Se una volta mi avessero chiesto cosa è la mafia o quali sono i comportamenti mafiosi, avrei risposto che che si tratta di un’organizzazione criminale dedita ad attività illecite come il traffico di droga e di armi, lo sfruttamento della prostituzione, le estorsioni (pizzo) ecc. e che si trattava dunque di un fenomeno ben radicato, caratterizzato dall’interesse verso il potere economico, da raggiungere con qualsiasi mezzo.
Era la mafia tutta “coppola e lupara”, quella che riconosci subito e che distingui dal resto della società civile. Alla mafia, si contrapponevano lo Stato con le sue leggi e le forze dell’ordine. Se da un lato c’era un Al Capone, ecco che sull’altro trovavi l’eroico Joe Petrosino di turno, pronto a dare la propria vita in nome della Giustizia e in difesa dei più deboli, degli onesti. Raramente, ma questo nel dopoguerra, nasceva la figura leggendaria di qualche uomo pronto a battersi contro le ingiustizie. Alcuni sindacalisti, vedi uomini come Accursio Miraglia, Placido Rizzotto e altri, o Peppino Impastato che grazie alla sua radio svolgeva il compito di osteggiare gli interessi mafiosi tramite l’informazione.
È forse grazie a questi personaggi, che nacque una coscienza antimafiosa, il desiderio di sottrarsi al giogo della criminalità facendo della legalità il vessillo del vivere civile, di quel senso di Giustizia che al di là dei tribunali, dovrebbe albergare in ognuno di noi. Nacque così il primo fronte di un’antimafia civile fatta di volontari che combattevano, ognuno con i propri mezzi, quel cancro devastante che era la “Cosa Nostra” del tempo, guardando alla cultura come al seme della legalità dalla quale avrebbero tratto profitto le nuove generazioni.
Nacquero le associazioni, i team di magistrati in prima linea contro il fenomeno, gli esempi di ribellione, il giornalismo antimafia. Lunghe scie di sangue che ci parlano ancora di magistrati come Falcone e Borsellino, dei vari giornalisti come Mauro Rostagno o di commercianti come Gaetano Giordano, tutti morti per vile mano mafiosa, in nome di un ideale: Giustizia!
È pensando a loro che ti lasci pervadere da questo fervore che ti porta a fare delle scelte, spesso difficili, che ti inducono a stare da una parte delle barricate, a partecipare ai convegni antimafia, a spiegare ai giovani che la legalità è cultura. Nelle scuole, ai più piccoli, insegni che buttare la carta della caramella a terra, è il primo passo della crescita incivile, delle violazioni delle leggi. Ci credi e sei credibile, perché accanto a te c’è il magistrato Tizio, il rappresentante dell’associazione Caio, l’imprenditore coraggioso o il familiare della vittima Sempronio.
Poi, un giorno, ti guardi intorno. La mafia, da tempo, ha fatto il salto di qualità. Dai traffici illeciti, allo scambio di favori con la politica, fino ad arrivare ad inquinare, quantomeno come forme di pensiero e di comportamenti, il mondo imprenditoriale che ieri aveva urlato “no alla mafia”. Lo ha fatto con quelle associazioni che si erano battute contro il malaffare e che oggi scopri nei carteggi delle indagini della magistratura. Lo ha fatto infettando l’antimafia istituzionale, quella delle commissioni politiche, dei magistrati. Cosa ne è dei Falcone, dei Borsellino, dei Miraglia, dei Giordano, dei Rostagno, dei Joe Petrosino, quando il pensiero e gli atteggiamenti di una certa antimafia, seppur muovendosi all’interno di un solco diverso, sono così simili a quelli di coloro che abbiamo condannato?
Magistrati sotto accusa per aver gestito beni sequestrati alla mafia, in virtù di interessi personali o di soggetti a loro vicini, esponenti del mondo politico “antimafioso”i cui nomi finiscono sui giornali indicati come componenti, quando non ai vertici, di un sistema di illegalità che vede coinvolti appartenenti alle forze dell’ordine, professionisti, imprenditori, giornalisti che, lungi dall’espletare il loro servizio in favore dell’informazione, finiscono indagati o comunque indicati come ingranaggi di questo marcio sistema e, dulcis in fundo, finti collaboratori di giustizia e abili depistatori. Cosa ne sarà di loro? Probabilmente non gli accadrà nulla.
Magistrati garantiti, politici anche loro salvati, giornalisti premiati per la loro attività “antimafia” nonostante il loro nome compaia nelle carte delle indagini e sul registro degli indagati. Forse pagherà qualche imprenditore di quelli che venivano definiti “coraggiosi” e qualche appartenente alle forze dell’ordine, sempre che questi non vengano promossi e trasferiti.
Dal sistema marcio non si salva neppure qualche rappresentante della base, quella che ha pagato con il sangue gli effetti della bestialità mafiosa. Tra le tante persone corrette che si prodigano in favore della legalità, portando la loro testimonianza, a volte presentandosi coraggiosamente nelle aule giudiziarie come testimoni o parti lese, c’è chi ha creato un nuovo business e chi, ammantandosi di legalità, gestisce in maniera assai discutibile i propri affari. Aziende con dipendenti sottopagati, contratti di lavoro autentici capolavori realizzati per eludere quanto era nelle intenzioni del legislatore, condizioni lavorative che a volte rasentano il caporalato. Tutto questo, senza voler andare oltre cercando di capire il gioco di assunzioni e licenziamenti o prestazioni lavorative che non potrebbero essere richieste.
Se Rosy Canale, uno dei volti più noti della lotta alla ‘ndrangheta, condannata a quattro anni di carcere per aver utilizzato per sé stessa i soldi destinati al movimento, è diventata l’emblema del piccolo business dell’antimafia chiagne e fotti, non è azzardato ipotizzare che in fatto di illeciti di varia natura, rappresenti soltanto la punta dell’iceberg.
Se è questa l’antimafia, come non pentirsi dei sacrifici fatti per portare avanti questi soggetti, rimettendoci in termini economici e di prospettive? Dov’è la mafia? Forse la mafia, in termini canonici, è tra quei pezzenti che, ritenendosi onnipotenti, hanno favorito poltrone e affari, rimanendo a vivere tra le pecore e con la paura di essere uccisi o arrestati. La loro cultura, se così vogliamo chiamarla, ha invece raggiunto gli scranni più alti, quelli di un’antimafia che ha istituzionalizzato l’atteggiamento mafioso, traendone vantaggio non soltanto economico ma anche morale.
Cosa dirò ai ragazzi, ai bambini, a quanti dovrei parlare di mafia e antimafia, come quando tenni due ore di lezione presso una delle più prestigiose università francesi? Forse nulla. Vigliaccamente non parlerò di magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine promossi e trasferiti, di imprenditori coraggiosi, di giornalisti asserviti – così come risulta da intercettazioni e atti giudiziari – premiati per la loro attività, di chi sfrutta i lavoratori. Continuerò, forse, a spiegare che la legalità nasce dai piccoli gesti, dal non buttare a terra la carta delle caramelle, o più probabilmente declinerò ogni invito, evitando di sedermi accanto a chi predica la legalità, salvo poi agire diversamente.
Dov’è la mafia?
Gian J. Morici