Si era ritrovato solo. Che poi veramente solo non era. Aveva sua figlia. Ancora sua madre, e le sorelle. Un paio di amici suoi, forse più di un paio. Con sua moglie non si erano lasciati con educazione, nemmeno un po’. Le aveva detto delle brutte cose, cosicché il fossato fra loro due diventasse più profondo,e si facesse la ruggine ai ponti levatoi. Ed era anche avvenuto di fronte alla bambina. Di questo gli rimordeva la coscienza, ma fa niente, la vita non è facile per nessuno e i genitori non sono perfetti.
Lei si era presa la casa e la bambina ma andava bene. Non aveva preteso niente, in realtà guadagnava più di lui.
Così aveva cambiato città, che la sua gli stava troppo stretta, là dove respirava sua figlia e non poteva controllare quel respiro. Ma ci si abitua a tutto. Anche alla distanza. Al silenzio. Alla casa nuova, che finalmente poteva disporre delle mura e dei metri cubi come decideva lui. Al letto vuoto.
A qualche ricordo che affiorava nei momenti meno opportuni. Dire che il suo lavoro gli piacesse, ora, non significava molto. Gli era sempre andato a genio e sentiva che non avrebbe potuto farne un altro. Del resto tra i banchi, anzi tra le cattedre, della scuola agli stranieri aveva anche conosciuto sua moglie. Ora lei aveva fatto carriera e lui no. Ma non era per questo che avevano cominciato ad allontanarsi.
Erano passati dei mesi, nei quali si era sentito al tempo così depresso e così euforico da non capirci veramente niente. Sono fuori di me, recitava davanti allo specchio, in certe mattine sconvolte, fredde, solitarie, in cui aveva preso coscienza che se non riusciva a darsi un po’ di comfort non ce l’avrebbe fatta. Cercò così dell’aiuto in casa, mise degli avvisi nella bacheca della scuola dove insegnava e trovò Licia. Che in fondo parlava l’italiano meglio delle compagne di scuola di sua figlia, e lo scriveva quasi con meno errori.
Così mostrò a Licia la sua bella nuova casa, non molto grande, piena di luce, attrezzata bene, perché dopo quelle mattine livide, fredde e spettrali non ne aveva potuto più e aveva dato incarichi a destra e a manca perché la casa divenisse congrua. Licia vide la casa di un uomo solo, piuttosto ordinata, ma di un ordine costituito dalla povertà delle suppellettili. Bene, perché poteva fare in fretta i lavori. C’era una sola foto di una bambina piuttosto graziosa. Licia non fece domande e cominciò ad andare lì due volte a settimana. I loro orari non si incrociavano mai. Poi si vedevano a scuola, ma lì lei era l’allieva. Fino al giorno in cui in classe scoppiò una lite. Lui era un professore freddo, poco partecipativo. Aveva sempre avuto in realtà paura di dover dare qualcosa di più che non l’insegnamento della sua materia. Non si ritrovava in quelle idee romantiche all’Attimo Fuggente, insegnava e basta, parole, periodi, regole. Per cui quel battibecco nella sua ora, tra adulti, lo prese in contropiede. Qualcuno aveva letto una relazione sul suo espatrio o immigrazione, aveva dato lui quel compito per vedere a che livello fosse arrivata la loro capacità di utilizzare la lingua anche per raccontare qualcosa di personale. Non stava ascoltando con molta attenzione in verità. La sera arrivava sua figlia e lui si sentiva nervoso e preoccupato, perché era la prima volta che la rivedeva dopo la sentenza del giudice. Sentì due donne apostrofarsi così:
– Ma tu cambi discorso, che sc’entra il culo con l’Ariscia!-
e l’altra:
-Perché tu dici a me culo-
e la prima:
– Perché non ce l’hai?-
e di rimando la seconda si impettì e disse trionfante:
-Si ma non ne parlo-
e la prima:
-Sei sicura di volere mia risposta?- (la, pensò lui, la mia risposta, ma si trattenne)
l’altra ancora:
-Che sc’ho paura?-
La prima concluse:
-Tu no parli perché tuo è sporco mio no!- Scoppiarono tutti a ridere, tranne una delle due contendenti, che a quel punto lo guardò, nel guazzabuglio generale, con gli occhi, begli occhi neri profondi, nel viso africano, levigato, fremente. Lui non rise. Rimase seduto a guardare le mani appoggiate sulla cattedra, avrà avuto settant’anni quella cattedra, ma possibile che non le cambiavano mai? Così le risate si spensero.
Allora alzò lo sguardo e senza fermarsi su nessuno, osservò:
-Mi sembra che fate progressi con l’italiano-
Ricominciarono tutti a ridere. Ma la donna distolse lo sguardo, ora anche lei era interessatissima al suo quaderno, alle sue mani. Delle belle mani lunghe, affusolate.
-Vedete- continuò lui –Due linguaggi si imparano in fretta.- Fece una pausa. Ora guardava solo lei, la ragazza africana:- Uno è quello della guerra e l’altro quello dell’amore.
Lei sollevò lentamente gli occhi verso di lui. Era indignata, si vedeva. Però il suo discorso distese l’atmosfera. Continuarono a leggere, e Licia raccontò la sua storia, fatta di ore di pullman e paura di perdere la valigia.
Ascoltò con più attenzione, quindi, per un attimo aveva dimenticato la sua personale guerra, dove per litigare ore ed ore lui e la sua coltissima moglie avevano grattato nel vocabolario più alto e nel vernacolo più becero. Spesso si odiavano così tanto che finivano per spogliasi a furia di insulti, ad amarsi con tanta rabbia perché era proprio finita.
E quella sera arrivava sua figlia. Mentre parcheggiava vicino alla stazione, ripensò al racconto di Licia, scritto così male, bene per lui, avrebbe fatto la donna di servizio a vita:
“ Giorno da partenza de Ucraina mia madre caduta ginocchio davanti me e baciato mani.”
Ma pensa che scena. “Noi perso tutto e figli lasciato alla mia madre.”
La Makeba invece, era andata alla cattedra, col suo corpo flessuoso, i capelli acconciati, tirati lisci: il giorno della mia partenza ho avuto tanta paura. Mi stringevo a mia madre per no perderla. Noi fuggivamo dalla tortura, dalla morte, dalla fame. Alcuni di noi erano stati rapiti da guerriglieri, tagliatori di teste. Io e mia madre eravamo riuscite a fuggire, in notte di ubriachi.
Eccola. Sua figlia scendeva dal treno. Dietro arrivavano sua madre e suo padre, che l’avevano accompagnata. Non avevano voluto rimanere anche loro, sarebbero ripartiti dopo due ore, per ritornare alla loro casa fresca, quella della sua infanzia, in una delle palazzine antiche della sua città, quella che guardava il mare. In qualche modo erano felici di rivederlo. E così sua figlia, che gli stringeva la mano e aveva tante cose da raccontargli.
Per cui arrivò la sera, e lui la portò a mangiare una pizza, in una trattoria che guardava sul fiume di quella vecchia città caduta, tra platani secolari carichi di foglie. La casa poi, piacque alla bambina, tutto ammirava e poi controllava l’effetto delle sue parole sul viso del padre. E quando lei finalmente dormiva, tutta rasserenata sotto le lenzuola bianche, col suo pigiamino rosso, la linea sottile delle palpebre ancora azzurrina dell’infanzia, le ciglia ricurve e bionde, lui si sentì di nuovo quell’odio profondo per sua moglie e per se stesso in definitiva, quelle parole brutte che gli raschiavano la gola anche se non dette.
Vegliò tutta la notte per guardare sua figlia, e gli vennero in mente i racconti di Licia: da finestra bus io mandava baci a madre, non potere capì perché dovere partire da lei.Madre piangeva. Non gli piaceva lasciarsi influenzare, ma certo ora che sua figlia era con lui, comprendeva bene tutta la misura dell’infelicità di non vederla ogni giorno. Prima di rassegnarsi al sonno, verso l’alba, pensò alla Makeba, e a quanto gli sarebbe piaciuto averla come amante.
Non si svegliò a tempo e aprendo gli occhi vide il viso di Licia che lo scrutava. Non era certo bella come la makeba dei suoi sogni che per tutta la notte aveva rincorso eccitato dalla paura e dalla sua bella corsa di gazzella, ma rivedere un viso di donna che lo considerava con attenzione, lo turbò moltissimo, e questo lo infastidì. Fu lì che Licia smise di essere solo una allieva. Non per gli occhi così azzurri quella qualità dell’azzurro simile al fiordaliso, né per le ciocche pallide dei suoi capelli, o per la semplicità con cui trattava sua figlia, che non le faceva che domande su domande sul paese lontano, e che quando Licia rispondeva, lei correggeva con grazia e la donna ripeteva con diligenza. Lui non le ascoltava neppure. Non fu per tutte queste cose, se ora, che l’aveva invitata a cena, si chiedeva perché fosse così nervoso e scontento di tutto quell’apparato che non reclamava altro che una notte di letto senza troppe complicazioni. Ma c’erano tutte le storie di Licia, i componimenti a scuola, la difficoltà delle sue domeniche, passate in un bar dopo la raccolta dei pacchi da mandare al paese. In un bar con quattro amiche, a parlare e a pensare a tutto quello che non sarebbe tornato più.
Così lei arrivò puntuale, con un dolce di quelli terribili ricetta del suo paese, e lui aveva bene apparecchiato sulla terrazzetta, anche con le candele e gli zampironi al piretro per le zanzare. Non capiva se faceva così per dire a se stesso che lui non si sentiva superiore perché era il professore nonché datore di lavoro, o perché effettivamente non era più niente, si stava solo complicando la vita con questa donna apparentemente poco guardinga, con quegli occhi miracolosamente pietosi e limpidi. Iniziarono a mangiare in una atmosfera scandita dal suono delle cicale nascoste tra i pini che arrivavano fin sulla terrazzetta con le loro chiome profumate. Era stata una giornata calda e sfiancante, ma Licia era silenziosa e fresca davanti a lui, con un bel vestito azzurro, e un giro di pietre colorate intorno al collo bianco e sottile.
Allora, disse gaiamente lui, parlami del tuo lavoro. Poi tacque, pensando di averla offesa. Ma lei sorrideva- C’è tanto da dire. Vedo tante case, tante famiglie e tanta gente di ogni età e mobili e pavimenti, e panni. A stirare i panni della gente si capiscono tante cose. Lui le offriva il cibo. -Ah si, e cosa si capisce- chiese con leggerezza
-Gli abiti dicono se ricco, se attento o distratto, se povero, se solo-
-Anche questo?- gli veniva un po’ da ridere. Allora prendendole con negligenza la mano le chiese:
– E la mia casa che dice? Che sono solo? Ma tu lo sai-
-Si, io so- rispose Licia.
-Questa tua casa aspetta- mormorò dopo aver riflettuto. Le sembrò un po’ furbo da parte sua dire questo, ma stette al gioco:
-Aspetta te?-
Lei rise, ma forte, non gli era mai capitato di sentire una risata da ussaro uscire da un corpo tanto esile:
-No no, aspetta tua figlia. Questa casa aspetta sempre bambina.-
Doveva alzarsi per andare a prendere in cucina una pietanza ma non ci riusciva. Si sentiva le ginocchia abbattute. Aspettava la bambina. Era vero. Non si era forse aggrappato per mesi al corpo di sua moglie cercando di rubargliene un altro, per non perdere la prima? Non aveva cercato di ottenere, ora lo riconosceva, il permesso di rimanere attraverso un altro figlio, per rimanere accanto alla sua bambina di cui non sopportava la lontananza? E che lei lo avesse capito da quattro mobili sistemati nella croce della casa lo teneva inchiodato alla sedia.
-Lei mi diceva che ero un farabutto. Mi sa che aveva ragione.- si disse, dimenticando Licia, e le candele che illuminavano il suo sguardo nato su un’altra terra, fatto per capire.
-Tu nato padre, se tu permetti dire. Tu non vede niente. Solo figlia, lei sa. Lei sempre preoccupa di te-
-Come si preoccupa per me?- e intanto doveva alzarsi, qualcosa si stava bruciando.
Ma una volta in cucina era rimasto a fissare la padella con le hamburger già un po’ troppo colorite. Tornato con la carne stracotta, servita Licia, sbirciato automaticamente le gambe, come se non le avesse mai viste, ma stasera era tutto nuovo
-Cos’è questa cosa che si preoccupa per me?- ma non gli andava più di mangiare, e poi in fondo poche chiacchiere, la serva poteva pure essere dirottata direttamente sul divano. Anche questo gli fece schifo, un po’ come le hamburger incotechite.
-Tu sei bravo padre e lei brava figlia. Pensa tu piangi se lei no sta qui. Questo fa male a bambini, troppa responsabilità.-
Gli sembrò così intollerabile che lui facesse del male a sua figlia, che ci era stato attento per quel che poteva:
-Ma che idee ti vengono, te l’ha detto lei?- e Licia annuì, come lui aveva temuto.
-Che devo fare?- si sentì chiedere controvoglia,lui sapeva sempre che fare, lui lo diceva agli altri quello che dovevano fare.
Lei gli prese la mano, e la sua mano era sottile, fragile, fresca.
-Tu devi essere felice, se tu felice lei sarebbe serena-
-sarebbe serena?- ripetè lui, aggiungendo un’altra mano alle due che già si stringevano
-E questo tu l’hai capito?..-
-Dal tuo letto con brutta coperta e da letto di bimba con favoloso copriletto-
Lui si era proteso, e i visi erano quasi più vicini delle mani, il suono delle voci impercettibile
-Cambierò la coperta, poi?-
-Tuoi vestiti, due pantaloni, tre camicie, tre paia calzini, lava stira, tu bell’uomo, tu professore, tu deve essere elegante-
-Sarà fatto. Sarò più elegante- e mentre baciava Licia, si chiese come era stato che dal sogno della magnifica regina africana, fosse approdato alla pallida principessa lunare.
Così azzurra era, la felicità.
Sara Milla