Ada – di Cinzia Craus
Ho le mani vuote. Vuote di fame, di sogni, di abbracci, di tempo, di pace. Vuote di sangue. Del sangue che scivola piano sulla mia pelle lavando via l’ansia e il dolore con altro dolore.
Tengo su le braccia quando mi taglio. Guardo quei rivoli scorrere lenti, tracciare linee sottili e insicure che asciugano in fretta. Le prime volte l’odore del sangue mi dava la nausea. Oggi mi inebria. E’ l’odore del silenzio che ho dentro. Che immenso soffoca l’urlo.
La prima volta è successo per caso. O perché il caso ha voluto trovarmi. Non fu esattamente una bella esperienza. Una bella lezione. I miei genitori l’avrebbero chiamata così più avanti, convinti, e mi sorprende che lo siano ancora, che da questo finalmente avrei imparato qualcosa. E in realtà qualcosa imparai. Che forse dura poco, ma un dolore acuto, improvviso, di quest’inutile massa di pelle e di carne che ci trasciniamo sul cuore e sugli occhi, sui nostri respiri, riempie veloce ogni vuoto ogni abisso ogni piega di un freddo silenzio glaciale che spegne ogni cosa. La rabbia, la paura, l’orgoglio, l’amore, l’odio, il sonno, la fame, la sete. Il sangue odora di morte e di vita, di vuoto e di pieno, di necessario. E di inutile.
Avevo sedici anni. E avevo bevuto. Si beviamo un po’ tutti e un po’ tutto a sedici anni. Chissà quanti di voi lo hanno fatto. Lo si fa per gioco, per darsi delle arie, perché tutti lo fanno. Lo si fa per ridere insieme, di più. Per sentirsi più forti a volte, più sicuri. Per avere una scusa se fai qualcosa che a farla da sobrio non avresti la faccia di farla – che chissà perché ci vuole una faccia per fare quello che senti – ed è tanto che aspetti di farla. Qualcuno lo fa anche per non pensare per una sera. Che ha già qualcosa che gli brucia dentro. Da un giorno, da un anno o forse da sempre. Magari proprio la faccia che tutti si aspettano che debba indossare. E ogni sorso alimenta l’incendio. Io avevo bevuto un po’ di più degli altri. Bevevo sempre un po’ di più. Ma la faccia e l’incendio restavano lì. Nemici e già indissolubili amanti. Eravamo al mare. C’era una festa in una villetta nel parco che era piena di gente. Piena di gente che a guardarla da fuori di alcol ne aveva bevuto parecchio più di tutti noi messi insieme. Decidemmo di imbucarci, nessuno ci avrebbe notato. E bastava scavalcare un muretto sul retro, facendosi largo tra le siepi di lauro. Mauro passò per primo. Anna, che fino a un attimo prima piagnucolava che lei non voleva farlo, per non mollarlo a noi altre si infilò a ruota dietro di lui. Poi toccò a Sergio che l’idea era stata la sua. Avevo la nausea e a stento mi reggevo in piedi. Direi che era magari Fabio a reggermi. Non certo i tacchi da dieci che mi ero infilata sotto gli short. Bianchi, bianchissimi che sulla pelle scurissima che indossavo d’estate diventavano bianchi da lasciar senza fiato. Lasciandomi illudere che fossi io a lasciare senza fiato. Io, le mie gambe grassocce, come quelle di mamma, il mio corpo tozzo e indeciso, il mio viso troppo tondo, il naso aquilino, le labbra sottili. Devo dire che mia madre e mio padre si sono premurati di non farmi mancare niente. Ognuno di loro mi ha messo dentro il peggio di sé. E dentro gli occhi il peso dei loro sogni naufragati nel veleno della vita di ogni giorno. Avrei fatto meglio ad andarmene a casa, a buttarmi su un letto e dormire, che per una volta avrei sicuro dormito, la mia faccia scomoda sarebbe affondata nel cuscino e quello stesso cuscino avrebbe anche soffocato l’incendio. Ma quando mi riducevo così l’ultimo posto dove potevo tornare era a casa. A disturbare il silenzio perfetto delle facce perfette della famiglia perfetta nella vacanza perfetta. Così mi decisi a scavalcare anche io. Ma avevo bevuto. E mi girava la testa. Ed era buio pesto. Non lo so come feci, non so cosa feci, ma scendendo strofinai lentamente lungo quel maledetto muro che sembrava volermi abbracciare e stringere a sé come ancora nessuno aveva provato a fare. Un abbraccio che mi mancava da sempre e da sempre mi faceva male. E faceva male. Persi i sensi. Credo di averli ripresi dopo poco. Non so se tra le braccia di Paola o di Sergio o di Anna. O di mio padre. So che il giorno dopo ero in uno schifo di ospedale di provincia in una stanza con non so quanti letti e quante persone intorno a quei letti, che le finestre spalancate al sole non bastavano a portarmi l’aria che sentivo di dover respirare. Avevo entrambe le gambe fasciate. E una flebo nel braccio. Mi spiegarono che c’erano dei lunghi chiodi infissi nel muro per il sostegno delle piante giovani, che al buio non avevamo notato – gli altri saltando li avevano evitati – e che mi si erano conficcati nella carne.
Erano i chiodi che mi stringevano al muro per non lasciarmi andare. Come fanno certe parole. E come certe parole mi avevano aperto delle ferite di cui resta il segno. La cosa strana è che non facevano male. Me lo avevano fatto. Tanto da perdere i sensi. Tanto da perdere così tanto sangue da restarci tre giorni in quella stanza senza aria e senza silenzio, da farmi tornare bianca come i miei short ormai da buttare. Ma adesso il dolore era solo un ricordo. E un ricordo è una cosa finita. E’ quasi bella.
Quando tornai a casa e mi guardai allo specchio fu come guardarmi per la prima volta. Ero io bianca da mozzare il fiato e i miei capelli nero corvino erano molto più neri delle mie gambe grosse. Le mie labbra sottili due strisce di sangue sul viso. Quel sangue che se ne era andato. Mi piacque quello che vidi. Mi piacque da volerlo per sempre. Come la favola di Biancaneve e Biancaneve ero io. E la cosa che mi piacque di più fu il sapere che per diventare Biancaneve la strada faceva un gran male, ma quel dolore durava pochi attimi, che diventavano presto un ricordo, e coprivano tutto il resto. La faccia scomoda. Gli incendi dentro. Il silenzio gelido del sangue che se ne va che soffoca le urla che non puoi urlare.
Sono malata e lo so. Da allora non vado più al mare, in spiaggia intendo, che non voglio che il sole possa sfiorarmi la pelle. Non mangio carne, contiene sangue. Non mangio niente che sia stato vivo, che abbia portato dentro del sangue. Il sangue da me deve solo uscire. E deve farlo facendomi male. Coprendo il dolore con altro dolore. Più intenso e violento che toglie il respiro, che spegne ogni incendio. Che dura poco e diventa presto un ricordo. Che lascia segni che posso curare. Che lascia segni che posso vedere. Solo io. Ma questo vale per tutti i dolori.
Per gli amici non c’è un granché di strano. Siamo tutti un po’ strani a quest’età, mentre cerchiamo di essere noi senza sapere chi siamo. Mentre ci difendiamo o soccombiamo a quello che ci chiedono di essere. Sono Ada la matta, che ha paura del sole, Ada la vega, Ada la emo. Di etichette ce ne sono per tutto. E per tutti. Per i miei genitori è una moda. Che mi passerà. L’importante è che ho imparato qualcosa. Bere fa male.