Il ponte ricongiungeva l’isola con la città. Antico, spoglio, magnificente. Sprofondata nel fiume, la piccola isola conteneva un ammasso di costruzioni decrepite, e un ospedale. Ermete attraversò il ponte, evitando di lasciarsi affascinare dal gorgoglio del fiume e dal vento che spazzava i parapetti. Una volta nell’ospedale si recò all’accettazione per essere ricoverato. Il cielo sopra il cortile dell’ospedale era integro come quello di Malta, il suo paese, e questo lo inquietò, che proprio ora vedesse quel cielo che costituiva da sempre il suo primo ricordo. Lo assegnarono ad un reparto e gli indicarono la sua stanza e il suo letto. Doveva solo fare delle indagini, era più comodo ricoverarsi, gli aveva detto il suo Vescovo, ed aveva obbedito. La stanza era a due letti, altre erano a sei letti, si ritenne fortunato. C’era anche il bagno. Lo perlustrò. Il letto accanto a lui sembrava intatto. Per ora era solo, dunque. Sistemò la sua biancheria nell’armadietto traendola da una borsa in finto cuoio marrone. Gli dissero di indossare il pigiama, ma si attardò a farlo, francamente non aveva nessuna fretta di farsi inghiottire dall’ospedale. Nel cassetto del comodino dispose i suoi libri. Aveva avuto l’idea di comprarsi una mezza bottiglia d’acqua, l’aprì e bevve un sorso. Poi si accostò alla finestra e questa dava sul fiume che ammassava detriti accosto alla roccia, e fluiva con una rabbia incostante. Gli sembrò bellissimo e lo strapiombo pauroso, e che quello non fosse un ospedale ma un carcere, ed ogni pietra porosa e muffita non suggerisse altro che l’idea della fuga.
-E’ ancora vestito? Tra un attimo le facciamo un prelievo, si metta più comodo- annunciò un infermiere affacciandosi sulla porta. Questo agitò il silenzio della stanza, l’idea che sarebbe rimasto lì davanti alla finestra dimenticato per qualche ora, giorno, o per sempre. Il pigiama di cotone celeste gli sembrò freddo. Si accomodò sul bordo del letto e attese. Era ancora giorno pieno, il sole non si era stampato rosso di tramonto sulle finestre, che già avanzava dal fondo del corridoio il carrello con la cena. Avrebbe voluto pregare, ma non gli andava, ogni disciplina si infrangeva contro i muri spogli, il cielo opaco e vibrante che si intravedeva oltre la finestra, il freddo suono dell’acqua indifferente che erodeva e frantumava le fondamenta dell’edificio al centro del fiume.
Ermete mangiò svogliatamente la sua cena per diabetici. Non capiva perché si era così impennato il suo male, aveva sempre seguito tutte le istruzioni, già da bambino, e praticato le piccole iniezioni, in qualsiasi posto si fosse trovato. Solo una volta aveva dimenticato, un giorno di sole forte in cima alle scogliere di Dingli, sul bordo delle falesie. Il panorama era intenso, un rotolo di nuvole rifletteva la sua ombra sulla scogliera. E lui aveva dimenticato. Il tempo di fare un sospiro profondo e si era ritrovato a terra, in piena crisi, solo. Poi era accaduto il resto. La vocazione e tutto. La notte non arrivava mai. Ad un certo punto, si spensero tutte le attività, il brusio che giungeva dalle altre stanze tacque. Era ancora molto presto, ma quel silenzio non poteva significare che infine si era fatta notte e che era meglio dormire. Rimase al buio a fissare il chiarore giallo della finestra, illuminata di riflesso da un lampione antico che inondava tutta lo slargo sottostante, dove d’estate davano il cinema all’aperto. Non aveva caldo né freddo, ma non poteva riposare su quel letto straniero. Lasciò passare le ore, e all’alba quel sonno intermittente lo aveva sfinito. Qualcuno lo chiamò mentre armeggiava sul suo braccio: -Il prelievo, Ermete.- Lui annuì. Poi passò il cappellano e non ebbe il coraggio di comunicarsi in quello stato di incoscienza, e fece debolmente di no con la testa, continuando a rimanere immerso in quella zona tra il sogno e l’incoscienza. Finalmente la luce ridefinì la stanza e lui dovette svegliarsi del tutto. C’era in fondo al letto il tavolo e sopra il vassoio con la colazione. Inzuppò la fetta biscottata che sapeva di sego, nel te. Ripiegate in un quadratino di garza, due pillole. Le mando giù senza chiedersi cosa fossero, con una fede nell’ospedale più cieca di quella che avesse mai avuto in Dio. Dopo essersi lavato fece un giro nel corridoio, tanto per dare un’occhiata, e per prendere confidenza con qualche ammalato. Non aveva voglia di avvertire i suoi familiari, né di pensare a casa sua. Non gli era mai capitato di avere nostalgia come in quel periodo caldo e soffocante, dove la città gli sembrava raggomitolata sul suo petto, pronta a premere e a distruggerlo. Ogni stanza raccoglieva molte storie e sofferenze, e relazioni, e per la prima volta si accorse di non riuscire a rimanere sereno. Si rifugiò nel suo letto, e dopo qualche breve preghiera, si addormentò. In particolare, sognò un paese dove era stato parroco, ma per poco. Un aspro paese estraneo, sperso su una montagna di rocce. Neppure le strade erano asfaltate, fino ad un certo punto, e la sua chiesa non era che una stalla. E c’erano poche case radunate intorno, e rari boschi, rapinati il più possibile per vivere. Sembrava un mondo antico, perduto, inospitale. La gente aveva il viso segnato dalla fatica, dall’assenza di modernità, e a volte perfino dalla fame. Essere assegnato a quel posto sfortunato lo aveva umiliato. Forse lui non era un brillante predicatore, forse i suoi studi non erano stati così rapidi, forse la sua fede non contava nulla e comunque era sempre un po’ reticente, forse non era comunicativo, simpatico, obbediente. Aveva avuto modo di riflettere, mentre si aggirava nella sua stanza fredda riscaldandosi alle fiamme dell’orgoglio ferito. Si era presentato dal pulpito, non aveva fatto visita a nessuno e nessuno aveva bussato alla sua porta. Non sapeva neppure se fosse il caso di spiegare il vangelo a quel gruppo di anime quasi senza sguardo, infagottate sia d’inverno che d’estate, misteriose. Quasi ingiustificate.
Niente a che vedere con l’idea di quartiere cittadino che si era impressa nella sua smisurata presunzione. Niente a che vedere con l’oratorio fervido di attività che lui aveva in mente, con le relazioni missionarie, con le udienze dal papa assieme ai parrocchiani che aveva sempre immaginato. Non c’era che un paese silenzioso, fin quando il vento e i lupi non vi facevano un po’ d’allegria, in inverno. Ora lo sognava, erano passati tanti anni, lui aveva un aspetto diverso, più massiccio, più maturo. Eppure con quell’abito di carne maturata e pesante si aggirava nel paese e bussava alle case, una per una, incessantemente. Fino a che, il pomeriggio inerte non si tramutava in una notte lunare. Non c’era che il passo dei lupi, dietro di lui, piegato sui gradini sbreccati di quelle ruvide case. Cos’è il peccato? Ripeteva. Il paese si popolava di lupi, arrivavano in silenzio e si accucciavano, qualcuno si avvicinava, ma non c’era timore. La notte era splendida e deserta di uomini.
Qualcuno gli bussava sulla spalla:
-Padre, padre- Ermete aprì lentamente gli occhi. Di fronte a lui qualcosa era cambiato, il letto era occupato da un signore mezzo calvo, la sedia da quella che doveva essere la moglie, una donna nervosa e bionda. L’infermiera di fianco al letto si scusò di averlo svegliato, ma si doveva preparare per una ecografia. Si sentiva male e confuso, ed aveva sete. Salutò il suo nuovo vicino e poi andò in bagno a darsi una rinfrescata. Poi si lasciò condurre dall’infermiera verso i piani inferiori, dove si praticavano gli esami dietro porte chiuse, lungo corridoi grigi e tristi come una stazione di notte.
L’ecografista aveva voglia di parlare, e quindi gli perlustrava l’addome e nel frattempo gli faceva un mucchio di domande, non sulla salute, ma sull’anima.
-Lei è un prete no? Allora, vediamo un po’ quest’anima-
Ermete sorrise al soffitto, tristemente. Pensava a lupi, alla mandria di mantelli scuri che si addensavano sulla via sassosa del paese, verso la porta, che ora riconosceva, era quella della sua chiesa. Il medico asserì che andava tutto bene, ma dell’anima nemmeno l’ombra. Ermete si rivestì e poi, mentre stava sulla porta, il medico di nuovo lo richiamò: -Insomma, padre, l’anima non esiste-
-Forse- rispose lui. E andò via. Avrebbe dovuto aspettare l’infermiera per ritornare in reparto, ma aveva sete e cercò il bar. Aveva anche voglia di vedere gente sana che si abbeverava di schifezze di fronte ad un banco cromato e scintillante. Gli piaceva osservare le scatole infiocchettate dei cioccolatini che tanto gli ricordavano quelle di caramelle, rosse come il cuore, che lui donava a sua madre il giorno della sua festa, dopo aver contato i soldi di ragazzino messi da parte durante l’anno.
Prese dell’acqua minerale con un po’ di limone e stette tranquillo a guardare il viavai di ordinazioni, a sentire le chiacchiere, i ragazzini che correvano e schiamazzavano intorno alla vasca dei pesci, le tartarughe d’acqua che si arrampicavano sui massi della fontana sotto un sole implacabile e un’aria umida. Era molto stanco e da molto tempo, da quando la malattia aveva deciso di sbizzarrirsi, di cambiare schema, di fare l’originale. Era buffo che avesse ricordato la sua prima chiesa. Quando ci si era così affezionato da sentirsi come l’erba che cresce invincibile tra i massi, lo avevano mandato via. Persino chiuso la parrocchia, perché quei quattro animali che si trattenevano in cima, forse non ne avevano diritto. E non gli avevano mai più dato una parrocchia, una sede stabile, una casa. Per un certo periodo era tornato a Malta. Si era chiuso nella casa di sua madre, e da lì osservava il mare. Ed era felice, e questa felicità che lo pervadeva era come una porta di ferro che impediva il passaggio di qualsiasi altra considerazione. Era il bene, era la cosa giusta. Avere la felicità e tenersela buona. Lavorare per mantenerla. Ecco, a questo punto, a cosa era servito strappare le parole di bocca ai suoi parrocchiani, riuscire a varcare le soglie delle loro oscure case, passare in quelle porte strette e trovarvi con meraviglia focolai luminosi, oggetti utili e curati, idee scarne e verità inoppugnabili, a cosa era servito interrogarsi la notte e al mattino lavorare, imparare dalla loro miseria? Erano come un branco di lupi silenziosi, venivano in chiesa senza alcuna richiesta, senza alcun turbamento. Uno di loro gli disse che veniva a pensare. Era la chiesa lo spazio della parola, non della necessità. Quando aveva compreso questo, accettò che al posto della predica a volte ci fosse il silenzio, o qualche domanda.
-Cos’è il peccato?- mormorò. Poi si riscosse, pagò la consumazione e tornò alla sua stanza, al suo letto bianco, alla finestra sui platani del lungofiume immobili nella calura. Il suo vicino si presentò, e così la moglie. Lui lo osservò di sfuggita ma gli parve una cosa grave. Era un uomo vitale e timido, e sua moglie sembrava arrabbiata, con lui, con le lenzuola del letto che non risultavano rigide e marmoree di ordine, con la finestra chiusa e poi con la finestra aperta, con il caldo e poi con il freddo dell’aria condizionata. Infine si calmò e rimase seduta a tenere la mano del marito. Lui le diceva: – Ho capito tante cose- e lei non rispondeva, lo sogguardava dai grandi occhiali spessi, uno sguardo verde, sfiduciato. Pensò malvolentieri ai brevi addii della sua vita, alle parole, risultate le ultime, tra le tante che ci si scambia come se ci fosse un domani di eternità. Quando la donna andò via, rimasero soli e l’uomo cominciò a parlare, gli chiese se era un prete, se era straniero, gli chiese di Malta, sempre guardandolo per poco negli occhi, e poi sfuggendo burberamente, con grande intensa timidezza. Considerò per un bel pezzo l’originalità del suo nome, dicendo che era insolito, che era bello. Ermete lo guardava e rispondeva con pazienza alle sue domande, accolse il racconto della sua malattia, e alla fine tacquero senza imbarazzo, perché non avevano altro da dirsi in quel momento. Arrivò la cena e l’uomo la derise, lui che aveva avuto un ristorante, che se ne intendeva di cibo, anzi quasi non parlava d’altro. Ermete non poteva mangiare molto da una vita e aveva rinunciato a pensarci troppo. A volte sognava di addentare delle torte e questo in parte lo compensava. Venne la notte, la terapia ai malati, il silenzio.
Nei giorni seguenti riuscirono a stabilizzare la malattia di Ermete e a considerare la possibilità di dimetterlo aggiustando la cura. Lui e il suo vicino erano intanto diventati amici. L’uomo era buono e pieno di affetto, ma anche colmo di ritrosie e paure. Aveva avuto giornate di grande sfinimento e giornate dolorose. Era un uomo che andava di corsa e ogni tanto sbuffava perché la fine era lenta.
In capo a poco Ermete venne dimesso. Salutò il suo amico promettendo di tornare e si scambiarono i numeri di telefono e gli indirizzi. Gli mancò non essere più presentato con enfasi a tutti coloro che venivano in visita come il “sacerdote di Malta”. Di solito dicevano di lui, con una certa sciatteria e intenzione, che era un prete, un prete straniero.
Ermete riattraversò il ponte in senso contrario e si fermò di nuovo a guardare il fiume. Le giornate erano mutate, il cielo era basso e minaccioso, le acque tormentate e torbide. Guardò verso la finestra della loro stanza e si sentì liberato e spaventato. Tornò alla sua camera in un collegio di Padri, alla mensa un po’ più ricca di quella dell’ospedale, alle funzioni serali in una chiesa in periferia. Sentiva che qualcosa con l’aggravarsi della sua malattia era cambiato. Oppure che la sua coscienza era arrivata a condensare tutte le sue richieste intorno ad una stupida domanda: cos’è il peccato? Eppure un’ora prima della messa sedeva in confessionale ed attendeva di ascoltare i fatti degli altri, quello di cui si accusavano, e quelle azioni di cui dicevano di pentirsi. Ma non gli sembravano peccati, forse ne aveva perso il senso, forse il diabete gli cominciava ad offendere il cervello. Gli sembrava che tutti si accusassero di inezie, e venissero a denunciare peccati come si denunciano le tasse, o si timbra un cartellino, o si fa il bagno la domenica d’inverno. Dopo quei montanari silenziosi, tutto, ma proprio tutto, gli era apparso frivolo e incostante. Tranne il suo amico, in ospedale. Pensò di andare a trovarlo e una mattina, pioveva sulla città con una impetuosità implacabile, si trovò ad attraversare il ponte e a cercare di nuovo la stanza e il letto dell’uomo, che era ancora lì, non più molto lucido, ma che fu contento di vederlo. Nel trovarlo in quello stato pensò di tornarsene via, di mettersi in salvo. Ma l’uomo era contento e sollevato, e lui rimase. La giornata era rumorosa, il vento trasportava la pioggia e il fiume, le finestre venivano chiuse in fretta e a questo seguivano esclamazioni di meraviglia e sollievo, come se ci si fosse riparati dal pericolo in extremis. Il suo amico a volte era lucido, altre volte diceva di volere un gelato e poi una birra, e se gli portavano un cremino poi non voleva più cedere il bastoncino e lo stringeva tra i denti e bisognava ingegnarsi a toglierglielo con l’inganno per evitare che si ferisse. Poi, venne giù un pomeriggio violaceo. Il vento cadde e la pioggia divenne un mormorio. Allora l’uomo sembrò riaversi, guardò Ermete e gli disse: -Voglio confessarmi-
Non aveva con sé la stola, né altro. Avvicinò la sedia ancora di più al letto e piegò il capo per ascoltarlo. Non avrebbe voluto, non ne poteva più del tormento degli uomini, e desiderava solo la loro allegria. Ma era tutto quello che poteva fare per il suo amico.
Lui gli disse che amava sua moglie, ma glielo aveva detto poco. Che suo figlio era un uomo buono, e pieno di genio e che questo lo aveva sempre spaventato, per cui aveva cercato di svalutarlo, di piegarlo ad un pensiero più conforme, che anche lui potesse condividere, e lo aveva costretto a dubitare di se stesso. Aveva sempre temuto gli eccessi della sua generosità per cui in alcuni momenti aveva negato l’aiuto ai fratelli, o a vicini, ed elargito in momenti sconclusionati e fuori luogo:
-Insomma- mormorò – ho sprecato quello che avevo, ci ho sputato sopra, il piatto mio era ricco e mi sono mosso come un poveraccio affamato e risentito.-
Ermete gli tenne stretta la mano. Attese che lui si calmasse, che il respiro si facesse più dolce, più raro. Lo assolse e lo benedì. Lo ringraziò, ma il suo amico non poteva più sentirlo.
Lo lasciò un attimo alle cure degli infermieri e si spostò a guardare la città nera e assediata dalla pioggia.
-Cos’è il peccato?-
Era un inverno freddo e stavano tutti in chiesa. La luce elettrica gliela avevano tagliata e c’erano accese tutte le candele, il manto di stoffa delle statue, intessuto di fili dorati, scintillava. A volte quella comunità si faceva delle domande, ma non si aspettava veramente delle risposte. Infatti lui non rispose. Cosa avrebbe dovuto dire? Di non fare il male? Di fare il bene? Ma loro già lo sapevano.
Sostò ancora davanti al letto del suo amico, poi gli accarezzò le mani e uscì dalla stanza. Sperò di non incontrare nessuno, sperò di essere solo, con il grande dono che aveva dato in pegno a lui quell’uomo.
La pioggia era torrenziale, l’aria fredda. Il fiume scorreva e saltava sotto il ponte.