I-
Io sono il viandante. Cerco i sentieri che legano assieme le montagne, come fosse il passaggio un unico nastro che avvince a sé la terra, e la terra ai miei piedi. Io sono il viandante, che costeggia le strade, non chiedo passaggi, né cerco scorciatoie a meno che non portino ad altre vie sconosciute, nascoste agli occhi degli altri viaggiatori.
Lascio ogni cosa alle mie spalle, compresi amori e responsabilità, non posso che andare, e abbandonare dietro di me cuori spezzati, che presto rimargineranno, e quando tornerò per non restare, godrò della pace della casa, e del letto caldo, e dell’acqua che scroscia nella doccia, ma dopo, il calore dei muri, delle coperte, dell’amore, cercherà di soffocarmi ed io andrò via, in cerca del lume della notte, delle stelle sopra il mio sonno.
Sono partito al mattino. Ma prima di aprire la porta, ho intravisto la sua veste, il passo incerto. Non l’ho salutata, per non incrociare i suoi occhi che mi legavano, la tenera testa che al buio sembrava un’aurora. La piccola avrà pianto, si sarà fatta delle domande. Sarà tornata a letto, sarà andata accanto alla madre a chiederle una risposta?
Neppure io ne ho una, ma solo sento che devo andare, per ritrovare il tepore della nostra vita, io devo andare. Non vorrei attraversare le città, le strade affollate, gli edifici che coprono il cielo. Là non ritroverei il loro volto e la luce che emana dal loro ricordo. Sono uscito dalla nostra casa al mattino. Il bosco sembrava spento, e anche gli uccelli notturni tacevano.
II-
Ed erano spente le ciminiere, non usciva fumo dalle case, ma solo lampi al magnesio parevano le stelle sospese, urbane, sporche. Mi aggiravo nella città fredda, e i miei piedi non calpestavano foglie e legni e muschio scivoloso, ma marciapiedi di catrame, bidoni straboccanti. Il paesaggio delle baracche diluiva di netto nei grattacieli a specchio, neri nella notte più nera. Lassù, in alto, la luce è accesa, forse al milionesimo piano. E’ come una banderuola che richiama l’attenzione del vento. Là abitava il mio amore, prima che mi mettessi in viaggio, e scoprissi un altro amore, e vedessi mia figlia. Ora un altro amante accende e spegne la luce nel cubo che offrono le pareti, visita la casa di quella donna fedele. Non mi ha certo spezzato il cuore, non è andato in frantumi nessun sogno. Ma non posso passare da questa foresta senza lanciare lo sguardo al pianeta del milionesimo piano, immobile, fatto di luce rossa, rovente. Mi accorgo del ghiaccio che scricchiola sotto i miei stivali. Sto per lasciare la foresta, per abbandonare la città. A tratti scorgo l’autostrada, il fascio di luce dei lampioni, e poi il buio della pianura.
III-
Sono passato di là. Le gambe mi ci hanno portato. Il giardino. Solitario. La scuola cadeva a pezzi, ed era abbandonata. Dal tetto svolavano i colombi e le tortore. Nel prato i merli e le cornacchie. E tra tanti alberi ho rivisto il tiglio. Il tempo che qui accompagnavo mia figlia, il tiglio era verde e profumato. I bambini correvano e lei non voleva lasciarmi. Ora il tiglio è più grande, ora sembra suo il giardino. Ma è autunno. Non restano che piccole foglie, ogni poco un turbine di gialli e bruni fantasmi si adagia sulla terra. Correvo sotto l’albero assieme a mia figlia, piccola come una foglia gialla, ed io forte come un albero. Ma la mia anima era pronta a staccarsi, e la sua era piena di radici. Ora il vento mi porta, e lei è immobile che cresce. Ho girato per un po’ nel giardino, speravo di ritrovarla, di sentire nelle mie gambe la voglia di girare intorno all’albero, di adattare la mia forza alla sua. E invece le mie gambe tirano dritto. Scendono verso la terra, come le foglie.
IV-
Questa notte, così fredda, sarebbe troppo ingiusto desiderarti. Sono uscito dal tuo letto e la tua schiena non si offriva alla luce della luna. Dormivi come chiusa in una grotta, come avvolta in una tana. Ho preso le mie cose per questo viaggio di cui non abbiamo parlato, nemmeno per poco. C’era tra noi, e cercavamo di colmarlo stando vicini ma più spesso lontani ad immaginare questa distanza. Questa notte è così fredda, nel parcheggio di questo immenso ipermercato in cui volano buste di plastica, carte di offerte promozionali, rotolano vecchie cicche spente. Sono accostato a questa parete di cemento grigio, e penso che non tornerò. Tu al mattino davanti al tuo latte bollente, con gli occhi nel vapore, i tuoi begli occhi lucenti, ed io che guardavo la strada appena fuori del nostro giardino, in piedi davanti alla finestra, con il corpo già fuori nella nebbia, con i piedi nelle scarpe pesanti. Tutto il mio desiderio è tuo. Non ritrovo più i nostri passi, è come se non ci fossero più le tue impronte nella neve. Si interrompono ad un certo punto della strada, fino dove hai potuto accompagnarmi. Questa notte, è così fredda. Dove c’era l’acqua negli avvallamenti del parcheggio, ora c’è il ghiaccio, immagino di scivolarci con te e di resistere al sonno. Voglio vedere la luna impallidire e con lei svanire la bocca tua, gli occhi tuoi, le tue braccia bianche, il rosa del tuo sorriso.
V-
Sempre io ti vedo. Ora che ho intrapreso il sentiero lontano dai paesi, il sentiero solca le montagne e le riunisce, ora ti vedo. Tue immagini accompagnano la mia vista, stanca del bianco della neve. Forse è il freddo, forse il sonno, tu emergi dagli alberi in riposo, dalle tane delle volpi, con la tua bicicletta e il tuo sorriso, come un’onda di luce attraversi la mia pupilla. Anche le pareti scoscese e brulle sembrano verdi, tu le attraversi con il tuo sorriso e il richiamo: vieni a giocare. Non era ieri che ero ancora tuo padre?
VI-
Mi sono addormentato. Mi ha svegliato la volpe. Lei non si muoveva e aveva gli occhi fissi su di me che emergevo da un sogno fatto di voci e di vento. Ci siamo guardati, ognuno trovava che l’altro ingombrasse il suo sentiero. Lei era dolce e portava la coda come un manto regale. Così l’ho seguita e mi ha condotto ai margini di un paese. Ma era sera ormai. Eravamo distanti ma guardavamo nella stessa direzione, verso la prima casa del paese, al limite della foresta. La luce era accesa ad una finestra, e le persone che vivevano lì apparivano e sparivano da quel palcoscenico luminoso. In alto le nubi oscuravano la luna. Si alzava il vento come nel mio sogno, e mi pareva di udire ora la voce della volpe ora quella del mio amore. Non erano che sussurri lievi come il fumo che usciva dal comignolo della casa. Era tutta nera la notte, gialla la finestra, rosso il manto della mia compagna. Vi vedevo alla finestra, mi chiamavate e allora mi sono avvicinato. Il mio viso era tutto bagnato. Ed ora pioveva.
VII-
Così sono tornato sui miei passi. La rossa amica è svanita nella boscaglia. Ho ritrovato il sentiero e mi sono allontanato dal luogo dei sospiri intorno alla tavola, degli abbracci nella notte. Ogni viaggio ha la sua strada e io la percorrerò. Potessi dimenticare quello che ho lasciato, giustificarlo ai miei occhi. Proseguirò costeggiando i corsi d’acqua. Mi lascerò scorrere. L’acqua ha il suono di molte voci. Dove finirà il suo cammino, terminerà il mio.
VIII-
Questa notte ha preso forma la neve. La vedevo addensarsi e ricoprire i passi così faticosamente fatti. E’ così la vita? Che io non lascerò traccia di me? I cristalli rarefatti precipitano sul mio capo, sulle mie mani che si attardano a raccoglierli. Ancora accade che io mi meravigli, che la vita non mi spaventi. Andrò avanti incurante, domani non ci sarà che neve a seppellire il mio passaggio. E’ tutto in questa forma che scende come lanciata a manciate dal foro di un pantheon, come se un bambino si divertisse a riempire un’anfora. Mi sento nel gioco, mi aggiro nella tonda anfora sperando di fuggire. Non sto che percorrendo un cerchio senza inizio né fine. Se non fosse la neve, che ora pare incandescente, mi strapperei di dosso la pesantezza degli abiti e rimarrei nudo a morire, tra questi sconosciuti gioielli, tra queste forme di diverso incanto.
XI-
Nei cespugli si nascondevano i fagiani. Cercavano di resistere al terrore. I cacciatori erano lontani, ma si udivano i richiami, l’abbaiare dei cani, lo scoppio delle polveri. I fagiani erano inquieti. Come me, pensavo, che immagino che il mondo voglia risposta. E quale quesito si pone al fagiano, ora che si avvicina la caccia, ora che non può stare nascosto perché la natura sua è il volo? Li vedo in conciliabolo, con le loro code ibride, fulgenti, e nessuno che si decide. Sussurrano, di rimanere, di aspettare, ma si appressano le zampe dei cani, il loro respiro, le loro lingue sobbalzanti, si avvicinano i passi, e le voci. Si avvicina, penso, l’ora. E tagliano di colpo l’aria, le ali di chi deve fuggire, o deve vedere in faccia, l’ultima ora.