Non era stato sempre così? Mentre mi correva avanti, e sapevo che sorrideva, che aspettava quel giorno tutta la mia settimana, non so se il tempo per lui fosse lo stesso che per me, mi chiedevo da quando noi due ci conoscevamo. E pur non volendo gli correvo dietro, mi affrettavo, e riflettevo che aprendo gli occhi, molti anni prima, me lo ero trovato di fronte e non mi aveva lasciato più.
Data la mia età, e il nome che gli avevo appioppato, tutti consideravano con meraviglia e tenerezza, che fosse il mio amichetto immaginario: i bambini hanno un amico immaginario a questa età..e soprattutto quelli intelligenti.. andavano dicendosi l’un l’altro ed era chiaro quanto ci tenessero che io fossi intelligente, e quanto di lì a breve, me lo sentivo, avrei dovuto deluderli. Così io e lui, svelato a causa del nome Marco, e del fatto che ci parlassimo incessantemente tutto il giorno, iniziammo a stare insieme, con molta naturalezza, da quella mattina di ormai tanti anni fa.
Non starò a farla lunga, a raccontare per filo e per segno tutto l’imbarazzo che creava la nostra conoscenza all’inizio, ma poi ci abituammo a dissimulare, a parlarci quando davvero nessuno girava nei paraggi. Non grandi discorsi davvero, all’inizio, gli davo da tenere le bambole, o lo ingozzavo di bucce di patate rimestate nelle mie pentoline di rame. Gli altri avevano un cane, io avevo lui. Quando le cose cominciarono ad andare male per me, non fece come molti, non mi mise da parte. Rimase. Anche se cercavo di piangere di nascosto lui mi trovava. Si infilava vicino a me, e parlava. A pensarci bene, ora che lo vedevo correre avanti, impaziente, lui non era mai cambiato: non era stato bambino, né adolescente, né adulto come me, era sempre stato uguale. Mi fermai al semaforo e lasciai che continuasse a camminare concitato.. Oggi era forse il giorno che lo vedevo veramente?
Lo seguii nella Chiesa del quartiere. Era già seduto in mezzo alla gente, quando sapeva benissimo che a me piaceva sedermi in disparte. Lo guardai ironica e mi diressi in fondo all’emiciclo, dove non avevo nessuno intorno che si svociava sui canti sbagliando tempi e intonazione. Tanto ovunque io fossi lui lo sentivo, tranne qualche volta, quando sembrava non ci fosse che incomunicabilità tra di noi. Ebbene, non erano state rose e fiori, diciamocelo. Sia per me che per lui. Mi ero ad un certo punto accorta che cambiava sguardo e voce e atteggiamento ogni volta che non approvava una mia decisione. E una volta che eravamo sugli argini del grande fiume che attraversa la città, sui camminamenti sotto i ponti, e per fortuna passava poca gente, quella poca mi aveva visto inveire contro un bastione. Ricorda pure lui? Lo vedo dal mio banco, lo so che sto interferendo con la sua contentezza, ma non posso fare a meno oggi di ricordare. Io ero molto innamorata, molto, e lui aveva ragione, come sempre, alla fine. Non ha potuto trattenermi e per un po’ lo vedevo di lontano, che passeggiava per la città temendo di disturbarmi. Ed io che mi mostravo al braccio di questo ragazzo e gli facevo un gesto che solo noi conoscevamo, per dire vedi va tutto bene, questa volta ti sei sbagliato, torna se vuoi. E un giorno è tornato. Ero così felice, gli ho mostrato la casa, in verità un superattico caldissimo, e tutti i mobili di seconda mano che avevo verniciato di bianco, e le nostre foto, e lui guardava ed ogni tanto il suo viso era attraversato dal chiarore del cielo, vi si incagliavano le nuvole come in una foto sovraimpressionata.
E dopo, non ha preteso che gli dicessi che aveva ragione, era anche colpa sua, sussurrava, non l’avermi detto che bisogna salvarsi anche dall’amore, dalle buone intenzioni, che non poteva fermarmi veramente.
Abbiamo parlato fitto fitto almeno per i miei primi cinque anni. Guardava sempre un quadretto di smalto sopra il mio letto e scuoteva la testa. Allora non sapevo perché e poi ho smesso di pensarci. Ma oggi so il perché. Oggi che lo vedo veramente, che considero la sua sembianza che prima mi apparteneva come quella di un fratello gemello. Va bene, starò zitta, così mi sta dicendo, ecco c’è il Salmo e lui ci va pazzo: non indurite il cuore come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto..
Sono stanca di sentire questa storia? No, mi piace, non ridere lo so che sto sbadigliando, mi piace, mi ha trascinato qui per tanti di quegli anni, alla fine devo dire che mi piace. Come perché? Sto riflettendo mentre lo sento cantare. Sono in molti a farlo, ma la sua voce la riconosco, mi stupisce che gli altri non la sentano, si perdono qualcosa di veramente speciale. Con me non c’è stato niente da fare: abbiamo cantato in segreto ma ogni volta che le canzoni che lui mi insegnava le intonavo davanti a qualcuno, questo si turbava, cominciava a chiedere agli altri, alla fine cercavano tutti di darsi una risposta logica: gliele avrà insegnate quella beghina del piano di sopra, oppure, all’isolato vicino c’è un maestro di coro, o: ma sarà stato a scuola, che vuoi che ne sappia. Così avevo smesso. Mi piace sempre ascoltarlo. No, non mi sento male, non sono in vena di complimenti, ma devo dirti che oggi ti vedo. Ecco, ora c’è questo vangelo che gli piace tanto, a me invece fa paura, mi innervosisce, ma capisco che riguarda il suo campo d’azione. Non ho mai voluto nemmeno parlarne con lui, non voglio spiegazioni. Nel tempo ho avuto bisogno di capire le persone con cui vivevo, il mondo che mi circondava. Nel tempo credo di aver cercato di capire in fondo chi fossi io. Ora tutti si siedono. Lui si distingue da tutti gli altri. In genere tutti noi ce ne stiamo insaccati nei nostri cappotti, con il foglietto della messa in mano che alla fine diventa una barchetta, e durante la predica pensiamo ai fatti nostri. E le facce sono quasi tutte neutre. Non si parla mai di quello a cui si pensa durante la messa. Forse non si pensa a niente, verso la fine ho sempre una fame cane e agevolo l’idea della cena, mi vedo in cucina a preparare manicaretti, ad apparecchiare la tavola. La sola faccia intensamente concentrata è la sua. E una volta gliel’ho chiesto, e mi ha risposto Sto cantando. Sto cantando. Perché? Perché entro nel vortice, Che vortice? Mai aggiunto altro.
Il prete spagnolo sta terminando la sua predica, deve, altrimenti questa sarà la terza finta chiusura e qualcuno si è tolto il cappello e grattata la pelata, lo stropiccio degli stivali si è fatto più intenso. Eccolo, siamo pronti ad alzarci come un sol uomo e a recitare la preghiera successiva battendo il record dei mangiatori di parole. Ma improvvisamente fa una deviazione. Parla di una cosa per la quale rapidamente tutte le facce da atone diventano prima interrogative, poi sorprese, e infine lievemente divertite. Parla dell’angelo custode.:
-Parlamosse chiaro, che jo gli posso chiedere qualssiassi cossa, e lui me salverà, siempre-
Poi gira su se stesso, scende dal pulpito, sale su un altro gradino, parte con il Credo e noi stiamo ancora seduti. Tutti seduti. Un po’ storditi. Lui solo non c’è più, non c’è, faccio girare gli occhi per la Chiesa con la precisione di una mitragliatrice. Non c’è. Mi metto in ascolto, non sento niente, tranne che adesso hanno tutti capito che il prete non scherzava e che devono decidersi a biascicare alla velocità dovuta la preghiera che a colpi di esse calcate e di vocali troncate sta ammannendo alla folla. Ma non so come è finita, non lo so, tra alzati, girati, inginocchiati, rialzati la sola cosa che sentivo chiaramente era un dolore, una fitta sorda all’altezza del petto, e il corpo, il mio corpo che era cambiato tante volte, che era cresciuto all’ombra della nostra amicizia, mentre il suo non era cambiato mai, ora è chiaro, il mio corpo veniva trascinato nel vortice. Doveva essere questo, il vortice. La confusione in cui ero entrata quando non lo avevo più visto al suo posto, a tiro di sguardo mi stava facendo precipitare. Non avevo atteso la benedizione e me ne ero uscita. Avevo girato un po’ nel cortile della chiesa, come se stessi cercando un figlio. Ero colpita da questa ansia, da questo affanno inutile. Non lo avrei trovato. Forse non lo avrei rivisto. Forse doveva essere così, che un giorno di inapparente importanza, questo legame si spezzasse. Cercai di consolarmi mentre ormai la notte, ormai la notte,ormai la notte. Che quel giorno mi ero veramente resa conto del suo viso, e delle mani, e della bella voce che ancora mi turbinava nella mente, avrei potuto ricordarlo, e invece non riandavo che agli anni della mia crescita, alla nostalgia che non faceva che acuirmi il dolore conficcato fin quasi alla gola, di quando parlavamo e io gli ripetevo una poesia, una sola poesia ricordo, che mentre la compitavo lui mi apparve al fianco e sorrideva come se avesse scoperto una cosa nuova, lui che sapeva tutto, che mi spiegò bene la materia in un giorno di vento, e che mi disse: non tutto ciò che non vedi non esiste. Lui, che mi pose tra le braccia mia figlia, e mio marito, rigirandosi mi disse: ma perché l’hai presa da sola dal lettino, non fare sforzi. Ora mi è chiaro il privilegio che ho avuto, di non essere mai sola. Intanto salivo le scale della chiesa per tornarmene a casa. Ancora di domenica si vedevano ragazzi con i cartoni delle pizze a portar via, qualche motorino rumoroso lasciava il suo vapore blu nella strada umida della notte. Di fronte a me, tra la gente che se ne tornava a casa, una ragazza si stringeva al braccio di sua madre. A me non era accaduto di avere una simile possibilità, ma bambina di andare in una notte d’estate incontro alla nostra casa, mentre la campagna profumava e i grilli si chiamavano, accanto a mia madre che indossava un vestito azzurro che alla luce dei lampioni sembrava viola. Lui me lo disse: guardala, e io incantata mi ero persa tra il biondo dei capelli e il movimento cangiante del vestito di mia madre. Guardarla e non scordarla più. Che grande dono. Che altro? Il freddo è pungente, cerco di avvolgermi la sciarpa intorno al collo, la spalla è sofferente, mi sembra di pendere da un lato, e poco fa lui correva ed io lo seguivo ed eravamo ancora giovani, e lo spazio e il tempo non erano che novità. Inizierà domani una nuova settimana, e quando lo dicevo mi guardava indifferente, perché il tempo per lui non aveva confini, era come un oceano senza approdo, senza isole, assente la terra emersa, un globo d’acqua che a riversarsi nell’atmosfera trascinerebbe nella sua onda lunga perfino il firmamento. Arrivo in casa e mi chiudo la porta alle spalle. Una mattina, aprendo gli occhi me lo sono trovato davanti e gli ho sorriso. Poi gli ho parlato, poi mi sembrava che ci fosse sempre stato. E oggi era sparito. Senza appello. Avevo perso tante persone nella mia vita. Così mi ero ritrovata davanti ad uno specchio e lo specchio segnava il tempo come un orologio minuzioso. Che tipo di persona ero io, infine lo sapevo? A lui non avevo mai avuto il coraggio di chiederlo, ma mi sembrava che gli piacessi, che non stesse con me per un dovere, che curiosa questa idea, ora. Penso che mi metterò un po’ sul letto, sono stanca. E mentre mi stendo ripenso ad una coperta bianca e rosa che avevo il giorno che ci siamo incontrati. Era veramente tanto tempo fa. Mi piacerebbe ora, come in tante sere di disperazione, averlo vicino, mentre rifletto e trovo la soluzione. Questa volta forse la soluzione non c’è, devo accettare che lui, così diverso dall’immagine sopra il mio lettino, che lui sia andato via, così come è apparso, quel bel giorno luminoso, prima che mia madre mi chiamasse per la colazione. Non avrò paura come non ne ho avuta allora. Questo me lo ha insegnato. Neanche ora, che è veramente notte.