Aveva bisogno di usare le mani.
Adesso. Subito.
Si lasciò andare. Un’onda calda nella pancia ad accogliere la resa, un brivido sulla pelle a ricordare invano le vittorie. “Ne ho bisogno.”
Mani avide nella credenza. Mani che cercano, sole.
Le mani, da sole, avanti. E un corpo lento che le segue, muto ed incredulo; la testa ancora lì, su quel cuscino, a chiedersi come rispondere ad un bisogno cui non riesce a credere di aver ceduto.
Farina. Farina bianca a pioggia sul tavolo di legno.
Le mani ridono di gusto: “Quando arriverà la testa storcerà il naso. Certe cose si fanno sul tavolo di marmo!”
Il sale.
Le mani conoscono il rito. Voluttuose si insinuano a corrompere di minuti grani trasparenti e ruvidi quella purezza soffice che le accoglie ritraendosi, compattandosi, per poi tornare docile ad offrirsi. L’immagine è già negli occhi. Le mani li sentono. Li sentono riempirsi di bianco, e il bianco ombrarsi di grigio: le impronte del sale che vi affonda, disseminando minuscoli buchini a testimonianza dell’invasione.
“Presto saranno qui”.
Invece è il naso, è il naso che arriva prima. Quando le mani accarezzano il sinuoso velluto del lievito che ubbidiente si arrende all’acqua tiepida sul fondo della ciotola. Ed è strano. E’ strano che sia lui alla fine a riportarle gli occhi, il pensiero, la testa. O forse no. Forse è normale. Forse è normale che siano gli occhi, stanchi di vedere, a non avere voce per svegliarla. Che sia l’odore, neanche piacevole, a scuoterla, quasi un dovere. Ma non importa. Ora che è tutta lì – le mani nella pasta che cambia colore e consistenza e prende forma, il corpo che le segue e ondeggia piano confondendo spazio e tempo, tempo e spazio, il naso e gli occhi vuoti di ricordi, pieni di memoria – la testa è solo mani, corpo, naso, occhi. E silenzio. Silenzio che finalmente tacciono i pensieri. Silenzio che finalmente tacciono le parole.
Quando nacque suo figlio e il silenzio erano solo le ore del suo sonno, nelle quali pensieri e parole venivano a derubarle la gioia di lui, le mani allora le infliggevano le pene della fatica fisica, a mortificarle anche il corpo, che voleva urlare. Invasate di bisogno di fare pulivano, lavavano, strofinavano, strizzavano, bollivano, frullavano, senza sosta, a toglierle da dosso anche i sospiri del passato perché non le parlassero a prenderle le scelte, confonderle i doveri, inquinarle i sorrisi. E poi i disegni. Quando la testa di svegliava loro erano già lì, matita in mano e fogli bianchi a chiuderle i pensieri in gabbia, a farne linee e forme e colori. Troppi. Troppi disegni e segni che lo stuolo di amici e disegnatori che al mattino veniva a inseguirli, quando lei ritornava mamma o macchina, non riusciva a tenere il passo.
Dopo c’erano stati i giochi da riparare, le pieghe ai pantaloni da allungare, le maglie da sferruzzare, i computer da formattare, e.
Fare.
Le mani a tessere il silenzio. A cancellare i vuoti pieni di parole che le piovevano dentro, insinuandosi attraverso la pelle: sale sulla farina bianca e morbida, grandine sopra la neve, pioggia fitta sulla sabbia sottile o sull’acqua grigia e immobile prima della tempesta.
La tempesta. Le mani a fare per fermare la tempesta. A costruire muri per tacere fuori per non sentire dentro.
“Dovrei imparare a fare il pane”. Sono le mani a dirlo mentre ancora impastano e nella bocca e nella testa e nella pancia c’è già un’idea pulita e semplice: il sapore pulito e semplice del pane caldo di forno a legna, strappato con le mani, come – “Prendi il coltello che così lo rovini” – non lo poteva fare quando era piccola. Caldo, pulito e semplice come certi affetti. Come un figlio da crescere che non è semplice ma è naturale. Come certi piaceri. Le mani nella farina, le mani sulla sabbia calda, le mani sulla tua pelle. Un morso a una mozzarella. Ecco, chissà perché un piacere semplice diventa sempre una trasgressione. Che da ragazzi si bigiava scuola per andare al mare e, fuori i caseifici sulla strada del ritorno, la libertà più grande erano le mani nude su quelle forme bianche e tumide di latte e siero e i denti a morderle, l’acqua giù per il viso e lungo il braccio fino al gomito, fino a sorridere, a ridere di gusto, le bocche piene. A casa non si può fare.
Quante cose non hai fatto che non potevi fare. Quante cose non hai detto che non potevi dire. Quante cose hai dovuto fare con le tue mani a chiederti di usarle ancora e ancora perché tutto quel peso non ti sprofondasse dentro cacciandoti finalmente fuori.
Non ferire. E oggi che senti di aver ferito e le mani ti chiedono di non sentire e mescolano, impastano, tirano, stendono, ti chiedi chi sente le tue ferite. Chi le ha sentite. Chi ha visto in quelle mani senza pace i sogni, i bisogni, i desideri che hai mescolato, impastato, strofinato, strizzato, disegnato, stracciato per non ferire. Ferendoti. E oggi che senti di aver ferito e le mani ti chiedono di non sentire e mescolano, impastano, tirano, stendono, ti chiedi perché ti sei ferita ancora. Ferendo.
Avevi bisogno di usare le mani stasera. Di spegnere le luci sui pensieri. Di far tacere le parole che ti riempiono i silenzi. Quelle che questa volta hai detto.
La pizza è venuta buona, come sempre. Le ferite che hai mescolato alla farina, al sale, all’acqua, al lievito, quelle ferite che ti urlano dentro le ferite che tu hai aperto per smettere di ferirti, chiamandoti le mani a chiedere di farle tacere, non sono diverse da quelle dei silenzi. Dei silenzi con i quali ti ferivi per non ferire. Hanno lo stesso sapore. E la stessa sconfitta. Però io ti spiavo stasera. Mentre pensavi che fossi sola. E ti ho visto. Prendere a morsi la mozzarella. Tenendola tra le mani.
Bella: metterò il link insieme all’intervista al Vostro editore Gian Joseph Morici prossimamente alla radio università svedese http://www.k103.se Radio Italia 🙂
Ma grazie! dammene notizia ti prego… non so come… mmmh http://about.me/cinziacraus se il mio editore approva il commento è il mio sito 😉