Requisitoria del pubblico ministero Lorenzo Matassa
Di seguito il testo integrale della requisitoria del pubblico ministero Lorenzo Matassa, pronunciata il 23 febbraio 1998 davanti alla Corte d’Assise di Palermo in occasione dei procedimenti penali celebrati in quel periodo contro gli esecutori dell’omicidio di don Puglisi.
La requisitoria ci presenta anche il punto di vista di un magistrato che ha conosciuto padre Puglisi dopo il suo assassinio e ne sintetizza l’operato evangelico, ricostruendo in maniera mirabile la sua opera a Brancaccio e i biechi quanto maligni motivi all’origine del suo assassinio.
“Si dice che nell’ultimo momento della vita, nell’atto dell’ultimo respiro, ogni uomo ripercorra tutto il suo vissuto. In quell’unico istante ogni essere potrà ritrovare sé stesso in modo completo, consegnandosi ai sorrisi cari degli amati o ai fantasmi del male. Si dice che un vortice inarrestabile trascini chi la vita non ha più, ma che la vita non ha ancora del tutto abbandonato, dal caldo natale abbraccio della madre fino al pietoso gesto della chiusura delle palpebre da parte di un ignoto passante o di un impotente medico del pronto soccorso.
Ho provato tante volte a immaginare l’ultimo momento della vita di don Giuseppe Puglisi, non solo perché la sua umanità era, ed è, la mia umanità (così come quella di tutti coloro che oggi si trovano qui), ma perché in quel momento vi erano sicuramente registrati la causa e il motivo del suo assassinio.
Forse nel suo sorriso morente non si erano imprigionati, come in una fotografia, i volti degli assassini, ma – ditemi voi – era importante sul Golgota conoscere che viso avesse colui che aveva trafitto le mani, i piedi e il costato di un uomo sulla croce?
Vi sono assassinii che trascendono coloro che li compiono.
Vi sono assassini che uccidendo un uomo uccidono un pensiero, una speranza, un modo di essere, l’ idea stessa di umanità.
Questo, signori giurati, è uno di quegli omicidi.
Vi avevo detto, nel corso della mia relazione introduttiva, che questo processo ci avrebbe portato a ricostruire le circostanze che portarono alla morte un uomo a causa del suo impegno evangelico e sociale.
Vi avevo anticipato che avremmo attraversato il fondo più oscuro e abietto del delitto e che avremmo avuto modo di constatare in quali misere condizioni di assoggettamento e di omertà è costretto a vivere un intero quartiere di Palermo.
Pensiamo che l’ istruttoria dibattimentale sia stata fedele a questa promessa.
Ho sentito dire che la verità cerca chi la trova. Avete sentito bene. Proprio in questa modalità inversa. È la verità che insegue colui il quale ne cerca l’esistenza. È essa che si muove, inarrestabile, dalle cose fino ai pensieri; si ricostruisce sotto lo sguardo dell’indagatore fino a completarsi nel suo aspetto più autentico e inoppugnabile.
Questo è accaduto in questo caso e in questo processo.
Come una invisibile calamita, la verità ha magnetizzato a sé tutti i pezzi dispersi dei luoghi, delle circostanze, degli uomini, delle condotte, riassemblandole ordinatamente e offrendo il panorama chiaro, completo, trasparente, inequivocabile di tutto ciò che accadde prima, durante e dopo il momento in cui il povero corpo di don Pino Puglisi si abbatté al suolo senza un grido.
Ecco perché nel Vangelo sta scritto che Nostro Signore è la Via, la Verità e la Vita. Perché la verità è veicolo di giustizia.
È l’essenza stessa della giustizia.
Questo processo è stato veicolo di verità.
Allorché il caso mi affidò la morte di don Giuseppe Puglisi come oggetto di investigazione, ebbi il vero traumatico contatto con il quartiere di Brancaccio. La sua realtà di miseria, dolore e morte. Quartieri dormitorio, dove unica maestra di vita (per i ragazzi cresciuti troppo in fretta) è la strada e queste strade, come per esempio la via conte Federico, erano il ricordo e le lapidi per centinaia di morti ammazzati. Intere famiglie abbandonate a sé stesse senza servizi, strutture sociali, centri di assistenza, un po’ di verde dove spaziare.
Il quartiere di Brancaccio era, ed è, una frontiera scomoda per tutti, un territorio a perdere, un qualcosa da dimenticare, da lasciare al potere incontrastato dei criminali e dei mafiosi perché guai a opporsi a loro.
Ecco perché il quartiere di Brancaccio era una vera e propria missione.
Una missione difficile come alcune parti dell’Africa affamata o come alcune zone della violenta America Latina. Una missione pericolosa.
Don Pino Puglisi doveva sapere tutto questo, ma la Chiesa di Brancaccio era la sua missione pastorale; ciò che Nostro Signore aveva deciso che fosse.
L’unica cosa che forse non considerò era quella che egli sarebbe rimasto solo, solo nell’opera pastorale e solo nella morte, solo (come diremo) anche nel processo.
Io non dimenticherò mai il sorriso sereno di don Pino Puglisi mentre il medico legale mi indicava il foro d’entrata della pallottola che lo uccise.
Era il sorriso di colui il quale aveva scelto e abbracciato la sua fede e con rassegnazione aveva accettato il suo destino con l’estremo sacrificio.
Il quartiere conosceva tutto questo e in quei giorni era percorso da una voce, un fremito indistinto ma corale.
Tutti (nelle piazze, dentro i bar, nei negozi e in ogni altro disperso luogo di ritrovo del quartiere di Brancaccio) pronunciavano sommessamente e paurosamente un’unica parola che riassumeva mandanti, movente e ogni altra circostanza del delitto. Tutti pronunciavano un’unica parola: mafia.
Certo, signori giurati e signori giudici togati, la mafia… direte voi.
Era facile da supporre, era logico da desumere, era conseguente, avuto riguardo alla storia che da sempre ha contrapposto i valori cristiani del bene alla violenza e alla sopraffazione del male. Il bene a volte soccombe. Era questo.
Ma, signori della Corte d’Assise, sapete qual era il rischio di questa morte e di questa investigazione? Era quello che ci si potesse lentamente abbandonare alla deriva dell’ indistinto scenario di un martirio cristiano.
Chi di voi, infatti, conosce il nome di colui che trafisse il costato di Nostro Signore sul Golgota?
Che importanza poteva avere di fronte all’enormità dell’assassinio di un innocente che aiutava l’ infanzia abbandonata, le famiglie senza pane, le donne violentate e ferite, i tossicodipendenti. Che importanza aveva a fronte di tutto questo chi lo aveva ucciso?
La mafia lo aveva ucciso. Il male indistinto che – come a volte accade – prevale sul bene. Era tutto lì.
La mano sarebbe rimasta nell’ombra ancora per qualche tempo, fino al giorno in cui, per eliminare ogni prova residua, la mafia si sarebbe disfatta anche dell’esecutore o degli esecutori. La storia di questo assassinio si sarebbe disciolta nell’acido. Ecco qual era il rischio di questa indagine.
Ma, come vi ho già detto, la Verità è andata alla ricerca dell’uomo e si è mossa, inarrestabile, dalle cose fino ai pensieri.
Meditando questa requisitoria, mi sono chiesto quale può essere il virtuale desiderio di ogni organo inquirente, di ogni valente indagatore delle cose umane (e non necessariamente delle cose giudiziarie) che si trovi nella necessità di ricostruire un fatto nella sua interezza, di investigarne i contorni e le circostanze per acclararne la verità.
La scienza è antica quanto l’uomo e ha un nome altisonante e forse difficile da pronunciarsi: epistemologia, ovvero scienza della conoscenza.
In altri termini, si arriva alla ricerca della verità se e in quanto si è dapprima conosciuto un fatto; la corretta conoscenza del fatto permettendo anche una corretta formazione della verità.
In un fatto omicidiario, di regola, ci si muove a ritroso cercando di ripercorrere la via ante acta della vittima dall’ultimo respiro.
Quasi mai la fortuna consente di fotografare il momento esiziale del delitto e, anche se questa fotografia vi fosse, essa non riprenderebbe quello che voi e noi riteniamo elemento più importante: il movente.
Il movente è quell’ invisibile filo di Arianna che permette di decifrare e decodificare tutte le azioni e mostrarle in chiaro a chi ne ha registrato solo l’effetto finale. Il movente è più del motivo: è la spiegazione delle condotte.
Quale allora può essere il virtuale desiderio di un organo inquirente se non quello di intuire il movente e da questo ripercorrere, nella successione più aderente ai fatti, ogni condotta di coloro che il movente hanno condiviso, dando loro un volto e un nome?
Questo è accaduto nelle indagini relative all’omicidio di don Giuseppe Puglisi, dove (scartate, dopo i primi accertamenti, le ipotesi di un delitto d’ impeto o larvatamente occasionale) il motivo si manifestò chiaro nell’attività evangelica e pastorale e nella chiara contrapposizione di questa attività al regime di terrore, morte e sopraffazione imposto dalla mafia.
Tipici gli avvenimenti ammonitori (le violenze private, gli incendi e i danneggiamenti) che avete udito raccontare alle persone vicine a don Puglisi e ai rappresentanti del Comitato Intercondominiale (29/06/93), così come quelli che sapete essere stati cagionati all’impresa che lavorava alla ristrutturazione della chiesa di San Gaetano il 25/05/93 (anche se avete assistito all’omertosa negazione del titolare dell’ impresa Balistreri, negazione reiterata pure a fronte della oramai appresa circostanza della dolosità dell’atto, dichiarata da chi l’atto di danneggiamento aveva posto in essere). La chiesa di Brancaccio e la semplicità disarmante di don Pino Puglisi erano una spina nel fianco della mafia di quel quartiere (e aggiungerei di tutte le mafie), che vedeva compromesso il suo primato.
Forse sarebbe bastato questo, così come bastò in altre occasioni e in altri tempi, per ammazzare il messaggio dei miti della terra come Ghandi, Martin Luther King o monsignor Romero, quest’ultimo – lo ricorderete – ucciso dai cartelli colombiani della coca.
Ma nel nostro caso era accaduto qualcosa di più. Qui il motivo doveva essere più concreto, più tangibile e immediato.
L’ipotesi fu confermata da un collaborante storico, profondo conoscitore della fenomenologia omicidiaria in Cosa nostra e più volte ritenuto della massima attendibilità da parte del Supremo Collegio.
Giovanni Drago, pur chiarendo di essere stato detenuto al tempo della morte di don Giuseppe Puglisi, rassegnava alla conoscenza degli investigatori un particolare relativo all’attenzione che Cosa nostra aveva riposto sul prelato. Cosa nostra aveva incaricato un insospettabile di seguirne le mosse per comprendere cosa esattamente ruotasse attorno al Centro di Accoglienza Padre Nostro, promosso da don Pino nella via Conte Federico.
La situazione era di massima importanza per Cosa nostra.
Situato in un crocevia strategico del quartiere di Brancaccio, a pochi passi dalle abitazioni di molti esponenti latitanti dell’organizzazione (ma soprattutto a pochi metri dalle abitazioni dei latitanti fratelli Graviano, capi indiscussi della famiglia di Brancaccio nonché componenti di spicco del vertice mafioso siciliano), il Centro di Accoglienza Padre Nostro era un continuo andirivieni di persone assolutamente non controllabili. Tra esse potevano nascondersi investigatori e agenti di polizia in un momento storico in cui le stragi e le bombe, esplose nel Paese, intensificavano le ricerche dei sospetti per crimini orrendi.
Povero don Pino. Questo sospetto non era vero. Nessuna traccia, anche minima, dell’ indagine ha mai confermato questa vocazione sbirresca del prete di frontiera.
Lo ripetiamo qui, davanti a tutti e soprattutto davanti a questi imputati: mai don Pino diede aiuto alla polizia; e gli
armadi del Centro di Accoglienza Padre Nostro erano pieni di medicinali, di pasta, di pane, di vestiti, di giocattoli e di ogni altro bene che serviva alla sua gente, alla gente che egli curava e che, disperata, non aveva nulla.
Ma il Centro di Accoglienza Padre Nostro doveva cessare di esistere per eliminare alla radice il potenziale pericolo alla latitanza dei fratelli Graviano e di ogni altro componente dell’organizzazione.
In effetti la scelta criminale fu graduata rispetto alle necessità, e all’ indomani dell’assassinio (lo avete udito dai testimoni) sia il Comitato Intercondominiale sia il Centro Padre Nostro cessarono di vivere.
Questo fu il reale movente dell’assassinio.
Se il movente partiva dalla necessità di coprire la latitanza dei capi incontrastati del quartiere Brancaccio, era all’ interno del gruppo criminale che bisognava dare un nome e un volto a coloro che avevano agito.
L’uomo prescelto dalla famiglia mafiosa per il controllo del prete, il dottor Nangano Salvatore, fu arrestato quasi subito e la sua posizione è stata definita con le forme del rito abbreviato e l’irrogazione di una condanna, passata in giudicato, ad anni due di reclusione per il reato di partecipazione esterna all’associazione per delinquere Cosa nostra.
Il labirinto delle complicità e delle responsabilità andava a mano a mano delineandosi, la nebbia dell’omertà si diradava.
Di Filippo Emanuele, Di Filippo Pasquale e Cannella Tullio, uomini tutti gravitanti nel gruppo mafioso di Brancaccio, si aprivano alla collaborazione.
Si rafforzava il quadro probatorio già esistente a carico dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, ed era identificato uno degli autori materiali dell’omicidio: Grigoli Salvatore.
Non ripeterò qui ciò che avete udito nel corso dell’ istruzione probatoria e che sarà oggetto prossimamente della decisione della Corte d’Assise apertasi sul processo ai mandanti. Tassello dopo tassello, circostanza dopo circostanza, una cascata di verità travolgerà beneficamente le investigazioni prima e il processo poi.
Uno dopo l’altro, a seguito della cattura dei capimafia di Brancaccio e di alcuni importanti gregari, si aprivano alla collaborazione altri componenti di Cosa nostra (Pietro Romeo, Giovanni Ciaramitaro, Antonio Calvaruso, Pietro Carra, Antonio Scarano). Un fiume in piena travolgeva Cosa nostra di Brancaccio.
Grigoli Salvatore, detto “ il cacciatore ”, non era stato l’unico assassino. Altri lo avevano aiutato a compiere la missione di morte. Come se, per uccidere un prete, povero e solitario, fosse necessario un plotone. In effetti questa necessità non c’era. Ma questa era, ed è, l’operatività militare di Cosa nostra che, anche per un obiettivo semplice e inerme come don Pino, esigeva le sue pianificazioni e le sue sicurezze operative: disponibilità di informazioni, denaro, armi ed esplosivo, auto e moto per veloci spostamenti, complicità insospettabili nel territorio, luoghi dove condurre le vittime per interrogatori con tortura e dissolvimento dei corpi, coperture nella esecuzione dei delitti, fughe protette.
Tutto questo e altro ancora (di criminale) era il gruppo di fuoco della famiglia di Brancaccio. Pronto a ogni operazione, anche la più crudele, come l’assassinio di bambini o di donne incinte, pronto alla strage dei luoghi dell’arte e della storia del nostro Paese, pronto a colpire degli ignari spettatori all’uscita di uno stadio, pronto ad abbattere un elicottero, pronto a tutto.
Uno dopo l’altro, i componenti del gruppo di fuoco venivano individuati e arrestati, alcuni dopo anni di latitanza.
I loro nomi li avete uditi più volte in questa aula, i loro volti sono a voi conosciuti, i collegamenti tra gli stessi hanno il valore probatorio quasi di un fatto notorio: Mangano Antonino, Spatuzza Gaspare, Lo Nigro Cosimo e Giacalone Luigi sono gli stessi uomini accusati, insieme ad altri, di avere causato terrore e morte in tutta Italia.
Essi erano insieme al cacciatore al momento dell’esplosione del colpo mortale alla nuca del povero don Pino Puglisi.
Vi avevo già detto che, meditando questa requisitoria, mi sono chiesto quale potesse essere il virtuale desiderio di ogni organo inquirente, di ogni valente indagatore delle cose umane (e non necessariamente delle cose giudiziarie) che si trovi nella necessità di ricostruire un fatto nella sua interezza, di investigarne i contorni e le circostanze per acclararne la verità.
Avevo detto che la maggiore aspettativa è quella di individuare il movente e, da questo, ricostruire passo dopo passo ogni circostanza e ogni condotta che, nell’attuazione di quel movente, hanno dato un contributo causale.
Ma quale massima aspettativa può invece nutrirsi?
La massima aspettativa è che questo movente e queste prove convergenti si manifestino in tale e innegabile evidenza da
determinare uno dei protagonisti ad ammettere i fatti per come essi si sono in effetti svolti. Ecco allora ai vostri occhi cosa avvenne prima, durante e dopo l’assassinio di don Pino Puglisi dalle parole messe a verbale di colui [Salvatore Grigoli] che esplose l’unico e mortale colpo:
Come ho anticipato in sede di spontanee dichiarazioni e al gip, confermo di avere eseguito l’omicidio di don Pino Puglisi. L’omicidio fu deliberato da Graviano Giuseppe, come ho appreso dallo Spatuzza, in quanto lo stesso sospettava che il sacerdote permettesse alle forze di polizia di infiltrarsi nel quartiere per catturare i latitanti. Il Graviano fece sapere che l’omicidio non doveva apparire come un omicidio di mafia, bensì come l’opera di un tossicodipendente o di un rapinatore. Per tale motivo fu utilizzata una pistola calibro 7,65 silenziata e al sacerdote fu sottratto il borsello.
Dell’omicidio era al corrente anche Mangano Antonino, al quale chiesi spiegazioni e che mi confermò che l’omicidio andava eseguito perché interessava la famiglia mafiosa. Dopo qualche giorno dall’ordine ricevuto incominciammo a seguire i movimenti del sacerdote.
Una sera lo localizzammo nei pressi di San Gaetano, forse mentre parlava a un telefono pubblico. Non ricordo se nell’occasione eravamo già armati, ovvero ci allontanammo a prendere l’arma di cui ho già detto. Abbiamo quindi incrociato una seconda volta il sacerdote mentre si apprestava a entrare nel portone della palazzina dove era ubicato il suo appartamento. Il gruppo che ha operato era così composto: a bordo della BMW, nella disponibilità di Giacalone Luigi, mi trovavo io e lo stesso Giacalone; a bordo di una Renault 5, Lo Nigro Cosimo e Spatuzza Gaspare.
Dalle rispettive autovetture siamo scesi io e lo Spatuzza. Quest’ultimo avvicinò il sacerdote, gli prese il borsello e gli disse: “ Padre, questa è una rapina ”. Nel frattempo io, posizionandomi dietro il sacerdote, esplodevo un colpo di pistola alla nuca di quest’ultimo da brevissima distanza. Il sacerdote non si è reso conto di nulla, in quanto con un sorriso si era rivolto allo Spatuzza proferendo le seguenti parole: « Me lo aspettavo ». Terminata l’esecuzione, siamo risaliti sulle autovetture e ci siamo diretti verso il deposito Valtras (impresa di trasporti e spedizioni), all’interno del quale abbiamo esaminato il contenuto del borsello, anche per rintracciare eventuali indirizzi di poliziotti o investigatori. All’ interno del borsello abbiamo rinvenuto circa duecentomila lire, una patente di guida e una lettera indirizzata al sacerdote e contenente apprezzamenti per la sua opera. Lo Spatuzza si impossessò delle marche della patente del Puglisi. L’arma fu successivamente distrutta per non lasciare tracce di un omicidio che era diventato rilevante per l’opinione pubblica.
A domanda risponde: In effetti l’omicidio fu preceduto da un attentato incendiario ai danni delle abitazioni di alcune persone abitanti in via Azolino Hazon. Anche in questo caso l’ordine partì da Graviano Giuseppe. L’attentato fu materialmente eseguito da me, da Spatuzza Gaspare e da Federico Vito. Cascino Carlo, come preciso in sede di verbalizzazione riassuntiva, aiutò il Federico nella fase successiva all’attentato coprendone la fuga a bordo di un ciclomotore Peugeot. Ricordo che, la sera in cui compimmo questo attentato, abbiamo compiuto anche l’attenta to ai danni di un esercizio di tabaccheria di Brancaccio nella continuazione della via Emiro Giafar.
A domanda risponde: L’attentato incendiario che distrusse l’automezzo della ditta che lavorava alla ristrutturazione della chiesa di San Gaetano fu compiuto da Giuliano Francesco (inteso Giuseppe “Olivetti”).
A domanda risponde: La famiglia di Brancaccio, fino alla data di arresto dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, era retta da Graviano Giuseppe. Graviano Giuseppe si occupava direttamente del gruppo di fuoco, mentre suo fratello Filippo curava le estorsioni e i rapporti con i costruttori edili. Io non ho avuto rapporti diretti con Graviano Filippo, che pure conosco fin da ragazzo per essere cresciuti nel medesimo quartiere, e tuttavia ritengo che le decisioni più importanti per la famiglia fossero prese di comune accordo tra i due fratelli.
Graviano Benedetto, con il quale ho pure commesso un omicidio – come ho in altra sede riferito – non aveva grande potere decisionale, anche perché aveva un carattere piuttosto semplice.
Cosa altro aggiungere a questa inequivocabile e tragica verità, se non che l’ istruzione probatoria dibattimentale ha ulteriormente comprovato il possesso da parte del Giacalone Luigi di un’autovettura del tipo BMW 316 e da parte del Lo Nigro Cosimo di una Renault 5.
Cosa altro aggiungere se non che l’ istruzione dibattimentale ha, altresì, comprovato una circostanza da brivido freddo:
l’esecuzione dell’omicidio Puglisi, con l’eco che ne seguì, ebbe a ritardare una strage ancora più grande (non verificatasi per puro caso) che gli stessi uomini oggi a giudizio avrebbero dovuto provocare mediante l’esplosione di una vettura carica di tritolo, in Roma, all’uscita di uno stadio al termine di una partita di calcio.
Questi sono gli uomini che giudicherete.
Signori della Corte d’Assise, adesso io vi chiederò di dare giustizia per l’assassinio di don Pino Puglisi. Ma nel chiedervi giustizia, da pubblico ministero, da cittadino (e forse anche da distratto cristiano quale sono) vivo un senso di difficoltà.
Non prendete le parole che dirò come un atto di sfiducia al vostro operato o all’astratto e alto mandato che il popolo italiano vi ha attribuito. Precedentemente ho detto che la Verità è veicolo di giustizia. È l’essenza stessa della giustizia e che questo processo è stato veicolo di verità.
Ma è la Verità la sola componente utile a determinare giustizia?
In altre parole, basta ricostruire puramente e semplicemente la verità di un fatto e scolpirla sui verbali di un processo o sulle piste magnetiche di un registratore perché da noi tutti si possa dire: «Abbiamo fatto giustizia »?
La risposta è no. E non perché la verità non basti da sola a determinare e affermare la responsabilità penale di un imputato, ma perché essa dovrà essere dichiarata, nel processo penale, davanti a tutti coloro che hanno il diritto, ma anche
il dovere morale, di ricercarla e di sentirla dichiarare in nome di colui il quale non ha più voce per poterne chiedere l’affermazione. Toccherò, senza ipocrisia o falsi infingimenti, un aspetto di questo processo che – quali giudici uomini e donne intelligenti del dibattimento – avrete sicuramente già notato.
Dove sono le parti civili in questo processo?
Dov’ è la Chiesa, che ha visto assassinare uno dei suoi figli migliori?
Dove sono le istituzioni territoriali che la mafia assedia?
La lotta alla mafia così come i processi ad essa devono essere atti corali. Per questo dico che la giustizia non è soltanto verità ma anche partecipazione umana. È coinvolgimento, è impegno civile continuo e di tutti. Da parte di tutti e, primi fra tutti, di coloro che hanno il dovere morale e giuridico della partecipazione, perché sono i soli che possono dare voce a chi mai più potrà averla.
Udite il paradosso.
La mafia di Brancaccio sarà forse condannata in questo processo, ma il Centro Padre Nostro, la Chiesa di Brancaccio, le istituzioni del quartiere, il comune di Palermo non avranno, da questo processo, un soldo per continuare a far vivere le idee che il povero don Puglisi coltivava ogni giorno.
Avete udito la risposta della Chiesa attraverso un suo rappresentante in dibattimento. Vi è stato detto da parte del successore di don Pino Puglisi che la Chiesa non si occupa della responsabilità penale degli uomini ma del loro destino sovraterreno.
Niente di più errato, niente di più ingiusto per la memoria di don Pino Puglisi, che a questa povera e bistrattata umanità di Brancaccio aveva cercato di dare il “ pane quotidiano ” ma anche quello materiale come atto di carità e di giustizia.
Sarebbe stato, pertanto, atto laico di carità (laico tanto quanto l’offertorio di danaro nel rito celebrativo della messa o l’accettazione dei lasciti ereditari dei privati) costituirsi parte civile, nella memoria di don Pino Puglisi, perché la Chiesa di Brancaccio avesse voce e vedesse riconosciuto – con atto di giustizia – quel denaro utile a continuare l’opera di risanamento pastorale così tragicamente interrotta dalla mafia.
Ecco cosa sarebbe stata giustizia.
Ecco perché, in nome soltanto della verità, che così fedelmente abbiamo ricostruito nel processo e senza attenuanti di sorta per coloro che hanno insanguinato il Paese, vi chiedo il massimo della pena.
Vi chiedo, previa riunificazione dei reati contestati, di irrogare l’ergastolo con isolamento per Mangano Antonino, l’ergastolo con isolamento per Giacalone Luigi, l’ergastolo con isolamento per Lo Nigro Cosimo, l’ergastolo con isolamento per Spatuzza Gaspare. Vi chiedo, sussistendone tuttii requisiti in fatto e in diritto, di emettere ordinanza di custodia cautelare in carcere per Lo Nigro Cosimo.
Non ho ancora del tutto completato il mio intervento. Ricordate, giudici della Corte d’Assise, cosa raccontò “ il cacciatore ” riguardo a ciò che avvenne dopo che don Giuseppe Puglisi fu ucciso? L’assassino riferì che lo Spatuzza Gaspare gli sottrasse il borsello e si impossessò delle marche della patente.
Singolare assonanza con ciò che vi è scritto nel Vangelo secondo Giovanni dopo la crocifissione di Nostro Signore Gesù (Gv 19,25): « Si son divise tra loro le mie vesti ». Ma, questo, Spatuzza Gaspare e i suoi correi non potevano saperlo.
Vi ringrazio1“
.
1 La requisitoria è disponibile al seguente link: www.padrepuglisi.it/Estrattiprocesso.htm