Parigi – Passo deciso, due telefonini che squillano allo stesso tempo, viso aperto e sorridente. A prima vista il Dott. Izzeldin Abuelaish sembra un uomo indaffarato, non l’uomo che solo tre anni e mezzo fa ha perso tre figlie ed una nipote nella sua casa di Gaza, colpita da un razzo israeliano. Una quarta figlia è rimasta lesa gravemente. Quel 16 gennaio 2009 erano tutti in casa: i suoi otto figli, i suoi fratelli e le loro famiglie. Un’esplosione nella camera delle ragazze. Lo scrive lui stesso: “Ho perso le mie figlie e, nonostante la rabbia e lo sconcerto, so che non odierò”. Perché il Dott. Abuelaish è originario di questa piccola striscia ma non si è abbandonato all’odio. Aveva ed è diventato un rifugiato. Ma nonostante tutto continua a percorrere le vie della pace. Ha scritto un libro tradotto già in una ventina di lingue “Non odierò”.
Il commento sulla quarta di copertina è del Premio Nobel per la Pace Elie Wiesel: “Questa è una storia indispensabile per contrastare l’odio e la vendetta”. Lo stesso Elie Wiesel che, sopravvissuto ad Auschwitz ha scritto il saggio autobiografico “La nuit”- “La notte”. Un testimone che rende omaggio ad un testimone entrambi a scopo di pace.
Il dott. Izzeldin Abuelaish, noto ginecologo palestinese specialista nel campo dell’infertilità ha lavorato anni nei principali ospedali israeliani. I media stranieri lo chiamano spesso: “the Gaza Doctor”, il medico che ha dedicato la propria vita alla pace nel conflitto israelo-palestinese. Poco tempo dopo la tragedia dichiarò alla stampa americana: “Voglio che si sappia che vengo dal campo di Jabalia. Sono Palestinese. Possiamo vivere assieme. Non ci sono differenze tra palestinesi ed israeliani. All’interno dell’ospedale siamo tutti uguali. Perché fuori non siamo uguali, Perché no?”.
E’stato nominato il “dottore che sorride”. E’ vero! E’ sorridendo che mi viene incontro. Ha la stretta di mano energica e poco tempo, un tempo che raddoppia nella conversazione perché Lui deve comunicare. Mentre mi spiega la sua posizione in inglese, risponde ai telefonini in arabo o ebraico, di nuovo in inglese. Il dottore che sorride comunica. E’ di passaggio a Parigi perché il suo libro “Non odierò” è appena uscito in francese “Je ne hairai point”. Un libro umanitario non politico anche se i politici dovrebbero prenderne spunto.
Cos’è stato il campo di Jabalia per lei?
“Non ho mai conosciuto l’infanzia ma sofferenza e dolore. La domanda che ci si poneva al mattino era come fare per sopravvivere fino a sera. Già da bambino dovevo lottare per sopravvivere. Ma dobbiamo chiederci se siamo nati per batterci o per vivere assieme. Il male è anche non far nulla per distruggerlo.
Questa sofferenza è stata creata dall’uomo e come uomini possiamo far qualcosa : possiamo esprimerci. Quando ero piccolo sognavo di diventare medico ed avevo già deciso che in quanto medico non avrei accettato la sofferenza. I miei genitori, avevano perso tutto ma non la speranza, una speranza che mi hanno trasmesso insegnandomi che l’arma più potente non è la pistola ma la conoscenza, l’educazione”.
Ma come giungere alla pace in un mondo di ineguaglianze ed ingiustizie?
“La pace può essere il risultato della comunicazione tra le persone. Cosa possiamo fare per superare questa malattia endemica? La pace non è la pace politica o quella diplomatica. La pace non è una parola ma qualcosa che si può vedere e toccare come il cibo. E’ una relazione fra le persone. La pace è nell’azione. Dobbiamo essere impegnati. Dobbiamo raggiungere questa pace ma non si può, non si deve imporla con la forza. Deve essere fra due popoli e valida per entrambi. Una pace sostenibile. La pace è quando le persone sono libere, al sicuro; non è soltanto un discorso per firmare accordi. Molti accordi di pace sono falliti perché erano scollegati dalla gente. La politica scollega le persone che invece vanno collegate”.
Se non è la politica che può portare alla pace, come fare?
“Ci chiediamo sempre “perché?”. Perché gli accordi di pace sono falliti e cosa possiamo fare. Dobbiamo continuare a chiederci perché, mille volte, e fare la giusta diagnosi. Più che mai in questo momento mi sento responsabile nei confronti di mia moglie e delle mie figlie, per mantenerle in vita. Sto facendo la mia parte ma tutti noi dobbiamo contribuire al mondo che vogliamo per noi. Dobbiamo stare attenti anche a cosa succede in tutte le altre parti del mondo, in Africa, per esempio, o in Afganistan. Il mondo sta diventando sempre più piccolo.
Il terrorismo non ha barriere, bisogna prevenire e curare. La libertà di uno è la libertà di tutti. Tutti devono conoscere il testo del pastore protestante antinazista Martin Niemöller che fu arrestato nel 1937 e mandato nel campo di concentramento di Sachsenhausen e poi trasferito a Dachau da dove lo scrisse!” E il dottore stesso recita la poesia con forza:
“Prima vennero per i comunisti, e io non dissi nulla perché non ero comunista.
Poi vennero per i socialdemocratici e io non dissi nulla perché non ero socialdemocratico
Poi vennero per i sindacalisti, e io non dissi nulla perché non ero sindacalista.
Poi vennero per gli ebrei, e io non dissi nulla perché non ero ebreo.
Poi vennero a prendere me. E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa”.
Lei che è medico, può descrivere la situazione sanitaria a Gaza…
“Cosa dire sulla situazione medica a Gaza? Non si deve parlare di situazione medica ma di salute: la salute è più importante. Ed è un disastro perché l’ambiente è inimmaginabile: acqua, elettricità mancano, vi sono traumi dovuti al conflitto ed alla mancanza di visibilità per il futuro. A Gaza sono traumatizzati, si chiedono tutti come sopravvivere per l’intera giornata. Non dobbiamo migliorare la situazione medica ma le condizioni di vita”.
Quale fu la reazione ufficiale a quello che le successe?
“Dobbiamo essere ammazzati per mostrare? Sono conosciuto. Quando sono arrivato in ospedale con mia figlia Shatia, abbiamo dato un viso a quel che era successo. Tanta gente è venuta in ospedale: cristiani, ebrei, mussulmani. Ricevo ancora lettere e mail. Ora di nuovo, perché la storia è diventata un’opera teatrale. Ma i rappresentanti del Governo israeliano che sono venuti a vedere i loro soldati feriti non hanno fatto 100 metri per vedere i membri della mia famiglia. Volevo delle scuse ma le mie figlie erano solo “danni collaterali”, invece dovevano scusarsi. Abbiamo bisogno di giustizia. Hanno messo un mese per ammettere che era cascata una bomba nella mia casa”.
In Israele il tempo per sporgere denuncia è di due anni. Il dottore l’ha fatto due settimane prima della scadenza. Un palestinese deve versare un contributo per sporgere denuncia spiega ancora il dottore. Ha speso quel doveva per poter continuare la lotta giuridica. Non vuole un risarcimento economico per sé ma per versarlo alla Fondazione“The Daughters For Life” che ha creato. Si tratta di un’organizzazione caritatevole registrata in Canada per promuovere l’educazione e la salute di ragazze e donne del Medio Oriente e che fornisce loro scolarità, borse di studio e premi per proseguire gli studi che, altrimenti, resterebbero inaccessibili nelle scuole ed università in Palestina, Israele, Libano, Giordania, Egitto, Siria o anche in Canada. E’ importante sottolineare che l’accesso alla Fondazione è aperto a tutte le ragazze del Medio Oriente, perché, come afferma il Dott. Abuelaish, in Medio Oriente vi sono anche le ragazze israeliane.
Ci vuol coraggio per non odiare. Sta facendo il giro del mondo, cosa si aspetta dalla Francia e dagli altri paesi?
“Siete giornalisti: le vostre armi sono le parole. E’ una grande forza. Bisogna porre le giuste domande ed agire. Chiedo al Governo francese ed alle Università di partecipare. Se queste ragazze avessero la possibilità di studiare in Francia sarebbe magnifico”.
Ha potuto promuovere la Fondazione anche in Israele ?
“Sono un medico, non un uomo politico. La Fondazione è promossa in Medio Oriente quindi anche ad Haifa come in Libano, Egitto e Stati Uniti. Contattiamo le università non i governi. La gente può far pressione sui governi. Siamo contro la discriminazione e non privilegiamo nessun paese. Il merito è delle ragazze”.
E la situazione di guerra e tensione che è ripresa in quest’ultimo periodo? Hamas non è un pericolo per gli stessi abitanti di Gaza?
“Hamas è un movimento come lo è il Likud, ma ora non c’è più tempo per la politica e non si deve più parlare in linguaggio militare. Entrambi i popoli sono sotto tutela militare e settaria. Il Primo Ministro Netanyahu perde tempo prima delle elezioni. Ma il sangue degli israeliani è più importante delle elezioni. Israele avrebbe tutto da guadagnare riconoscendo la libertà della Palestina”.
Non crede che, al di là della mediatizzazione del conflitto spesso strumentalizzata da una parte o dall’altra, entrambi i popoli stiano soffrendo?
“Certo, ma le rispondo da medico. Entrambi soffrono ma sono due pazienti diversi. La diagnosi è diversa, il grado di sofferenza è diverso. Non soffrono allo stesso modo.
Israele dice di agire in stato di autodifesa ma si difende da chi? Da chi ha occupato? I palestinesi i Gaza si battono perché occupati.
Israele deve avere il coraggio di essere lungimirante. Basta paura ed arroganza dobbiamo passare alla condivisione ed al rispetto”. “In questo modo tutti sono prigionieri: gli abitanti di Gaza ma anche i soldati che li circondano”.
Le associazioni pacifiste israelo-palestinesi?
“Sono deboli ed ostacolate”.
Allora quel che continua a succedere è perché non si sono tratte le giuste lezioni?
“Nessuna. La gente fa sempre gli stessi errori. E parlo anche della comunità internazionale. Si comporta come un medico che va a curare un morto. Bisogna curare i vivi non i morti”.
Luisa Pace
Intervista rilasciata a Parigi il 17 novembre 2012 per “la Valle dei Templi” ed il quotidiano “laRegioneTicino”. Ringrazio per la cortese collaborazione la collega Flora Boumia dell’Associazione della Stampa Estera.
“Ho perso le mie figlie e, nonostante la rabbia e lo sconcerto, so che non odierò”.
“All’interno dell’ospedale siamo tutti uguali. Perché fuori non siamo uguali, perché no?”.
Un uomo che non ha mai conosciuto l’infanzia, che da sempre ha visto la propria vita con un enorme punto interrogativo, alzarsi la mattina e non sapere se si aveva la fortuna di arrivare alla sera.
Perdere tutto ma non la speranza, non la voglia di vivere e quella di abbracciarsi con quei fratelli che sono a due passi, la voglia di trasformare le ostilità in pace. Un esempio per tutti.
Grazie per avermi dato la possibilità di leggere. Deve essere un libro stupendo.
Manda l’articolo & stringi amicizia FB anche al & col pediatra Henry Ascher & Friends che dalla Svezia hanno mandato navi in aiuto x Gaza 🙂
https://lavalledeitempli.net/2012/11/28/per-non-restare-unanonima-lettera-da-tel-aviv/
mamma mia!