Sarà una caldissima giornata di luglio. Una di quelle giornate dell’estate siciliana, in cui la differenza di temperatura dell’asfalto con l’aria sovrastante ti dà l’impressione di vedere un velo d’acqua sulla strada rovente.
Un miraggio!
Quel 19 luglio 1992, in via D’Amelio a Palermo l’acqua sull’asfalto c’era. Era reale, non era un miraggio.
Era l’acqua che le autocisterne dei pompieri avevano riversato sulle auto in fiamme dopo l’esplosione che aveva ucciso il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta.
L’acqua si mischiava all’urlo delle sirene, al fumo, ai corpi straziati.
L’acqua lava. E l’acqua portò via con sé la cenere, il sangue, le speranze, la verità.
Rimasero il dolore e le bugie che per oltre trenta anni ancora si sarebbero raccontate su quella strage.
Nasceva così l’antimafia. Quella di chi ci credeva veramente, quella di chi ha fatto affari, quella di chi si è lasciato ingannare, quella di chi ha coperto i propri errori, quella di chi ancora oggi insegue chimere e ha abbracciato retoriche, passerelle, falsi pentiti e strani personaggi da circo, dimenticando la vera eredità di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Tra cinque giorni andrà nuovamente in scena lo spettacolo.
“Venghino signori… venghino…”
Dopo quello della Santuzza, la commemorazione di via D’Amelio è il giorno più importante di Palermo.
La mafia non è quella del denaro, degli affari.
Lo spaccio di droga, il pizzo, gli appalti, con la mafia non c’entrano nulla.
La mafia, per alcuni, praticava lo sport di strane trattative, intrecci e congiure che nulla avevano a che fare con il vile denaro.
Dagli spalti dell’antimafia si levano già i cori delle tifoserie.
Sui social, post e commenti si sprecano.
Un’offesa alla memoria di Paolo Borsellino, dei suoi più cari affetti, della verità.
E l’offesa va oltre, quasi ai limiti – quando non li supera – dell’insulto.
Contro chi?
Contro coloro che ancora oggi vogliono conoscere la verità. Contro coloro che vengono censurati dai media, che vengono aggrediti da quanti hanno osannato falsi pentiti, predicatori e toghe che non chiesero mai di essere sentite per raccontare quello che accadeva in quel palazzo di giustizia che il giudice Borsellino chiamava “covo di vipere”.
Quel covo di vipere al cui vertice c’era il procuratore Pietro Giammanco – definito in ambito mafioso “un santu cristianu” -, il quale non avvertì Paolo Borsellino dell’arrivo dell’esplosivo a lui destinato, e che non gli conferì la delega a indagare su Palermo fino alla mattina del 19 Luglio 1992.
Fa male accettare che anni di inutili processi siano serviti solo a distogliere l’attenzione dalle vere cause – o concause che dir si voglia – della strage di via D’Amelio.
Fa male dover ammettere che l’indagine su mafia e appalti, voluta da Falcone – e che Borsellino avrebbe voluto portare avanti con i Ros di Mario Mori e De Donno – era una pista da seguire.
Tacitiamo dunque quanti da tempo vogliono venga fatta chiarezza su questi aspetti.
Mettiamo a tacere il dolore, quello vero. Zittiamo i figli, il loro legale. Insultiamoli pure in nome di quell’antimafia il cui livello di ipocrisia è divenuto tale da rendere quasi indispensabile l’antitesi dell’anti.
Farà caldo il 19 luglio quando a Palermo si svolgeranno le solite passerelle.
Saranno presenti i falsi pentiti? Saranno presenti i santoni miracolati? Saranno presenti quelle toghe che mai si presentarono per narrare ciò che sapevano sul covo di vipere?
Forse no. Forse sarà solo la parata delle autorità, dei fans dei social, dei detentori di verità assolute.
Non si parlerà di vipere, le vipere sono serpenti, ma lo spettacolo andrà avanti lo stesso. Fine solo a sè stesso.
L’acqua lava via tutto, tranne, purtroppo, il dolore. Il dolore vero.
Speriamo che piova.
Gian J. Morici