Chi non rimane atterrito e spaventato leggendo la fiaba di Hansel e Gretel di Anderson, quando i due bambini, attratti dalla casa di marzapane, vengono imprigionati dalla vecchia, brutta e cattiva, che li alimentava al solo scopo di farli ingrassare per poterli mangiare?
La letteratura straniera e nostrana è ricca di storie che narrano di personaggi dediti al cannibalismo, dal Conte Ugolino sino ad arrivare ai giorni nostri con il più famoso cannibale Hannibal Lecter, lo psichiatra antropofago, personaggio nato dalla penna di Thomas Harris, autore del Silenzio degli innocenti. Ma, al di là delle pratiche cannibalistiche di gruppi etnici documentate dall’antropologia, non è necessario cercare tra favole e film per trovare personaggi reali che, spinti da desideri ingovernabili, hanno ucciso, sezionato e mangiato gli sventurati capitati tra le loro mani. L’attenzione al cannibalismo è dovuta al fatto che coloro che praticano tale perversione, per poter soddisfare il loro bisogno compiono diversi omicidi. La molteplicità dei delitti, le ritualità che le accompagnano, e i modus operandi consentono di classificare questi individui all’interno di un quadro personologico proprio del serial killer.
Uno dei primi serial killer cannibale documentato dalla storia è Gilles De Rais, compagno d’armi di Giovanna D’Arco, che tra una battaglia e l’altra dava sfogo all’impulso di rapire, uccidere, sezionare e poi mangiare bambini. E poi c’è la Contessa Bàthory, una sorta di Dracula al femminile, che uccideva giovani donne per poi berne il sangue convinta che questa pratica regalasse benessere al corpo e ringiovanisse la pelle.
Più recentemente c’è stato Nikolai Dzhurmongaliev, un omicida seriale che dopo aver massacrato le sue vittime, si sbizzarriva nel preparare “gustosi” piatti etnici che offriva ai suoi sfortunati commensali.
Jeff Dahmer, passato alla storia come il mostro di Milwaukee, è uno dei più violenti serial killer della storia. Uccise, seviziò e tagliò a pezzetti almeno undici persone e, durante il processo, ammise che mangiare i cadaveri procurava “un senso di totale controllo e aumentava l’eccitazione sessuale. “Potevo fare con loro tutto quello che volevo. Ma non c’era odio in quello che facevo”, e quindi, dopo aver accuratamente “depezzato” il cadavere della vittima, Dahmer prelevava le parti più “succulente” – cuore, fegato e bicipiti – e li cucinava in padella oppure alla brace gustandoli con salse per insaporirli, proprio come se fossero bistecche di carne animale.
Ma cosa spinge un serial killer a diventare cannibale? Già all’inizio del secolo scorso Sigmund Freud scriveva in Totem e Tabù che la pratica di mangiare carne umana di vittime corrispondeva ad un impulso di interiorizzazione e di appropriazione dell’altro. In realtà, spiega il padre della psicanalisi, la crescita del bambino nei primi anni di vita è scandita da una serie di fasi: la prima è la fase orale. In questo periodo il bambino si nutre dal seno della madre e quindi la suzione diventa fonte di vita. F. Perls nel libro, Io, La, Fame e L’aggressività, individua nella fase della dentizione il periodo durante il quale il bambino sperimenta e fa esperienza della propria aggressività sana. Nel comportamento cannibalico, l’appagamento del bisogno di sperimentare la propria energia aggressiva deriva dal fatto che egli, durante le fasi di transizione proprie del suo ciclo vitale, non ha trovato il sostegno adeguato all’interno dell’ambiente, all’interno di una relazione nutriente con le figure genitoriali di riferimento, il bambino, così, esaspera il comportamento, e il mordere, diventa l’unica modalità per instaurare un rapporto con l’altro. Francesco Bruno spiega che “nei serial killer cannibali, gli impulsi normalmente presenti in tutti noi si ingigantiscono fino a diventare patologici. In molti serial killer – prosegue Bruno – questo tipo di comportamento patologico è irrefrenabile e ha la stessa radice di un qualsiasi comportamento affettivo che, mentre nella persona normale si esaurisce in un bacio o in morsetti affettuosi, in un individuo con disordini psicologici diventa un fatto da “vivere fino in fondo”. Infatti secondo Emilio Fava, “impulsi e fantasie cannibali” che fanno parte della struttura profonda della psiche umana. Si pensi alla madre che dice al bimbo “ti mangerei” o a certi comportamenti sessuali o affettivi connessi con il “mordere”.
Secondo il Dipartimento di studi psicologici dell’Fbi, la differenza tra i serial killer e i serial killer cannibali è che mentre i primi in genere progettano l’omicidio e uccidono con rapidità, i secondi sono più violenti ed efferati, adescano la vittima in maniera casuale e dopo averla brutalmente massacrata si accaniscono sul corpo sventrandolo.
Esistono delle spiegazioni scientifiche o biologiche per spiegare il cannibalismo? Secondo Joel Norris, studioso americano dei serial killer, alla base del cannibalismo ci possono essere delle disfunzioni dell’ipotalamo, una regione del cervello che regola l’attività sessuale, dell’umore e di altre funzioni primarie dell’uomo, come mangiare e bere. Il cannibalismo sarebbe dunque causato da uno squilibrio ormonale che determina l’incapacità del cervello di misurare le proprie emozioni.
Ma cos’è, quindi, il Cannibalismo? È una perversione sessuale che nella maggior parte dei casi è il risultato di un disturbo psichiatrico di gravità variabile. A volte, il cannibalismo è appena accennato e l’assassino seriale si limita a mordere il corpo delle vittime, senza però mangiarne una parte. Un soggetto che prova degli impulsi cannibalistici ed omicidiari può essere in uno stato di allucinazione così forte da autoconvincersi di essere un animale selvaggio. Nella prospettiva del soggetto, il crimine diventa di proprietà dell’animale, trasferendo su esso la responsabilità dell’atto. Per alcuni assassini seriali, queste perversioni hanno un chiaro significato simbolico. Questi atti possono essere praticati dopo che il soggetto ha avuto un rapporto sessuale insoddisfacente con la vittima ed è una regressione al comportamento animale. Per altri è solo un modo estremo di raggiungere la gratificazione sadica. In ogni caso, i serial killer cannibali sono sempre uomini. Per gli assassini seriali, il cannibalismo rappresenta un appagamento degli impulsi omicidiari con una violenza estrema e con eccesso di desiderio. L’identità altrui viene annientata con l’introiezione di parti del corpo ed i soggetti che cannibalizzano le vittime sono sempre affetti da gravissime turbe sessuali che risalgono ad un’infanzia vissuta in un tessuto familiare completamente disgregato. Manipolazione, dominio, controllo, queste sono le tre parole chiave per comprendere il modo di agire di un assassino seriale. La ritualità del delitto, quella sorta di celebrazione di una cerimonia orrida ed oscura, si ripete immutata, a volte anche per molti anni. Il rituale del serial killer è un po’ la sua firma, ciò che gli consente di trarre piacere dall’atto in sé; di conseguenza, l’assassino seriale lo prolungherà il più possibile perché, interrompendolo, il piacere potrebbe esaurirsi. Il modus operandi, ossia le modalità e i mezzi utilizzati dall’assassino seriale per uccidere, è tanto orrendo quanto efficace, soprattutto se, come in genere avviene, passa molto tempo prima del suo arresto. Nell’ambito del modus operandi efferatezza e crudeltà sono gli indicatori più significativi. Gli agenti dell’F.B.I., riferendosi a crimini di questo genere, parlano di overkilling, vale a dire “eccesso di omicidio”. In esso si cela la volontà di trarre piacere dalla sofferenza altrui, attraverso il cosiddetto “supplizio dei cadaveri”, dando così sfogo alla propria “pulsione di morte”. Bruno, a tal proposito, parla di “necromania”, intendendo con ciò una sorta di inversione di un istinto morfobiologico che ci spinge verso la vita e a fuggire la rappresentazione della morte. L’argomento in questione è molto ampio e meriterebbe un’attenzione più specifica ma vorrei concludere riportando uno stralcio d’intervista fatta a Lionel Dahmer, il padre del famigerato “mostro di Milwaukee”, in quanto mi ha molto colpita.
Se la polizia mi avesse detto che mio figlio era morto, i miei pensieri su di lui sarebbero stati diversi. Se mi avessero detto che uno strano uomo lo aveva attirato in un appartamento e, pochi minuti, dopo, lo aveva drogato, strangolato, e poi violentato e mutilato il suo cadavere- in breve, se avessero riferito a me quelle cose che avevano dovuto comunicare ad altri padri e madri- avrei fatto anch’io quello che hanno fatto loro. Avrei pianto mio figlio e avrei preteso che l’uomo che lo aveva ucciso venisse duramente punito: se non giustiziato, almeno separato per sempre dal resto dell’umanità. Ma a me non fu detto quello che fu detto agli altri padri, che il loro figlio era morto per mano di un assassino. No, a me fu detto che mio figlio era quello che aveva assassinato i loro figli […]. Come potevo sapere che il ragazzo che sedeva di fronte a me, con gli occhi completamente spenti, se ne stesse in un mondo di incubi e di inimmaginabili fantasie che, con il passare degli anni, l’avrebbero sopraffatto? Non l’ho mai sentito parlare del futuro. Ora capisco che sin da allora immaginava che non ne avrebbe avuto uno.
È probabilmente per questo motivo che, quando chiesero a Dahmer senior se, dopo la condanna a novecentocinquantasette anni di carcere, avesse perdonato il figlio, lui semplicemente rispose: “sì, l’ho perdonato, ma lui avrà perdonato me?”.
Bibliografia
Bruno, F., Inquietudine Omicida, Phoenix, Roma 2000.
J. Douglas, Mindhunter, Rizzoli, Milano 1996, p. 220.
L. Dahmer, A Father’s Story, trad. it. Mio figlio, l’assassino, Sperling & Kupfer, Milano 1994.
Dott. Irene Grado
Psicologa-Psicoterapeuta della Gestalt
Esperta in Psicodiagnosi Forense
Trainer di psicoprofilassi al parto: metodo Spagnuolo Lobb
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