La casa delle parole è un luogo sempre misteriosamente familiare.
Vi si vive ogni giorno e diventa la dimensione di noi stessi.
In apparenza lo si conosce bene, ma – in realtà – nasconde stanze a volte segrete e per taluni versi inaccessibili.
Ce ne accorgiamo solo quando abbiamo degli ospiti curiosi che, non conoscendo la casa che li accoglie, ci chiedono come mai alcuni luoghi siano preclusi alla vista ed altri non fruibili.
Solo allora sopravviene “il tempo dello sguardo attorno” ed una consapevolezza di avere vissuto – per tanto tempo – in una dimora della quale nulla sapevamo.
Senza quell’ospite indiscreto mai avremmo scoperto la verità che si celava dentro una porta chiusa a doppia mandata e mai aperta.
A questa singolare metafora ho pensato leggendo un libro in cui è condensato il testamento morale di uno dei più grandi giuristi italiani della storia repubblicana.
In sole cento pagine, questo maestro del pensiero giuridico, ci dà una immensa lezione sull’idea stessa di lezione, ovvero sul modo in cui il sapere si scopre e si trasmette.
E sulla pericolosità della scoperta…
Deve esserci qualcosa di infinitamente importante in questa capacità di dare agli altri la conoscenza e, soprattutto, di fare sì che questa ricezione avvenga nel modo più completo e giusto.
Trasmettere il sapere rivoluziona ogni consolidato assetto di potere e rende gli allievi dei potenziali nemici.
Non è un caso che Socrate, maieuta per eccellenza, fu obbligato a scegliere la morte per porre fine a quella sua immensa capacità di aprire le menti di chi lo ascoltava.
Dopo di lui Gesù e tanti altri che, come lui, trasformavano il verbo in illuminante consapevolezza.
Nel libro “La Lezione” è raccontata la storia del Leonardo da Vinci russo, Pavel Florenskij: religioso di immensa cultura, studioso dell’arte cristiana e bizantina, poeta, filosofo del linguaggio, matematico, fascinoso maestro e sollecitatore del pensiero.
Quest’uomo straordinario fu fucilato da Stalin nel 1937 non perchè fosse un avversario politico o un dissidente, ma per la semplice ragione che insegnava ai suoi allievi a pensare con la loro testa.
Nella Russia autocratica (uguale a quella odierna di Putin) ovunque nascesse un’idea, non importa quale, lì si annidiava un pericolo che doveva essere annientato.
Da dove vengano e dove vanno le idee, nessuno può saperlo.
Ma in ciò stesso cova la minaccia che il potere dittatoriale avverte incombente sulla sua stabilità.
Adesso, perpiacere, leggete la parole che un allievo di Florenskij scrisse sul suo maestro:
“L’aula magna era piena fino all’inverosimile. C’era gente in piedi tra i banchi, lungo i muri, seduta alle finestre, accalcata dappertutto.
Florenskij, pur avendo un tono di voce assai basso e poco sonoro, dipingeva con parole veri e propri quadri e risvegliava l’anima in una sorta di risonanza.
Mi sentivo pieno di voglia di vivere, ragionare, pensare, creare insieme a lui… Egli ci spalancava gli occhi sui dettagli più minuti del mondo che ci circondava, sulla natura e sulla umanità. La bellezza acquistava sempre maggiore luminosità e ci avvolgeva nella sua lucente chiarezza ed il male ci appariva come ombra, come assenza di bellezza. Ma il male – in quello stesso istante e grazie alle sue parole – cessava di essere così minaccioso”.
Le sue parole generavano il tempo consapevole dello sguardo attorno…
Lorenzo Matassa