di Salvatore Nocera Bracco

Perché ci si stupisce di questa violenza per le strade? Di questi gruppi di ragazzi riuniti in branco che esprimono questa stessa violenza di cui, ho l’impressione, non sono nemmeno consapevoli? Quando la vediamo in televisione, ci sembra lontana – esattamente come la morte – pertanto non ci riguarda. Quando invece la scorgiamo vicina, nelle nostre strade, praticamente sotto casa, improvvisamente ci preoccupiamo e critichiamo ciò che della nostra rispettabile società civile sembra non funzionare a dovere: recuperiamo improvvisamente una coscienza e un impegno e una responsabilità sociale che fino a quel momento abbiamo del tutto trascurato o dato per scontata. E subito salta agli occhi “l’assenza colpevole delle forze dell’ordine”, il miglior capro espiatorio che abbiamo a disposizione. Ed ecco trovata subito la soluzione, la più facile e conseguente: intensifichiamo i controlli della Polizia e dei Carabinieri. Che ci vuole? Già. Fare il moralista è ancora più facile, mi rendo conto, persino appellarmi a un rigurgito nostalgico di un passato a cui, ultimamente, molti auspicano. Ma ciò che a me salta subito agli occhi, è che l’Autorità ha abdicato. E quando dico “autorità” mi prendo la responsabilità di questa parola abusata e incongruamente collegata a una qualche forma di tirannia, ma di cui si ha un’equivoca percezione. C’è molta differenza tra Autorità, Autorevolezza e Autoritarismo. Le idee a riguardo sono, nel migliore dei casi, molto confuse. Nel peggiore, mancano del tutto. Cos’è l’Autorità? È da anni che sento dire sempre le stesse cose: “C’è stato un periodo nel passato, storicizzato come il ’68, in cui si sono messi in discussione molti valori che garantivano un certo equilibrio sociale. Un cambiamento necessario”. Ma come l’Autorità, anche la Libertà è stata intesa in modo del tutto incongruamente equivoco: un conto è Libertà, un contro è Libertinismo, un conto è non tenere contro delle Regole su cui ogni società è fondata, e che nel loro insieme si chiamano Diritto. C’era molto di obsoleto, evidentemente, di reazionario. Ma alcune conseguenze di questa visione da me interpretata come (pseudo)egalitaria ha creato non pochi eccessi. Un conto è: “pari opportunità”, un conto è “siamo tutti uguali”, indipendentemente dalle capacità, dai talenti, dalle competenze, dal merito. Un conto è: partecipare al mantenimento della comunità con le proprie singole risorse, ognuno per quello che può, un conto è approfittare del lavoro altrui avendo come unico idolo il proprio diritto personale, senza mai menzionare la parola dovere. Troppo facile demandare ad altri la lotta per l’ottenimento dei “propri” diritti, i quali, a ben vedere, si vanno connotando sempre più come privilegi. Ora, aldilà delle polemiche attuali sul “merito”, il diritto, il dovere, eccetera eccetera, oggi più che mai siamo così immersi in un’atmosfera di abituale crisi – sociale, economica, ecologica, umana: istituzionale – che l’unica preoccupazione che abbiamo è la sicurezza, in tutti i sensi. Guardiamo soltanto i fenomeni sociali cercando di quantificarne la loro pericolosità, senza comprenderne le ragioni più profonde che la maggior parte di noi, ormai adulti navigati e saggi, non hanno nessuna voglia di riconoscere, altrimenti saremmo costretti a riconoscere parimenti il nostro fallimento. Noi viviamo, respiriamo una continua crisi di ogni tipo: il Padre in crisi, la Chiesa in crisi, le Istituzioni in crisi, lo Stato in crisi, la Scuola in crisi, la Sanità in crisi, la Politica in crisi. Ma quali riferimenti abbiamo? A quali guide ci riferiamo? Chi sono queste guide? Ma soprattutto: dove sono? E quali sono gli interessi che accompagnano le nostre azioni? Perché ci meravigliamo di questi giovani? Io lo dico a me stesso, che di giovane mi è rimasta l’anima, forse, di sicuro il ricordo. Io, quali riferimenti ho avuto, quali valori mi sono stati insegnati? Mi ricordo, però, che temevo la presenza di mio padre, non perché mi mettesse soggezione, ma mi ricordava le regole a cui dovevo comunque sottostare. Una sorta di disciplina in cui la parola Autorità era coniugata a Rispetto ma anche a Libertà, senza mai rinunciare a esprimere il meglio di me stesso. In ogni caso, nel timore era implicito il riconoscimento dell’autorità di qualcuno, nella forma più efficacemente educativa: l’Autorevolezza, contro ogni forma di Autoritarismo becero e frustrato. E non c’è nemmeno una concezione adeguata di Egemonia culturale, di gramsciana memoria, a cui potersi riferire. Poiché l’egemonia, quella attuale, non è più un insieme di relazioni positive all’interno di una Comunità dentro cui ogni singolo individuo può riconoscersi e dove circolano comunque “pratiche quotidiane e credenze condivise”, e che aspira ad un controllo sociale che dovrebbe permettere, in ogni caso, un giusto equilibrio tra il diritto e il dovere. L’egemonia oggi è una condizione molto alterata e controllata ai social network secondo logiche e intendimenti dentro cui la Relazione educativa è esclusa a priori e per definizione. Già comincio ad intuire un qualche credibile motivo sul perché il concetto di Autorità si sia del tutto eclissato. In mio aiuto viene un pensatore opposto a Gramsci, ma a mio modo di vedere altrettanto stimolante nel suscitare le mie riflessioni: il filosofo Augusto del Noce, che attribuisce proprio alla Scomparsa dell’idea del Padre la crisi di cui il nostro sistema occidentale è completamente immerso, poiché oggi si pone l’accento sulla “opposizione tra l’etimo del termine autorità e il significato che tale termine ha oggi generalmente assunto. Auctoritas deriva infatti da augere, ‛far crescere’. Per comune origine etimologica è connesso con i termini Augustus (colui che accresce), auxilium (aiuto che viene dato da una potenza superiore), augurium (termine anch’esso di origine religiosa: voto per una cooperazione divina all’accrescimento). Se si prendono in considerazione altre lingue, si constata una struttura ideale comune. Così il tedesco auch (anche) è l’imperativo del gotico aukan (accrescere). Nell’etimologia di autorità è dunque inclusa l’idea che nell’uomo si realizza l’humanitas quando un principio di natura non empirica lo libera dallo stato di soggezione e lo porta al fine che è suo, di essere razionale e morale; la libertà dell’uomo, come potere di ‛attenzione’ e non di ‛creazione’, consiste infatti nella capacità di subordinarsi a questo superiore principio di liberazione. Oggi, invece, la sensibilità corrente associa per lo più l’idea di autorità a quella di ‛repressione’, la fa coincidere, al contrario di ciò che l’etimo esprime, con ciò che arresta la ‛crescita’, che vi si oppone.”[1]
Dunque, quando parliamo di giovani, cioè i nostri attuali figli e nipoti, abbiamo davvero la contezza di essere presenti nella loro vita? O siamo stati, e tuttora siamo, quasi completamente assenti? Anche, o soprattutto, come Autorità che aiuta a crescere? Quali valori abbiamo insegnato loro? tanto per una banale enumerazione fine a sé stessa: cosa vuol dire Responsabilità, Generosità, Fedeltà, Libertà, Umiltà, Giustizia, Pace? Cosa vuol dire Relazione, Risorsa per l’altro, Educazione, Sapere, Conoscenza? Cosa vuol dire Emozione? Intelligenza emotiva? La capacità cioè non solo di saper riconoscere ed esprimere le proprie emozioni, ma saperle modulare e gestire? I nostri figli sembrano completamente ignoranti, a riguardo. Ma allora che cosa gli abbiamo insegnato? ’Nsocchi ci metti ‘na pignata ci trovi. (Trad: Quello che metti nella pentola ci trovi – ndr)
Salvatore Nocera Bracco
[1] Augusto Del Noce (1975) – in Enciclopedia del Novecento – Treccani