Il timore di una guerra chimica alla base di un accordo internazionale per la creazione di un quartier generale per predisporre azioni di pronto intervento in Siria.
Fonti militari riferiscono che il Segretario americano alla Difesa Chuck Hagel
ha parlato di una guerra chimica in Siria, in termini di eventualità imminente e realistica. Una guerra che secondo Washington potrebbe propagarsi oltre i confini siriani.
Per gli Stati Uniti, il rischio verrebbe da ribelli siriani vicino ad al Qaeda e il rapimento di 21 osservatori filippini delle Nazioni Unite andrebbe messo in stretta relazione con i prossimi progetti delle milizie islamiste della forza ribelle siriana, guidata da al-Jabhat Nusra, che starebbero rafforzando le loro posizioni sul Golan siriano, Siria orientale e Alto Eufrate, dove si trovano le città più importanti di Deir Azor e Abu Kemal.
Da rapporti di intelligence individuano in Jabhat al Nusra una forza di combattimento più efficace di al Qaeda, e determinata ad andare fino in fondo, se si rendesse necessario anche con le armi chimiche o biologiche sottratte al regime di Assad, portando a termine attacchi chimici multipli all’interno della Siria e oltre i suoi confini.
Per fronteggiare la paventata crisi, la USS Harry S. Truman e la sua unità di combattimento aereo, seppure ancora in stand-by, è stata approntata per l’eventuale partenza per il Medio Oriente.
Di diverso avviso fonti dell’opposizione siriana che definiscono quello di Jabhat al Nusra un gruppo di religione islamica come ce ne sono tanti in un paese islamico.
Categorica la smentita che l’esercito libero siriano (Esl) sia infiltrato da terroristi islamici legati ad al Qaeda.
La sensazione che si ha, è quella che i fatti più recenti e i palesati timori di una guerra chimica, rientrino in una strategia orchestrata dai servizi segreti di Stati Uniti, Giordania, Emirati Arabi, intervenuti nei negoziati tra opposizione e governo di Bashar al-Assad, con il fine di giungere ad una “soluzione pacifica della crisi siriana”.
Un accordo del quale avevamo già scritto, pubblicando la lettera del capo della divisione Amman dell’ufficio di intelligence giordana, il tenente Fawaz Al Shahwan, al direttore dei servizi, generale Faisal Al Shobaqi, che in data 25 Gennaio 2013, riassumeva l’esito della riunione tenutasi giorni prima.
Un incontro nel corso del quale era stata evidenziata la necessità di avviare attività di persuasione nei confronti dei capi del FSA e della Coalizione nazionale siriana, in particolare verso i membri del SNC che hanno disertato dal regime, per costringerli ad accettare negoziati con Bashar al-Assad.
Mentre il Consiglio di sicurezza dell’Onu spera in un cessate il fuoco che permetta di liberare i 21 osservatori rapiti sulle alture del Golan e il governo siriano si dice impegnato per la liberazione dei 21 osservatori Onu detenuti sulle alture del Golan, definendo il fatto come “atto irresponsabile posto in essere dalle forze ribelli”, i ribelli di Jamla si dicono pronti a riconsegnare i caschi blu senza che ci sia bisogno di alcun negoziato con le Nazioni Unite.
Questo quanto dichiarato tramite Skype da Issam Tasyil, portavoce della brigata “Martiri di Yarmuk”: “Siamo pronti a consegnarli all’Onu”, ha detto Abu Issam Taysil. “Non abbiamo rapito i militari Onu, ma li abbiamo messi al riparo dai bombardamenti. Siamo pronti a liberarli e lo eravamo anche quando i mezzi della forza internazionale si sono avvicinati a Nafaa (nei pressi di Jamla). Ma sono ripresi i bombardamenti e sia noi che loro ci siamo dovuti ritirare. L’operazione è fallita a causa dell’attacco delle forze del regime. Per liberarli però l’esercito di (Bashar) Assad (il presidente siriano) deve ritirarsi e smettere di bombardarci”. Secondo Taysil, il villaggio di Jamla e l’intera zona a ovest di Daraa “è da circa un anno assediata dalle forze Assad. E da una settimana sono arrivati numerosi mezzi blindati e hanno cominciato a bombardare non solo con l’artiglieria ma anche con l’aviazione”.
Taysil sostiene che “in corrispondenza con questi bombardamenti, tutte le postazioni dell’Onu in territorio siriano nei pressi di Jamla sono state evacuate. In teoria – ha detto – i militari dell’Onu dovrebbero monitorare il rispetto della zona smilitarizzata (che prosegue anche in territorio siriano verso ovest) ma da un anno lasciano che le truppe e l’aviazione di Assad ci bombardino indisturbate”.
Con un milione di profughi che hanno abbandonato il paese e con oltre 60.000 morti, il dramma del popolo siriano dovrebbe campeggiare ogni giorno sulle prime pagine dei giornali. Ci se ne accorge invece solo quando, per ragioni a noi ignote, diplomazie e servizi segreti decidono che è arrivato il momento di mettere un punto al dramma.
E spuntano allora gli spauracchi di sempre. Le armi di distruzione di massa, il terrorismo, il fanatismo.
Sporche guerre affogate nel silenzio di tutti. Dei governi e dei media “distratti”.
Pochi i giornalisti che hanno voluto raccontare l’orrore siriano. E non tutti sono tornati indietro.
A ricordare il dramma, l’ultima lettere di Olivier Voisin, fotografo francese ucciso in Siria nel mese di febbraio.
Olivier ha scritto di come entrò in Siria da clandestino. L’incontro con i ribelli. I primi colpi di artiglieria in lontananza con le forze lealiste che bombardano alla cieca, mentre famiglie di civili vivono sotto terra oppure dentro le grotte.
“L’artiglieria spara ogni 20 minuti e il terreno trema spesso” scrive Olivier. “La violenza è tanta. L’odio è tanto. Come si può alimentare un odio simile? Ho visto dei video di abitanti di Homs massacrati di botte dai soldati lealisti, non ho mai visto così tanta violenza e sangue dappertutto con uomini che piangono come bambini…e i colpi che continuano ad abbattersi che siano sui piedi, sulle mani, o che siano i colpi di bastone che fanno schizzare il sangue. Eppure ne ho già visto un bel pezzo di questo mondo di merda”.
Un mondo di merda che Olivier fotografa. Scatto dopo scatto il dramma di un popolo. Scatti pagati poco e non sempre. “Scatto foto ma non sono nemmeno sicuro che l’ Afp me le prenda” continua Olivier, che descrive così i suoi compagni di viaggio nell’inferno siriano: “Hanno già perduto una ventina di compagni, altri sono feriti ma sono comunque presenti e io penso soprattutto a Abou Ziad, che ha perso un occhio ed è lui che fabbrica i razzi rudimentali per lanciarli durante i combattimenti. E’ coraggioso. Con qualche parola di arabo cerchiamo di parlarci. Evidentemente le discussioni cadono spesso sulla religione ma loro non si considerano salafiti.
Il comandante mi chiede quando la Francia fornirà loro un aiuto militare. E che ne so io! Mi vergogno perché sono già due anni che non si sa. Mi dicono che nessuno gli aiuta, e di cosa ha paura l’Occidente. Io non ho voglia di rispondergli. E poi, non sono mica un uomo di potere o un politico. Sono solo il piccolo Olivier, che muore di fame con loro e che gli rompe le palle perché i combattimenti diretti si fanno attendere. Il problema è quello che chiede l’ Afp. Meno faccio e meno guadagno.”
Già, piccolo Olivier, morto in Siria per documentare una guerra che non interessa a nessuno. La Siria non rende. Giornalisti e fotografi non portano a casa che pochi euro e, per i più sfortunati, una pallottola presa per caso.
Sarà un caso se dopo l’incontro del 25 gennaio tra servizi segreti di varie nazioni il pericolo terrorismo e armi chimiche si è fatto così incombente? O forse, quando gli interessi internazionali portano a mediare un conflitto interno che dura da troppo, lo spauracchio è quello di sempre?
Sono domande senza risposta. L’unica certezza, è quella che il mondo poteva accorgersi prima di ciò che accade in Siria ed evitare che un dittatore possa massacrare il suo popolo pur di mantenere il proprio potere.
Ma questo è il mondo, questa è la guerra. Alle decine di migliaia di siriani morti si aggiunge un piccolo francese.
La USS Harry S. Truman e la sua unità di combattimento aereo sono ancora in stand-by. A breve i motori andranno avanti tutta per far sì che la pace venga raggiunta. La pace delle bombe e dei missili animati dallo spettro di al Qaeda…
Gian J. Morici