Un anno e dieci mesi di reclusione – pena sospesa – sono stati inflitti dai giudici della prima sezione penale del Tribunale di Agrigento, presieduta da Alfonso Malato, al quarantaduenne Giovanni Arena, accusato di violenza sessuale nei confronti di una ragazza agrigentina – difesa dall’avvocato Giovanni Crosta – all’epoca dei fatti contestati, commessa apprendista del negozio Tata del centro commerciale Città dei Templi.
Il pubblico ministero Cecilia Baravelli, aveva chiesto per l’imputato la condanna a 3 anni e 6 mesi di reclusione.
Una vicenda delicata che vede una giovane donna vittima di avance sul lavoro che si sono ben presto trasformate in episodi di violenza sessuale.
Approcci, palpeggiamenti e struscii, ricostruiti in aula dalla giovane, che risalgono al periodo in cui la stessa lavorava nel negozio del centro commerciale Città dei Templi, dove l’Arena rivestiva il ruolo di capo area.
La donna, che era stata assunta con un contratto a tempo determinato di 36 mesi, ha raccontato delle molestie, della resistenza opposta, delle lettere di contestazione ricevute e della paura di perdere il lavoro – cosa che poi avvenne per mancato rinnovo del contratto – per non aver assecondato i desideri del suo superiore.
Troppi casi e poche denunce
Nel nostro Paese, ogni anno vengono presentate circa quattromila denunce per violenze sessuali, ma quanti sono in realtà i casi? Il numero reale sembra essere di gran lunga superiore, visto che secondo l’Istat – escluse le vicende accadute in ambito familiare o commesse da ex partner – oltre il 90% delle vittime non denuncia le violenze subite.
Un dato ancor più allarmante è quello che emerge dal mondo dell’immigrazione, dove il 100% delle donne straniere – secondo uno studio pubblicato negli scorsi anni – se l’autore delle violenze è un cittadino italiano, rinuncia a presentare denuncia.
In ambito lavorativo quasi l’8% delle donne ammette di aver subito ricatti sessuali, ma tra queste soltanto lo 0,5% decide di denunciare le molestie e le violenze subite.
Oltre l’80% non ha mai confidato neppure alle persone più intime quello che avveniva nell’ambiente di lavoro.
Il più delle volte, si ha il timore di perdere il lavoro – spesso unica fonte di sostentamento di una famiglia – di non essere credute, di dover affrontare lunghi processi nel corso dei quali la vittima è costretta a rivivere le violenze, e dal dovere difendersi dai tentativi di far comparire come vittima il molestatore. Si tratta di giovani donne – o donne in difficoltà – che subiscono a denti stretti maltrattamenti, molestie e umiliazioni da parte di superiori gerarchici dai quali dipende il loro posto di lavoro.
Oltre il 30% delle lavoratrici che hanno denunciato molestie e violenze in ambito lavorativo, finiscono con il cambiare lavoro o rinunciare alla carriera, mentre più del 10% con una scusa qualsiasi vengono licenziate. Paradossalmente il licenziamento riguarda più le vittime che i carnefici, poiché soltanto nel 6% dei casi, i molestatori sono stati costretti ad abbandonare il posto di lavoro.
Il 20% delle denunce presentate non produce alcun effetto, lasciando sola la vittima costretta poi a lavorare in un ambiente ostile dove anche colleghi e colleghe la isoleranno per timore di ritorsioni da parte dei superiori.
Spesso sono infatti i vertici delle aziende o degli enti presso i quali si verificano questi episodi a minimizzare l’accaduto, cercando di ricondurre le avance, le umiliazioni e persino le violenze (come nel caso dei palpeggiamenti o del toccare i genitali) ad atteggiamenti confidenziali e scherzosi in ambito lavorativo.
L’imbarazzo, il non sapere come rispondere a una proposta indecente o reagire dinanzi un palpeggiamento, vengono letti come un atteggiamento di accondiscendenza, di consensualità, senza invece considerare i problemi della vittima nell’affrontare momenti di difficoltà con la consapevolezza di mettere in gioco il posto di lavoro, di dover poi spiegare al partner o in famiglia il perché ci si è licenziate o si è state licenziate, e nel caso di una denuncia, il dover portare addosso lo stigma che trasforma la vittima in carnefice impedendole di trovare altre occasioni di lavoro.
Spesso ci chiediamo perché una vittima non denuncia fin da subito questi comportamenti; perché lo faccia dopo mesi o anni. Quanti si chiedono invece quali sono le condizioni familiari ed economiche di chi subisce? Quanti si chiedono quante siano le probabilità che colleghe che lavorano nella stessa azienda siano disposte a testimoniare?
Tutto ciò, senza considerare che talvolta anche la semplice segnalazione di comportamenti ritenuti scorretti, comunicata ai vertici aziendali, anziché produrre gli effetti desiderati, può dar luogo a reazioni inaspettate. È il caso di questa giovane agrigentina, che avendo segnalato ai vertici dell’azienda quanto accadeva, sarà chiamata a rispondere del reato di diffamazione a seguito della querela presentata a suo carico dal suo ex capo area.
La condanna a carico dell’Arena non è ancora definitiva – e dunque per lui come per chiunque altro vale la presunzione di innocenza – ma la perdita del posto di lavoro, l’aver dovuto rivivere quanto accadeva nel negozio nel quale lavorava, il portare addosso lo stigma di chi denuncia e le difficoltà nella ricerca di un lavoro come quello che aveva presso un’azienda nazionale, non sono già queste delle condanne?
Ad aprire a nuove prospettive nel caso di simili episodi in ambito lavorativo, una sentenza emessa dal Tribunale di Milano in favore di una lavoratrice che si è costituita parte civile in un procedimento penale scaturito da ripetuti atti di violenza psicologica e molestie sessuali. Il Tribunale ha infatti ritenuto anche la società datrice di lavoro, unitamente all’imputato, civilmente responsabile dei danni subiti dalla parte offesa.
Una sentenza che si spera possa portare a un maggior senso di responsabilità e di attenzione da parte dei datori di lavoro, in presenza di lamentele esplicitate da lavoratrici.
Gian J. Morici