Sono oramai cinque anni che mi occupo di ciò che è stato definito dal legislatore “Codice Rosso”.
Sembra sia stato chiamato così assimilando il “triage” del pronto soccorso a quello giudiziario.
In altri termini, le violenze domestiche e di genere (contro donne o minori) – dal 9 agosto 2019 – hanno, nel nostro Paese, una specie di corsia preferenziale, esattamente come quelle dei nostri ospedali…
Se una investigazione ed un procedimento vengono riconosciuti in “Codice Rosso”, ebbene, scattano una serie di urgentissime misure e – soprattutto – si attiva un complesso di pesanti effetti, sia in termini cautelari che per esito di condanna.
Bene, fin qui tutto (quasi) normale.
Certo, ce ne ha messo di tempo l’Italia a comprendere che le categorie deboli devono essere difese con priorità proprio a ragione del fatto che non sanno (o non possono) difendersi per causa della loro stessa debolezza.
Scusate la ridondanza, ma è esattamente così.
Adesso si parla tanto di “femminicidio”, come se fosse una nuova moda criminale, allorchè di donne assassinate ne vidi già quaranta anni fa, all’inizio del mio viaggio – in perenne salita – nel mondo imperscrutabile della Giustizia italiana.
Detto questo, vi chiederete a cosa esattamente questa premessa voglia condurre.
Esaudirò il vostro dubbio in poche battute e – come nella canzone di Vasco Rossi – cercherò un senso a ciò che in questo “Codice Rosso” un senso non ce l’ha.
Come nelle migliori tradizioni del nostro beneamato Paese, la creazione delle nuove norme non ha corrisposto ad un uguale miglioramento delle strutture giudiziarie che quelle norme devono applicare.
Per effetto di questo mancato adeguamento, i giudici che si occupano della materia sono letteralmente sommersi da fascicoli – tutti in priorità emergenziale – in cui è, il più delle volte, impossibile discernere la lite coniugale dal prodromo dell’omicidio.
Per dirla tutta, il giudice del “Codice Rosso” – nella maggioranza dei casi – si trova davanti ad una specie di format televisivo del tipo “Uomini e Donne” in cui è facile sentirsi una Maria De Filippi in toga.
Senza nulla togliere alla famosa e brava conduttrice televisiva, il problema non è tanto nell’evitare di essere colpiti dai piatti che quelle parti (idealmente) continuano a tirarsi anche davanti al giudice.
Il problema, grave, è quello che tra le tanti liti inutili, spesso, si nasconde quella che porterà al sanguinario delitto.
La cosa che mi stupisce ancora, dopo tanti anni di applicazione di questo rito, è ascoltare il racconto drammatico di molte vittime.
Offesi nella loro più profonda intimità, questi uomini e donne – alla domanda sul perchè abbiano tollerato tutto questo – rispondono sempre alla stessa maniera:
“L’ho fatto per amore…”
Così, quando li sento fare quella triste ed insensata affermazione, cerco di far capire loro che “l’amore è un’altra cosa…”.
Già… l’amore è l’opposto della violenza, ma di essa si fa involontario strumento di trasporto.
Aveva ragione Tony Kushner allorchè assumeva che l’amore è l’infinita mutevolezza del mondo.
In esso si intrecciano l’odio, le menzogne e persino l’omicidio.
È l’inevitabile fioritura dei contrari, una rosa magnifica dal tenue sentore di sangue.
Allo stesso modo in cui dice il vero Ivano Fossati quando scrive che “un finale andrebbe guardato sempre dalla sponda di un letto e riletto cento volte, in cento anni, fino a poterne parlare senza affanni…”
Già… dovrebbe essere così anche per i giudici che quel finale dovranno scrivere…
Lorenzo Matassa