In vista del 100° anniversario della fondazione del Partito Comunista d’Italia – Sezione della III Internazionale, un po’ tutti cercano di lucrare “politicamente” sull’evento. Tutti, dagli estranei, ai nemici dichiarati, dagli ex – ex “comunisti” o “ex” democristiani – ai “sinistri riformisti”, ai “sinistri radicali”: tutti (o quasi) a battersi il petto per le “lacerazioni profonde” della scelta fatta il 21 gennaio 1921. Tutti – tranne, forse, i partitucoli che, rannicchiati nelle proprie parrocchie e senza alcun legame con la classe operaia, si proclamano comunisti – a piangere per il “peccato originale” commesso a Livorno. Tutti a discettare sulla “tragedia” consumata nel dar vita al Partito comunista, che rompeva con la II Internazionale scaduta nell’opportunismo e nel social-sciovinismo, per aderire alla III Internazionale, comunista e rivoluzionaria. Tutti, in ogni caso, concordi nel ribadire che “Non bisognava staccarsi dal PSI”.
E come mai non ci si doveva staccare? Qui, secondo la fazione della classe dominante cui fa riferimento, ognuno sfoggia un diverso “angolo visuale”; ma, di nuovo, il denominatore è comune: guai a guardare oltre le colonne d’Ercole della democrazia borghese, l’unica “verità” nota al di là della quale vi è solo la “dittatura comunista”, il “terrore stalinista”, l’incubo dei «diktat della III Internazionale», che imponeva la «rottura con il riformismo».
Dunque, dalle «dannazioni» per «la divisione della sinistra italiana» dei Mauro, ai «cantieri della sinistra» dei D’Alema, dai Renzi in combutta con quel Tony Blair che bombardava a destra e a manca, fino ai tirapiedi del «volevamo combattere il mostro, e abbiamo creato un mostro ancora peggiore», è un unico coro, pur con apparenti diverse tonalità, del «non si doveva fare la scissione». Un coro unito al vocalizzo de «la scissione favorì la presa del potere fascista» che, nei più “studiati”, va in parallelo con l’anatema lanciato contro i comunisti tedeschi di «aver spianato la strada a Hitler», per aver presentato (ovviamente, «su ordine di Mosca») un proprio candidato, Ernst Thälmann, alle elezioni del 1931, contrapposto al candidato della SPD. Di quella SPD che, da oltre dieci anni, varava misure antioperaie, proibiva scioperi, faceva stragi nei cortei operai, chiudeva sedi comuniste; quella SPD che aveva respinto ogni appello della KPD al fronte unico contro il governo nazista.
Ma vaglielo a dire, oggi, a quei “visionari” che cent’anni fa vollero costituire il Partito comunista e che anzi ritenevano si fosse in ritardo, rispetto alla crisi rivoluzionaria italiana e all’avanzata della reazione fascista; mentre, per stare «al passo coi tempi», ed esserlo anche cent’anni dopo, avrebbero dovuto pensare a un «socialismo etico» e dar retta al “Avanti!”, che il 22 maggio del ’21 predicava di «Non resistere!» e di «porgere l’altra guancia» alle camice nere.
Ma di cosa parlano quei sapientoni, quando accusano i comunisti di aver «favorito, con la scissione, la presa del potere fascista»? Nel giugno del ’21, Antonio Gramsci scriveva che «I socialisti non si sono mai posti seriamente la questione della possibilità di un colpo di stato e dei mezzi da predisporre per difendersi e per passare all’offensiva…Ma se l’insurrezione del proletariato venisse imposta dalla volontà dei reazionari, che non possono avere scrupoli “marxisti”, come dovrebbe comportarsi il Partito socialista? Lascerebbe, senza resistenza, la vittoria alla reazione? E se la resistenza fosse vittoriosa, se i proletari insorti e armati sconfiggessero la reazione, che parola d’ordine darebbe il Partito socialista: di consegnare le armi o di continuare nella lotta fino in fondo?».
E, appena due mesi prima, aveva affermato che «La scissione di Livorno avrebbe dovuto avvenire almeno un anno prima, perché i comunisti avessero avuto il tempo di dare alla classe operaia l’organizzazione propria del periodo rivoluzionario nel quale vive. … I socialisti non hanno compreso come da qualunque incentivo, in qualunque momento la lotta delle classi si possa convertire in guerra aperta, la quale non può finire che con la presa del potere da parte del proletariato».
Parole blasfeme, queste, perché “Non bisognava staccarsi dal PSI” e, soprattutto, perché evocano la “satanica” dittatura del proletariato, da esorcizzare con l’acquasantiera di una dalemiana «società in grado di riformare il capitalismo».
Dunque: fu un perfido crimine quello dei comunisti tedeschi, ma non era stato da meno “l’errore” dei comunisti italiani, gli uni e gli altri fedeli a «una Chiesa» che «condannò le eresie», «istituì la Santa Inquisizioneper debellare le deviazioni» e infine «privò miliardi di persone della libertà»: roba da far invidia alle appena “decine di milioni” di un Conquest o di un Solženitsyn.
Si arriva così, in un crescendo “Riformista”, alla conclusione sacerdotale de «la storia ha dato ragione a Turati (“gli scorcioni non servono; la via lunga è anche la più breve, perché è la sola che esista”)». Al dunque! Eccoci giunti al nodo di questa “sinistra moderna”, “all’altezza delle sfide di questo nuovo secolo”: cent’anni buttati via! Cent’anni per poi “dover” tornare al punto di partenza! Inutile girarci intorno: non servì a nulla un secolo fa, e tantomeno serve oggi un Partito comunista. Oggi che, al contrario, si deve stare tutti uniti nella “Sinistra”, una sinistra che “attui le riforme”, che spieghi ai poveri (termine con cui, da sempre, liberali, gesuiti e riformisti indicano con compatimento la classe operaia) come l’ordine capitalista sia “l’unico possibile”: basta solo smussare le “ingiustizie” più smaccate, per convincere quei poveri del “diritto naturale” alla proprietà privata dei mezzi di produzione e che, cristianamente, «le disuguaglianze sociali tornano di vantaggio comune».
Roba da strabuzzare gli occhi: cent’anni fa, il riformista, il social-patriota, il menscevico-attesista Filippo Turati pensava che “la via lunga” fosse “la sola” per arrivare al suo socialismo. Cent’anni dopo, ecco che, da bravi “Italianieuropei”, si predica un «cantiere della sinistra» per la «ristrutturazione di un suolo pieno di edifici cadenti e desueti»; si impartiscono lezioni sul bisogno di «una nuova forza politica con un progetto di riforma del capitalismo che renda possibile il contenimento delle diseguaglianze».
Turatiani e menscevichi rimarrebbero probabilmente allibiti dalle giaculatorie di questi signori, che singhiozzano perché “la democrazia liberale” non riesce più «né a mitigare le disuguaglianze né a far funzionare l’ascensore sociale». Toh bella! Il capitalismo è in crisi irreversibile, ma quei signori pensano che, con qualche ritocco, riesca ancora a «mitigare le disuguaglianze».
Dunque, solo dei “visionari” possono pensare a dargli una sonora spallata, mentre le “forze responsabili” si adoperano, tutte insieme, in un abbraccio patriottardo interclassista, per “mitigare”, “contenere”, “riformare”, “far funzionare”…
Qui non si tratta né di “scorcioni”, né di “vie lunghe” turatiane: qui si decreta che il capitalismo è l’unico sistema cui si possa aspirare nei millenni a venire. Che tutti se ne facciano una ragione e si «confederino» nelle «diverse culture democratiche e riformiste». Altro che pensare al Partito comunista, al partito della classe operaia: il 21 gennaio 2021 si decreti che «la storia ha dato ragione a Turati» e non se ne parli più!
D’altronde, non è che si possa pretendere di più da una loggia di funzionari di banche, nostrane e d’importazione, di affiliati a consorterie transnazionali quali UE, NATO, Trilateral, Bildeberg,Ernst & Young; da un azionariato di bombardieri anti-jugoslavi e anti-libici, di apostoli delle democrazie golpiste latino-americane, ucraine, bielorusse e di là da venire; da una prepositura di fieri smascheratori di “foibe titine” e “crimini stalinisti”; da una centuria di capintesta degli interessi padronali e manipoli di “prenditori”, liberi professionisti, padroni e padroncini.
Che poi quei galantuomini, i quali, in nome del “bene della nazione”, scacciano come satana il nome di comunista, esorcizzano persino il tenue socialismo turatiano; i quali arringano neo-nazisti dalle piazze ucraine e concedono patrocini e sale istituzionali ai fascisti italici di “Progetto Dinamo” e “Lealtà e Azione” varie; che quei gentiluomini abbiano necessità di presentarsi come “sinistra”, è cosa tanto vomitevole quanto indispensabile alla politica antipopolare di cui da anni sono co-sceneggiatori e co-protagonisti, in alternanza sincronizzata con la destra che non abbisogna di travestimenti, nel true crime contro operai e masse lavoratrici, fatto di disoccupazione e precarietà, privatizzazioni, tagli a salari e spesa pubblica, “ordine pubblico” e missioni di guerra.
Quegli onorati individui possono pure continuare a presentarsi come la “sinistra”; possono addirittura minacciare, dalle Logge dei “gigli magici” fiorentini, che nel 2021 «celebreremo l’anniversario della scissione di Livorno con un grande evento con tanti giovani, dove inviterò Tony Blair. Perché la sinistra o è riformista o perde»; possono persino evocare lo spirito di «un partito nuovo. E con un po’ del Pci», per raccattare ritagli e scampoli di “prenditori” in cerca di nuovi portavoce politici; possono fare tutto questo: maquel “riformismo” bancario e quel “centrismo” massone parlano per loro; decenni di loro scelte parlano in loro vece.
Per giudicare e valutare la natura autentica di questa o quell’altra consorteria liberal-riformista, è sufficiente guardare ai suoi obiettivi strategici e tattici; agli interessi di classe contenuti nei suoi programmi; quali settori sociali vengano attaccati da quelle scelte e quali ne beneficino; quali soggetti abbiano brigato per dar vita, e a quale scopo, al dato partito. È sufficiente analizzarne la composizione sociale, specialmente nelle sfere dirigenti: quali classi e settori sociali siano prevalenti e ne orientino le scelte.
Chiaro, che una tale “sinistra”, che pretende di dare giudizi sulla scelta di Livorno, mette «al centro l’impresa», invoca gli «interessi della nazione» e «degli italiani» senza distinzioni di classe e aspira a «riformare il capitalismo», non può che annoverare nelle proprie file “imprenditori illuminati” e sacerdoti di un malinteso «ascensore sociale».
I comunisti, che lottano per l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, per la fine dello sfruttamento capitalistico, per la dittatura del proletariato, per il socialismo; i comunisti, che una tale “sinistra” la combattono in quanto nemica della classe operaia, rivendicano la giustezza e la necessità storica della scelta fatta cent’anni fa a Livorno e proclamano che la necessità di un Partito della classe operaia, di un Partito comunista, sia oggi più che mai attuale e che sia indispensabile operare per la sua formazione.
I comunisti sostengono che anche nella sua composizione, il Partito della classe operaia debba distinguersi dalle confraternite seminaristiche di quella “sinistra” ed essere parte integrante e dirigente della propria classe di riferimento, debba raccogliere nelle proprie file la parte più avanzata e più determinata della classe operaia ed essere «in simbiosi» coi settori più coscienti della classe operaia, di quella classe con la quale non si invochi di «mitigare le disuguaglianze», ma ci si organizzi per abolire la radice stessa di ogni disuguaglianza: la divisione della società in classi.
Questo è il Partito che i comunisti, oggi, hanno il compito di ricostruire, in legame stretto con la classe operaia e le sue lotte.