C’è qualcosa nella vicenda di Enrico “Chico” Forti che ancora oggi – dopo tanti anni – non mi appare chiara.
Non riguarda la sua innocenza e neppure il grado del suo coinvolgimento nell’assassinio del giovane Dale Pike.
In realtà, se si guarda a questa storia non in modo retrospettivo, ci si accorge che l’innocenza o la colpevolezza del Forti diventa secondaria.
Colpevole o innocente, egli ha già scontato più di ventidue anni di detenzione durissima in un carcere della Florida.
Sarò più realista del Re e dirò qualcosa che potrà sembrare eversiva dell’ordine della ragione e dell’idea di Giustizia.
Se quella pena è stata irrogata ad un innocente, questo errore giudiziario ha una sua terribile drammaticità.
Nessuno, però, potrà restituire a “Chico” tutto quello che ha perduto e alleviarlo del dolore inumano che gli è stato inflitto.
Se quella pena è stata applicata ad un colpevole, ebbene, secondo le nostre regole sociali deve essere data al condannato il diritto all’emenda.
In altre parole, nel nostro sistema penale, anche un uomo condannato per un così grave reato può coltivare la speranza di libertà.
Potrebbe sembrare un paradosso, ma è questo il senso della pena finalizzata alla rieducazione e al recupero del condannato.
Fuori da questo fondamentale principio, si legittimerebbe la pena capitale e le carceri diventerebbero luoghi di ingovernabile moltitudine di uomini senza speranza.
In questo momento, quindi, non è mia intenzione esplorare il tema della colpevolezza, ma quello del diritto di un condannato che ha espiato una lunga pena.
La prospettiva cambia il tema del confronto e apre lo scenario alla domanda che fa il titolo dell’odierna riflessione.
Per quale motivo il nostro connazionale si trova ancora in galera in Florida?
Chi ha paura di Enrico “Chico” Forti?
Se si guarda in profondità il diretto interesse degli Stati Uniti d’America a tenerlo ristretto nella galera delle Everglades ci si accorge che, semplicemente, non ha alcuna giustificazione.
Egli non è cittadino americano e il delitto – asseritamente commesso – ha avuto come vittima uno straniero.
Il tempo di detenzione che il Forti ha già scontato è quello di regola inflitto a imputati per uguali delitti in Florida e negli altri Stati dell’Unione americana.
La convenzione di estradizione permetterebbe al Dipartimento di Stato americano di risolvere il problema.
La questione diventa, poi, davvero incredibile se si considera che il Ministro degli Affari Esteri italiano dava per “risolta” la vertenza già due anni fa.
Ed allora cosa impedisce al nostro connazionale di potere tornare in Italia?
Formalmente questa domanda ha una risposta.
L’ufficio del Pubblico Ministero di Miami si oppone a questa possibilità e l’opposizione condiziona tanto il Governatore della Florida che il Dipartimento di Stato.
Dopo ventidue anni dai fatti, l’ufficio inquirente della Contea di Dade pensa ancora che Forti costituisca un pericolo attuale anche se detenuto in Italia…
Questo mi fa riflettere su alcuni aspetti della vicenda per la quale “Chico” fu processato e condannato.
Quando mi furono direttamente narrati, non li ritenni fondati su elementi di certezza e verità tali da potere costituire una causa del complotto ordito contro di lui.
Adesso comincio a rimeditarli sotto altro profilo, proprio alla luce del timore manifesto per la sua possibile liberazione con il ritorno in patria.
Di certo vi è solo che nessun processo si è mai celebrato, in Italia, per l’assassinio di Gianni Versace (il cui corpo fu cremato con una inusuale fretta).
E quel colombo con gli occhi trafitti dagli spilli, rinvenuto vicino al corpo dello stilista, non troverà mai alcuna giustificazione…
Lorenzo Matassa
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