
3 Ma cosa sei, compare, padre di figli?
4 Le femmine migliori sono quelle vergini. Le altre ce l’hanno mille e quattro quasi tremila. Sembra che ci entra ed esce una moto lambretta.
5 Piccola ascia per tagliare la legna.
6 Se l’avessero preso con le cattive non ci sarebbe salito, va!
7 Porto Empedocle
8 Io gli piscio in culo … a me di questo fratellastro più piccolo non me ne frega proprio niente