La storia della schiavitù è antica e documentata in diverse civiltà. Egizi, Aztechi, Greci, Incas, Romani, possedevano schiavi; esseri umani, proprietà di altri uomini, costretti a lavorare per niente.
Gli Stati Uniti, aboliranno la schiavitù soltanto con la “Dichiarazione di emancipazione”, pronunciata dal presidente Abramo Lincoln il 1° gennaio 1863.
Se ufficialmente l’abolizione della schiavitù nei cosiddetti paesi civili la si fa coincidere con la firma del tredicesimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, durante il moderno periodo coloniale del continente africano, la “missione civilizzatrice” dei popoli relativamente arretrati dell’Africa subsahariana, si trasformò ben presto nello sfruttamento delle risorse naturali e dei popoli del continente.
Uno sfruttamento che continua ancora oggi ad opera delle multinazionali appoggiate dai governi occidentali.
Esiste oggi una condizione di schiavitù nei Paesi civili?
Se nel continente africano ben poco è cambiato rispetto l’epoca del colonialismo moderno, in Europa, negli Stati Uniti e in altri continenti, apparentemente la schiavitù è stata abolita.
Nella realtà dei fatti, abolite le catene, la cattura di indigeni e quanto altro caratterizzava la tratta degli schiavi, oggi ci troviamo dinanzi alla tratta di esseri umani provenienti da vari paesi introdotti al mondo della prostituzione da organizzazioni criminali.
A questo fenomeno, si aggiunge un crimine di scelta, ovvero quello di tante persone, in prevalenza donne, apparentemente libere di decidere della loro vita, che vengono costrette dalle famiglie originarie a lasciare il proprio paese per sposare un uomo, spesso più anziano di loro, che finirà con asservirle alla propria volontà, sfruttandole come fonte di reddito (basti pensare a quante di loro sono costrette ai lavori più umili dando al marito la totalità del ricavato) o assoggettate a forme di schiavitù sessuale.
Abbiamo abolito il linguaggio disumanizzante della parola schiavo, per sostituirlo con quello di persona asservita.
Se la tratta di esseri umani è considerata un crimine punito dalle leggi dei nostri paesi, il matrimonio – spesso imposto alla futura sposa dalla stessa famiglia – non può essere punito. Il matrimonio no, ma quello che ne consegue in termini di violenze e sfruttamento, quello sì che può essere punito.
Eppure, le lungaggini giudiziarie, le mille problematiche che una straniera si troverà a dover affrontare, a partire dal rinnovo del permesso di soggiorno che spesso viene ostacolato, finiscono con l’indurre le malcapitate ad accettare anni di violenze per non essere costrette a tornare nel paese d’origine dove, oltre a dover rifarsi una vita partendo da zero, dovrebbero affrontare i problemi con quei familiari che avevano imposto, o forzato, quell’unione coniugale non desiderata.
Quando la “donna asservita” (evitiamo di utilizzare il brutto termine “schiava”) trova il coraggio di denunciare il marito, si trova costretta a fare i conti con una realtà imprevista: “lei così giovane ha sposato un vecchio, perché lo ha fatto?”
Perché non chiedersi come abbia fatto lui a sposare una donna con la metà dei suoi anni? Da vittima, dunque, la donna diventa agli occhi di tutti, Istituzioni comprese, la carnefice. Poco importa quante violenze abbia subito, come sia stata sfruttata, quante umiliazioni, la colpa è di lei e soltanto di lei.
L’ennesimo caso di presunti maltrattamenti, è quello di una moglie trentatreenne di origini marocchine che sarebbe stata aggredita dal marito, un sessantacinquenne agrigentino. Il fatto è avvenuto al Villaggio Mosè, ad Agrigento, nella giornata di ieri. La donna, affacciatasi al balcone di casa, ha iniziato ad urlare chiedendo aiuto. Trasportata al pronto soccorso ha raccontato agli agenti di polizia i motivi della lite e il fatto che il marito detenesse delle armi, successivamente rinvenute e sequestrate.
Per l’uomo è scattata una denuncia, in stato di libertà per l’ipotesi di reato di detenzione ingiustificata di armi improprie e maltrattamenti in famiglia, mentre la donna, dopo i controlli sanitari, è stata trasferita in una struttura protetta.
Una vicenda che ricorda quella di Fatma Amdouni, il cui processo contro il marito è tuttora in corso. Secondo il Pubblico Ministero che aveva chiesto il rinvio a giudizio del marito, questi, con numerose e reiterate condotte sottoponeva la moglie a maltrattamenti di natura fisica e psicologica tali da cagionarle penose condizioni di vita, offendendola con espressioni volgari e ingiuriose.
Inoltre, nel periodo dal 17 settembre 2012 al febbraio 2013, l’uomo si sarebbe allontanato dall’abitazione coniugale, facendo mancare i mezzi di sostentamento alla propria compagna. Il Pubblico Ministero, nella richiesta di rinvio a giudizio riporta – in danno della Amdouni. – ulteriori ingiurie, minacce, e percosse che avrebbero causato lesioni personali consistite in trauma policontuso con trauma cranico facciale. di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali, aggravate dall’essere state commesse per eseguire un altro reato.
Anche in questo caso, la differenza di età tra il marito agrigentino e la moglie tunisina era notevole e le continue liti all’interno della coppia erano state oggetto di interventi da parte delle forze dell’ordine.
Qualcuno si chiederà mai quanta libertà di scelta c’è dietro queste unioni coniugali e quale la differenza con il colonialismo moderno, quando una giovane ragazza si comprava (e si compra tuttora) in un villaggio con un paio di capre?
Gian J. Morici