Ci sono situazioni che mettono a dura prova la nostra capacità di riflettere in maniera democratica.
Io, che non sono cattolico, non credo che la sofferenza e il dolore siano uno strumento che dio o chi per lui usano per testarci e per rafforzare la nostra fede. Credo che il dolore inflitto e subito dagli uomini sia un atto di semplice barbarie, un ritorno alle origini, quando gli uomini di Neanderthal si massacravano a bastonate per il controllo del territorio. Eppure anche quando nella nostra progredita società si manifestano episodi terribili, di cui abbiamo esempi quotidiani, lo sforzo di capire e di essere “giusti” è più importante.
Non sto pontificando. Lo dico a me stesso, perché la tentazione di pensare che il suicidio di Marco Prato sia una liberazione per la società è forte. La pancia mi dice questo, lo urla se possibile. Dice che se ammazzi un povero ragazzo con 107 coltellate e martellate solo per divertimento, non puoi far parte della nostra società. Ma. Ma la soluzione non è il suicidio, né il taglione. La soluzione è un processo: giusto, equilibrato, rapido. E invece dopo quasi un anno e mezzo dai fatti Marco Prato non aveva avuto un processo, né giusto né ingiusto, e ben due volte aveva visto sfumarne l’inizio per scioperi di vario tipo.
Chissà. Forse non ha retto più, forse la vergogna e la mancanza di espiazione insieme hanno reso intollerabile la sua permanenza in vita. O forse qualcuno ha ritenuto che non fosse degno di vivere chi aveva commesso un reato così orrendo, perché in carcere succede. Comunque sia, Prato era colpevole di un delitto contro dio e contro gli uomini, ma anche creditore verso la nostra società. Se vogliamo poter giudicare, dobbiamo anche farlo con equità.
Rodocarda