Intervista di Gian J. Morici
La storia del poliziotto raccontata nel corso della nostra intervista sui possibili depistaggi dei quali è stato testimone.
Cosa lo ha spinto a rompere il silenzio dopo anni di pensionamento?

Ravidà: Come ho già avuto modo di accennare, mi arruolai nel Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza nel lontano settembre del 1976. Dopo aver frequentato un corso di sei mesi per allievi Guardie, presso la scuola di Alessandria, fui nominato Agente.
Tuttavia, invece di essere assegnati ai vari reparti, fummo trattenuti presso la Scuola di formazione. La situazione nel Paese era in quegli anni molto tesa, caratterizzata da frequentissime manifestazioni che sfociavano quasi sempre in incidenti di piazza. Per questo motivo, i circa 600 frequentatori del mio corso rimasero ad Alessandria e fummo continuamente impiegati come un reparto celere aggiunto a quelli già esistenti.
Il mio corso si era già distinto in operazioni di Ordine Pubblico perché, pur essendo ancora semplici allievi Agenti e quindi non formati, senza armi ma dotati solo di manganello, elmetto (casco), scudi e lancialacrimogeni, e con un solo giorno di addestramento all’Ordine Pubblico, eravamo già stati impiegati in servizi esterni.
Ricordo gli incidenti di Bologna, dove la città fu messa a ferro e fuoco per numerosi giorni. A seguito della morte di un manifestante, Francesco Lo Russo, ucciso da un colpo di arma da fuoco esploso da un Carabiniere, si scatenò una rivolta popolare che distrusse strade, vetrine di negozi, vetrate di banche ecc. Lì ricevemmo il nostro primo “battesimo all’Ordine Pubblico”: per più giorni e più notti dovemmo respingere i continui assalti dei manifestanti per impedire che raggiungessero e distruggessero i palazzi di governo e le caserme, prese continuamente di mira. Per porre fine alla rivolta, dovettero intervenire i blindati dei Carabinieri.
Quale è stata la sua esperienza formativa dopo l’arruolamento nel 1976?
Ravidà: Non so se sia una coincidenza o se ci sia una connessione con quegli incidenti, ma qualche anno dopo esplose la bomba alla stazione di Bologna, causando decine di vittime e centinaia di feriti tra civili inermi. Le vere responsabilità, incluse le collusioni istituzionali e politiche dietro quella strage di innocenti, sono emerse solo di recente, portando alle condanne di funzionari dei Servizi Segreti, membri della Massoneria ed estremisti di destra.
Successivamente a questo periodo, nel corso del ’77, fui trasferito al reprto mobile (oggi reparto celere) di Bologna.
In seguito, chiesi di frequentare un corso per Agenti di Polizia Giudiziaria. Fui inviato a Roma per il $19^{\circ}$ corso P.G.A.I. (Polizia Giudiziaria, Amministrativa e Investigativa), dove rimasi per altri sei mesi. Durante questo periodo, non fui mai impiegato in servizi esterni, se non per brevissime aggregazioni ai reparti investigativi a scopo di istruzione e formazione.
Quel corso era di vera eccellenza, poiché i nostri insegnanti erano i migliori funzionari di Polizia, i quali venivano a tenerci le lezioni. Lì mi specializzai veramente, imparando metodi e modalità investigative e a redigere relazioni di servizio, da inviare all’Autorità Giudiziaria, che simulavano veri rapporti di reato, chiaramente inventati a scopo didattico.
Ricordo con rammarico e dolore l’ultimo giorno di corso, in cui eravamo impegnati negli esami finali.
I banchi dove stavamo svolgendo il compito scritto erano strettamente sorvegliati da funzionari di Polizia, che ci impedivano di copiare o chiedere aiuto ad altri colleghi.
Improvvisamente, tutti i funzionari sparirono, e noi ne approfittammo subito per parlare e scambiarci informazioni.
Quell’allontanamento generale dei nostri “controllori” fu, però, strano. Un collega veneto, un ragazzone alto e robusto, uscì dall’aula per cercare di capire il motivo di quell’assenza.

Rientrò in aula piangendo disperatamente e gridando: “Ragazzi, hanno ammazzato cinque nostri colleghi e rapito l’onorevole Aldo Moro.” Era il 16 marzo del 1978.
Chiaramente, l’esame fu sospeso e non venne mai più ripetuto. Chiedemmo di poter essere utili, dato che il caos che regnava nei nostri reparti era totale.
Ci fornirono dei pulmini con la scritta Polizia e fummo impegnati per diversi giorni ininutili posti di blocco.
Poi, mentre Moro era ancora nelle mani delle Brigate Rosse, la gravità dell’episodio portò, credo in modo mirato, all’assegnazione di tutti e 60 i frequentatori di quel corso alle varie DIGOS d’Italia.
La mia destinazione, insieme ad altri sei colleghi, fu Napoli, con l’ordine perentorio di essere assegnati alle Sezioni Antiterrorismo interne alle DIGOS, dove rimasi fino al 1984.
Quali furono le operazioni e gli episodi più significativi che hanno caratterizzato il suo servizio presso la Sezione Antiterrorismo della DIGOS di Napoli, in particolare riguardo alla lotta contro le Brigate Rosse?
Ravidà: Il mio periodo in servizio fu caratterizzato da un gran numero di operazioni di Polizia che portarono alla distruzione della potente colonna napoletana delle Brigate Rosse.
Potrei citare decine di episodi, dalla scoperta di covi e rifugi clandestini a vere e proprie sparatorie con terroristi di primo piano, culminando in numerosi arresti.
Tra gli eventi più noti vi furono l’omicidio del Funzionario di Polizia Ammaturo e il sequestro dell’onorevole democristiano Ciro Cirillo, anch’esso opera delle BR.
A differenza del sequestro Moro, nel caso Cirillo si mobilitarono tutte le forze, dai politici ai servizi segreti, dai clericali a molti altri potentati, per ottenerne la liberazione.
È risaputo che in questa vicenda fu coinvolta la Camorra, in particolare Raffaele Cutolo e il suo braccio destro, Vincenzo Casillo. Quest’ultimo, insieme ad elementi dei servizi segreti, entrava nelle carceri per condurre colloqui investigativi.
Cirillo fu infine liberato in cambio del pagamento di un riscatto di un miliardo e mezzo di vecchie lire, consegnate da un legale, a bordo di un autobus, al terrorista Prospero Gallinari.
È noto che, in cambio del suo intervento, Cutolo chiese tangenti sui fondi destinati alla ricostruzione della Campania in seguito al terremoto del 1980.
All’emergenza terrorismo e Brigate Rosse, seppure viste nell’ottica dei servizi segreti americani (CIA) , Isabella Silvestri sta dedicando una serie di podcast – molto seguiti – che lasciano presupporre un proseguo interessante.
Ravidà: Nel 1984, una volta conclusa l’emergenza terrorismo, chiesi di essere trasferito nella mia città, Catania.
Qui, dopo un periodo di transizione in Uffici meno rilevanti dal punto di vista investigativo, fui assegnato prima alla Squadra Mobile di Catania e successivamente alla Criminalpol Sicilia Orientale, con il grado di Sovrintendente della Polizia di Stato.
Partecipai a decine e decine di operazioni di Polizia e indagini, le quali portarono quasi tutte all’arresto di criminali e associati mafiosi.

Dopo le tragiche stragi che costarono la vita a Falcone e Borsellino, fu istituita la DIA (Direzione Investigativa Antimafia).
Vi furono assegnati i migliori elementi investigativi interforze, provenienti da Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza, che si erano distinti in operazioni precedenti e, soprattutto, che possedevano una profonda conoscenza dei territori in cui avrebbero dovuto operare.
In origine, l’idea era quella di creare una sorta di FBI americana, con la nomina di Agenti DIA e compiti prettamente investigativi, oltre a funzioni di supporto e direzione per altri uffici antimafia.
Avremmo dovuto essere staccati dalle nostre Amministrazioni di appartenenza e gestiti da una Direzione appositamente costituita.
Nei primi anni, in attesa della definizione della struttura investigativa con i ruoli e i compiti previsti, furono comunque portate a termine operazioni di Polizia importantissime, con centinaia di arresti di associati mafiosi.
Tuttavia, con il passare del tempo, la DIA non fu mai dotata di quelle funzioni esclusive e si trasformò in una “quarta forza di polizia” antimafia.
Non so se sia stata una precisa volontà quella di impedire che la DIA funzionasse come l’FBI, ma è ciò che accadde. Col tempo, la struttura fu snaturata del suo compito investigativo primario, privilegiando invece i compiti di prevenzione. A cosa serva nell’ambito della lotta alla mafia, non sono mai riuscito a comprenderlo…
Nelle sue parole si legge una certa amarezza…
Nel 2011, avendo maturato 35 anni di servizio effettivo, più cinque di “scivolo” – per un totale di 40 anni – scelsi di andare in pensione all’età di 53 anni.
Avrei potuto continuare a lavorare fino ai 60 anni e oltre, ma tutto ciò che avevo vissuto nel tempo, e non solo all’interno della DIA, non mi permise più di restare, per una mera questione di coscienza.
I troppi colleghi morti, per i quali ancora oggi non è stata fatta vera giustizia, e il vedere il coinvolgimento e la compromissione di miei Funzionari e dirigenti in situazioni di depistaggio, mi spinsero a prendere la decisione di lasciare quella Polizia in cui avevo creduto e per la quale mi ero arruolato.
Nel 2003 scrissi un libro. Non essendo uno scrittore, l’ho definito di “denuncia pubblica”, un testo che raccoglie tutte le mie esperienze in Polizia, descrivendo parallelamente ciò che accadeva all’esterno, in ambito politico, mafioso e pubblico…
Una carriera, quella di Ravidà, che ha attraversato le maggiori emergenze nazionali italiane, dagli anni di piombo alla lotta alla mafia in Sicilia, vivendo i momenti più bui della storia della nostra Repubblica, come il rapimento Moro che lo indirizzò all’Antiterrorismo, e l’inquietante caso Cirillo, che rivelò l’interferenza tra Servizi Segreti, politica e criminalità organizzata, che interpreta come evidenze concrete di trame di Stato”
La sua decisione di ritirarsi prematuramente è stata un atto di coscienza, motivato dalla frustrazione per il depistaggio e dalla mancanza di giustizia per i colleghi caduti, che culmina nella scrittura di un libro di denuncia pubblica per raccontare la sua esperienza e le compromissioni osservate ai vertici delle Istituzioni.
Considerato quanto vissuto e deciso di raccontare, cos’altro avrà ancora da rivelare Ravidà, rispetto alle trame di Stato che, dopo così tanti anni, hanno impedito di far piena luce sul periodo del terrorismo e, soprattutto, sulle stragi del ’92 e ’93?
Ci lasciamo qui per riprendere la nostra intervista con ulteriori domande, focalizzate sulla sua esperienza nella Criminalpol e nella DIA in Sicilia, per approfondire le tue conoscenze su quel periodo drammatico e sulle collusioni che hanno ostacolato la verità.