Era l’anno 2011 quando dalle pagine di questo giornale lanciavamo l’allarme su come l’informazione – spesso fai da te – la dimensione dei nuovi spazi e la velocità stessa con cui mutava, rischiasse di proporre nuovi scenari di strategia della tensione, con metodi e mezzi tanto innovativi che stentavamo a comprendere.
Una “nuova resistenza globale” della quale avevamo compreso le potenzialità di un’informazione senza confini, capace di mettere in contatto mondi e persone tanto distanti fra loro, quanto diverse.
Seguivamo i gruppi che nascevano sui social network, a volte anche anticipando le rivolte, narrando di come la nuova strategia della tensione avesse abbattuto i confini che i governi si erano dati.
La parola d’ordine, per tutti era “Freedom”. Cosa c’era dietro questa libertà? Nessuno di noi era ancora in grado di dirlo, ma quello che ci appariva certo, il fatto che quella nuova resistenza, poteva rappresentare la terza filosofia di pensiero di un nuovo movimento di lotta che sarebbe stato inficiato da governi e terroristi che avevano scoperto le potenzialità di un mondo che è meno virtuale di quanto non possa sembrare.
Dalla rivolta, più o meno motivata e pilotata, al dilagare del terrorismo internazionale, scrivevamo che il passo poteva essere molto più breve di quanto non s’immaginasse. Passarono meno di due anni, e nacque l’Isis.
Oggi si discute molto di libertà, di censura, del fatto che Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, sia stato bannato dai social dopo quanto accaduto il 6 gennaio a Washington, dove centinaia di sostenitori di Trump hanno assaltato il Campidoglio interrompendo la ratifica della vittoria di Joe Biden e causando morti e feriti.
Se è pur vero che lasciare la possibilità a privati di zittire un capo di Stato sia molto discutibile per l’uso che in futuro si potrebbe fare di tale possibilità, altrettanto vero è che dovremmo seriamente cominciare a chiederci quanto sia giusto lasciare la possibilità a estremisti di seminare odio e tentare di sovvertire con la violenza un sistema democratico, per quanto imperfetto questo possa essere.
È di oggi la notizia che Twitter ha annunciato di avere sospeso 70.000 account di affiliati alla setta di QAnon – fedelissimi supporter di Trump – per evitare che gli stessi potessero inneggiare ad altri episodi di violenza analoghi a quelli accaduti a Washington la scorsa settimana. La stessa cosa si appresta a fare Facebook.
Ancora una volta ci sarà chi condannerà queste forme di censura, dimentico del fatto che si tratta delle stesse misure adottate contro i predicatori di odio dell’Isis.
La replica a quest’affermazione sarebbe quasi certamente quella che Trump non può essere considerato un terrorista.
Siamo certi che un presidente “poco sereno” mentalmente – e a capo di una potenza nucleare – sia meno pericoloso di un fanatico armato di Kalashnikov?
Nonostante la riprovazione e la condanna di molti capi di stato per i fatti di Washington, Trump gode ancora di simpatie in alcune nazioni, compreso la nostra, dove alcuni profili legati a QAnon sono improvvisamente scomparsi dai social network.
Tra i politici stranieri che fanno il plauso all’uscente presidente americano, “vittima di una frode elettorale”, Vladimir Putin, presidente della Federazione Russa.
È di ieri l’articolo di RT, precedentemente chiamato Russia Today, il canale televisivo satellitare russo diffuso a livello mondiale, megafono del Cremlino, dal titolo “Unione di censura di democratici e giganti della tecnologia”.
Già l’incipit dell’articolo chiarisce subito al lettore quale sia la posizione politica di chi scrive: “Nonostante le lamentele degli smidollati media americani, il vero colpo di stato di questa settimana non è stato compiuto dai sostenitori del presidente Trump, ma dai suoi oppositori. In questo momento stanno scrivendo una moderna istruzione per il cambio di regime, ed è già pronta per l’esportazione in altri paesi. I sostenitori del presidente Trump che hanno fatto irruzione in Campidoglio mercoledì non agivano come una forza unita che cercava di prendere il potere. Si sono fatti selfie, hanno rubato ricordi e si sono impegnati in piccoli atti di vandalismo.”
Inutile ricordare che per molto meno di quei “piccoli atti di vandalismo”, nella democratica Russia di Putin le forze dell’ordine avrebbero seminato molti morti tra i dimostranti. Inutile ricordare gli oltre 250 giornalisti russi uccisi o scomparsi e i dissidenti avvelenati anche al di fuori della Federazione Russa. Ma Zar Putin è un democratico.
Un democratico il cui rappresentante ufficiale del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, abituata alla democrazia del suo Paese, ha giustamente dichiarato: “Questo è un affare interno degli Stati Uniti. Allo stesso tempo, richiamiamo nuovamente l’attenzione sul fatto che il sistema elettorale negli Stati Uniti è arcaico, non soddisfa i moderni standard democratici, creando opportunità per numerose violazioni, e i media americani sono diventati uno strumento di lotta politica. Questa è in gran parte la ragione della scissione nella società che si osserva ora negli Stati Uniti”.
La caduta di Trump, di cui proprio Putin è stato uno dei maggiori sostenitori, si è trasformata in un’altra occasione per attaccare gli Stati Uniti, tant’è che il capo della commissione per gli affari internazionali del Consiglio della Federazione, Konstantin Kosachev, ha sostenuto che “la celebrazione della democrazia (americana – ndr) è finita. Questo, ahimè, è proprio il fondo, lo dico senza ombra di gongolante. L’America non traccia più una rotta verso la democrazia, e quindi ha perso tutto il diritto di impostarla. E ancora di più da imporre agli altri. La democrazia americana ovviamente zoppica con entrambi i piedi.”
Ma nel gioco del Giano Bifronte del Cremlino, non potevano mancare dichiarazioni per valutare positivamente (magari solo in Russia) la censura applicata dai social network nei confronti del presidente americano, come quella del vice della Duma di Stato Anton Gorelkin:
“Si può dire con un alto grado di fiducia che se il presidente perdente non avesse avuto accesso indipendente a un vasto pubblico, questi eventi non sarebbero accaduti. Questa è forse la prima volta che penso che bloccare [gli account dei social media] sia la politica corretta. Le dichiarazioni avventate del presidente uscente hanno già provocato vittime umane. Qualche tweet e la folla assalta il Campidoglio. Sarebbe bene per [Trump] tacere fino a quando le rivolte non si saranno calmate”.
Quello che dovrebbe ancor più far riflettere, è quanto dichiarato dal Capo della commissione per gli affari internazionali della Duma di Stato Leonid Slutsky in merito all’instabilità mentale di Trump e alla sua pericolosità:
“Il boomerang delle rivoluzioni colorate è tornato negli Stati Uniti. I disordini a Washington potrebbero portare a una crisi del sistema di potere americano. La società americana è stata divisa in due. Sebbene i Democratici abbiano prevalso non solo nelle elezioni presidenziali, ma abbiano anche mantenuto la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, difficilmente si può dire la stabilità del sistema politico statunitense. È sbilanciato in una situazione in cui la legittimità delle elezioni presidenziali è contestata da tanti cittadini.
I disordini gettano certamente un’ombra sull’intero processo di transizione democratica. Anche nel suo videomessaggio di oggi (data della pubblicazione delle dichiarazioni), il presidente Trump ha dimostrato di non essere sano di mente e di non essere in grado di accettare i risultati delle elezioni del 2020. La disponibilità del presidente Trump a provocare violenza e disordini sociali per ribaltare con forza un’elezione è chiaramente in linea con questo standard. L’instabilità in qualsiasi (Paese – ndr), soprattutto nella più grande potenza nucleare, nasconde sempre possibili minacce alla pace mondiale”.
Dinanzi l’allarme lanciato dall’Fbi, secondo il quale tutti i Parlamenti dei 50 Stati Usa sarebbero potenziali obiettivi di attacchi armati da parte di supporter di Trump, compresi suprematisti e appartenenti a QAnon (considerati quali possibili artefici di episodi di terrorismo interno) possiamo discutere quanto vogliamo sulla legittimità di cancellarne gli account, compreso quello di chi li spinge alla violenza, ma a questo punto dovremmo chiederci se è stato legittimo farlo nei confronti di tanti altri estremisti.
Non è neppure il caso di soffermarsi sull’instabilità mentale di Trump e sul pericolo che il presidente di una potenza nucleare in queste condizioni possa rappresentare per la pace mondiale.
Forse ha ragione il vice della Duma di Stato Anton Gorelkin, nel dire che i social network devono funzionare secondo regole rigorose nel quadro della legge, perché l’assoluta libertà di informazione sta diventando un’arma degli estremisti. E gli estremisti, non sono soltanto i terroristi islamici, ma anche quelli che in casa nostra invitano a compiere atti violenti o sovvertire comunque il sistema democratico, che per quanto immaturo e imperfetto sia, rimane comunque migliore rispetto le tante dittature.
“La democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre” (Winston Churchill)
Gian J. Morici