Cos’è un fatto. Un fatto è un fatto, una serie di avvenimenti oggettivi che nel loro insieme costituiscono un fatto. Ora, perché questa asserzione così ragionevole diventi improvvisamente una semplice buffonata, chiedete alle persone che hanno assistito al fatto, di riferire lo stesso. Non si darà più il caso di un unico fatto condiviso, ma di molti fatti assolutamente divergenti fra di loro.
Alla fine dubiteranno anche di essere stati là.
Così ci capitò, una mattina, di andare in tribunale, per una testimonianza. Anzi, io dovevo fare una testimonianza. Ero stato testimone di una lite furibonda tra una inquilina e l’ineffabile padrona di casa, una donna piena di charme, a partire dalla tinta rossiccia che le si diffondeva sulla fronte, fino alla caviglia tozza e impelacchiata. In realtà io stavo nel mio appartamento, in un terzo piano esposto ai quattro venti e dotato di pareti esili, osmotiche al freddo più carogna d’inverno, e al caldo subequatoriale d’estate. Era infatti un giorno di quasi estate e già si soffocava. Stavo nel mio studio e indossavo una elegante canotta bianca a bretella fina che scollava sulla pancia, e dei boxer neri. Ai piedi calzini sotto al ginocchio, regolamentari, e le pantofole di mia moglie, quelle di spugna blu col fiocchetto di raso. Ma in fondo eravamo io e Nelson, il gatto rosso, e ci piacevamo abbastanza e non dovevamo sedurci più. Stavo immaginando, che quello è il mio lavoro, in fondo, immaginare, quando dalla finestra aperta sull’inferno atmosferico che saliva dalla strada, si innalzò uno stridulo vocio di comari colte da enfasi belluina. Ed ora inizia il fatto. Perché mi affacciai sulla stradina striminzita antistante il portone e vidi due ragazzini e un cagnolino, soli in mezzo alla strada. La tettoia copriva le belligeranti. Uno dei bambini piangeva, e pensai bene di scendere. Esatto. Così com’ero. In mutande. Non c’era ascensore, e mentre scendevo si aprivano alcune porte, la mia dirimpettaia, certa Luigia, e al piano di sotto certa Gaetana. Tutte più alte di me, più robuste, più bionde. Soprattutto più donne, nonostante le pantofole di mia moglie fossero sullo spartano civettuolo, tipico della sua femminilità, carica di comfort, praticità e concessioni poco o nulla a infiocchettamenti degeneri. Scendevano con la loro bella corporatura ossea che ad ogni passo produceva un sonoro tonfo, e si arrestarono davanti alle due impareggiabili nemiche, la giovane alta e cicognona, la vecchia a forma di barattolo stinto. In fondo alla scena si intravedevano i due bambini che sostavano sull’asfalto, piccoli in verità, e il cagnolino ancor più minuscolo, e il bambino più grande piangeva. Ora le due ispide erano quasi arrivate alle mani, la vecchia minacciava di “cacciarsi la ciavatta!” l’altra replicava: la ciavatta?? La ciavatta?? Considerai in un lampo l’immagine di una pantofola ferrata capace di dilaniare come una mazza medievale, ne eseguivo mentalmente l’ardito disegno, mentre però le superavo e andavo ad occuparmi dei bambini.
Le due si picchiarono, le altre cercarono di fermarle. Io presi per le mani i bambini e li tolsi dalla strada. Seguì un confuso elenco di intenti, azioni annunciate da altre grida: ti denuncio, ti accoltello, ti rovino, ti cancello dalla faccia della terra con il coltello suddetto.
I bambini erano nel panico, e francamente anch’io, il cagnolino poi sembrava solo uno straccetto a nodi, di quelli che si strizzano nella spirale di un bidone, considerato poi, che tutta quella sciagura l’aveva provocata una sua millimetrica incontinenza.
Ecco, sembra tutto chiaro, fermiamo l’immagine: io con la mia pancia e la canotta, la donna alta col viso di madonna che alza la mano tutt’altro che benedicente sulla testa irsuta della vecchia contadina, le due bionde voluminose in atto, molle in verità, di trattenere cotante grazie. Sembra un fatto, ma lo è solo dal mio punto di vista. Al processo risultò tutto diverso.
Ci andammo di mattina. Ci venne a prendere la giovane alta con la sua macchina. Una sola delle bionde risultò un teste a favore, l’altra si aggregò alla vecchia ma mai si presentò. Tante cose erano cambiate da allora. Non si abitava più sotto il tetto, si fa per dire, della vecchia trista e obesa. Quei bambini non erano proprio più così bambini e il matrimonio che li aveva generati era naufragato. Mia moglie ed io eravamo sempre insieme, ma quell’insieme così stretto che fa male, che è troppo necessario. Ma tant’è, eravamo cosiffatti,e non potevamo ora smontarci e ricomporci, tempo non ce ne era. Ecco, anche il tempo sembra un fatto, un oggetto misurabile, confrontabile, oggettivabile. E manco per niente. C’erano istanti d’amore che proprio perché non prolungabili nell’eternità, apparivano come fulminanti agonie, e brevi a domanda risponde in una aula giudiziaria che risultavano come atti complicati, estenuanti, coloriti di grottesco puro. Infatti la nostra combriccola non si sottrasse: dalla bionda che noncurante della mia presenza come teste, dichiarò che a me manco mi si ricordava, e che i bambini, boh, forse stavano in strada, forse in macchina, forse solo uno in macchina e l’altro in strada, e che lei era depressa e stava sotto farmaci. E che comunque la padrona di casa la odiava, e su questo era un coro unanime, il fatto più fatto di tutti.
Alla denunciante che raccontò con serietà e nessuna autoironia della pipì del cane, del bambino più piccolo chiuso in macchina mentre lei andava di sopra con il più grande a prendere straccio e spazzolone, e il cane? Boh, il cane stava in strada, mentre io dicevo che i bambini erano in strada, il pubblico ministero sgranava gli occhi che una madre avesse chiuso un figlio in macchina, e su tutto volteggiava “la ciavatta” solo sollevata in verità, mostrata, pavesata, che se ci penso al piede tozzo e ruvido che l’ha calzata mi vengono ancora i brividi.
In fondo all’aula gli avvocati delle altre cause ridevano come pochi.
Certo mi interrogarono, il giudice devo dire un uomo ragionevole, serio, sereno, due minuti prima aveva alzato la voce con una signora che strisciava ad intervalli regolari verso di lui e sussurrava qualcosa, di altamente inopportuno, immagino. Dissi quello che avevo visto, quel che ricordavo di aver fatto, la ciavatta? Si, in realtà io stà minaccia l’avevo sentita, se ne era talmente parlato che ormai questo elegante manufatto pendeva un po’ sulla testa di tutti. Convenni, la strega ne sarebbe stata capace, era almeno verosimile. Il pubblico ministero, una signora brunetta e ingessata, mi chiese ancora se ricordavo dov’erano i bambini. Il giudice si innervosì, e così lo interpellai: devo rispondere? E il giudice disse di no, che non era dove stavano i bambini la questione della causa. La questione era la lite, le botte che dicevano d’essersi date, e lei, lei che non c’era, la vecchia cicciona perfida, con le sue vestagliette lacere, la scopa perennemente in mano e i conti fatti sul quaderno di prima elementare con le penne con la pubblicità.
Forse la vera causa l’avremo dovuta intentare tutti nei confronti di quella persona lì che piegava le nostre vite a liti continue, che manometteva l’orario del riscaldamento in pieno inverno, che imbrogliava sui conti dell’acqua, che tralasciava il resto per te ma ti veniva a chiedere i due centesimi che mancavano a lei. Parecchi giovani matrimoni naufragarono, non tennero la botta di una che bussava ad ogni ora pure se cadeva un fazzoletto. Distacchi improvvisi della luce perché la goffa pupazza di lardo trafugava le bollette dalle cassette della posta, lettere smarrite, avvisi di eredità, qualsiasi cosa, spariva. Per non parlare degli animali, gatti in particolare, che non si sapeva che fine gli facesse fare. Galline sgozzate sul far dell’alba, o nell’ora azzurrina del tramonto, nello spazio sottostante alle finestre tue, nubi nere che invadevano e affumicavano la tua casa nell’era delle bottiglie di pomodoro. Forse di quell’episodio non so, ma la cialtrona era colpevole d’aver esacerbato le nostre vite, sconquassato la molle idea di civiltà e di educazione che ci sembrava tutto il mondo condividesse. Niente potè contro mia moglie, che un giorno la considerò morta. Lei provò a parlarle, con quel tono mellifluo, ma su mia moglie fece l’effetto di un’ombra che provi a prendere contatto dall’al di là. Ecco, cos’è un fatto? Lei obiettivamente non era morta, ma mia moglie operò dentro di sé una cura antropologica, retrocesse di millenni, e la ridusse magicamente nel regno delle ombre. Che donna! Era entrata nella sua mente, nel suo modo di ragionare, e preveniva ogni movimento della scaltra orchessa. Fino a che non dovemmo traslocare, finalmente, per prendere una casa nostra. Purtroppo Nelson non era più con noi, ebbe la sua Trafalgar e ci lasciò. Sostammo, prima di andar via, sul balcone ad osservare per l’ultima volta la scena che era mutata in ogni stagione per vent’anni. Un campo seminato, con una casa colonica e un ricovero per i covoni di fieno. Il cielo libero al quale guardavamo nei momenti di oppressione della nostra vita, le incomprensioni pur nell’amore, i soldi pochi, il freddo in inverno, il mio lavoro, che fai tu? diceva mia moglie, tu crei la bellezza ed io ne vivo, ma il mio lavoro non aveva successo. Il tempo, che rotolava via come le nuvole in quel bell’universo sulla nostra testa, e nelle notti d’estate, complice il buio di quella stradina senza lampioni e della lampadina delle scale manomessa dalla solita tirchia di cui qui tanto si è narrato, apparivano le costellazioni nitide nel cielo nero, i tracciati stellari, luminosi come le intenzioni della nostra vita.
Il giudice prese nota per la prossima udienza. Noi avevamo finito il compito nostro. La giovane alta mi fece una similreprimenda su ciò che avrei dovuto dire, tante per colorire la verità. Ma io non sono fatto per queste cose, non affianco una pallida verità, semmai ne invento una tutta nuova, le dò colore, forma, affinché diventi una scultura, o un minuscolo dipinto, o una tela grande come una parete. Anche le bugie hanno la loro dignità, le meglio riuscite si chiamano romanzi.
Ci offrì una frettolosa colazione per ringraziarci del disturbo che ci eravamo presi, mentre la bionda Gaetana ribadiva che a me non mi si ricordava, che proprio non mi aveva notato. E’ un fatto che io in realtà non ci fossi lì con loro, almeno non in spirito, ero con quel ragazzino che avevo visto nascere e che mi chiamava zio, che singhiozzava in mezzo alla strada e continuava a tenere il guinzaglio di quel piccolo cane.
Abbracciai mia moglie. Perché per lei esistevo. Era terribile il suo sentimento di me. La foga con cui mi teneva in vita, l’appoggio continuo alle mie aspirazioni, come se fossimo presi in un unico sogno.
Poi la guardai camminare avanti, verso la macchina, assieme alle altre che accanto a lei sembravano dei salici.
Allora, fuori di quell’aula, il racconto di quella lite mi parve veramente un intermezzo ridicolo, passabile di odiose complicazioni. Mi accesi con calma la pipa e cominciai a pensare ai fatti veri, quelli importanti, almeno per me, sospesi come una nube sul tempo stesso, pronti a dargli un senso: quel bambino che ormai era quasi un uomo, la paura del piccolo cane, la reazione civile e ferma di fronte all’operato di una mezza criminale, il lavoro, la bellezza. Rimasi indietro, a guardare il passo delle tre donne che si allontanavano, e pensai di poter concludere il mio elenco citando mia moglie.
Qualsiasi cosa fosse accaduto, queste cose dovevo cercare di salvarle. Affrettai il passo per raggiungere mia moglie, che ferma al semaforo mi aspettava, mentre le altre non le vedevo più.