Tra le molte stranezze e le molte ovvietà del “caso De Luca” ce n’è una che non sembra interessare troppo i detentori dello “jus sputtanandi” che stavolta sembra (dico sembra, perché…) aver colpito un bersaglio inconsueto. Anzi ce ne sono due.
Gli ingredienti del caso sono tipici, noti e come tali variamente sottolineati. A cominciare dalla sciagurata Legge Severino, che, in nome della limpidità delle coscienze dei pubblici amministratori da imporre con nome di legge, ha sconciamente maltrattato il principio fondamentale di elettorato passivo universale, affiancandogli un assurda “candidabilità” da quella diversa ed a quella opposta. Per poi passare ad una serie di altre incongruenze, fino all’indecente intervento della Commissione Antimafia, con la sua Presidente “più bella che intelligente” che, alla vigilia delle votazioni ha raffazzonato una listarella di “impresentabili” (c’era una volta il proverbio: “il bue che dice cornuto all’asino…”). E poi i maneggi del cosiddetto staff del “Governatore”, i parassiti che nelle le situazioni ingarbugliate ci sguazzano.
E poi i tempi, dalle cadenze, degne di una qualche sospettosa critica, tra Tribunale e Corte Costituzionale.
E infine veniamo alla prima stranezza autentica. Riguarda la Corte Costituzionale ed il fatto che essa non abbia voluto riunire i vari ricorsi pendenti contro la Legge Severino, che, pur riguardando commi diversi della norma, comportavano questioni identiche. Trattarle separatamente era una premessa, neppure troppo implicita, di una volontà, cioè di un pre-giudizio, tendente a sfuggire all’esigenza di non fare “due pesi e due misure”.
Ma non è tanto di questo che voglio scrivere. Ma dell’intercettazione.
Da chi fu ordinata? E per quale motivo quella telefonata sarebbe stata intercettata? O bella! Direte voi: perché tutti intercettano tutti. Il che è verissimo, tanto vero che è l’unica cosa che non si può dire. Forse da qualche parte ci sarà bene un’autorizzazione, magari rilasciata in bianco come avviene per una parte molto considerevole di tali provvedimenti.
Forse sarà pure venuta fuori la “giustificazione” di quell’ascolto indiscreto, che a me, che non sono un giornalista “autorizzato” all’esercizio del diritto costituzionale di ogni cittadino, sarà sfuggita.
Ed allora: Possibile che magistrati, che con questo sistema di intercettazione generale delle nostre più private conversazioni, come si suol dire “ci sguazzano” e ne fanno la base del loro terribile “jus sputtanandi”, pensino di poter parlare per telefono senza sapere che è come se parlassero con un altoparlante in un pubblico comizio?
Prima considerazione: Il grande orecchio (ricordate un’opera teatrale di Vitaliano Brancati…??) non è poi così generalizzato: se è vero che tutti intercettano tutti, ci sono alcuni cittadini (che sono poi quelli della categoria che più si avvale a proposito ma anche a sproposito di queste intromissioni auricolari) che si sente al di sopra di ogni sospetto, semplicemente perché sarebbe auspicabile che così fosse. E parla e straparla del diritto alla propria privacy, che però talvolta non esiste neppure per loro.
Ciò detto viene voglia di trarne una prima conclusione, che potrebbe apparire una maligna spiritosaggine e non lo è: immaginate che tutti i magistrati siano intercettati e che tutte quelle intercettazioni registrate siano propalate.
Se, oramai, stampa, televisione, libri, giornali, spettacoli di varietà ci hanno dato uno stereotipo dell’”ambiente politico” e, soprattutto dei tanti, tantissimi parassiti della politica, dei maneggioni, dei portaborse, dei questuanti, dei compratori e dei comprati della politica, cosa credete che ne verrebbe fuori, dopo un po’, dell’ambiente degli “insospettabili”? Degli “intoccabili” (quelli del pool di “Mani Pulite” così si definivano ed uno di loro teneva nel suo ufficio appeso al muso il manifesto dell’omonimo film americano) dell’ambiente dei magistrati?
Mariti, mogli, figli di magistrati e amici, compari, amanti, ex compagni di scuola, credete davvero che si tengano lontani dalle delicatissime cose che occupano i cervelli (si fa per dire) dei loro togati congiunti, amici, compari etc. etc.
Non dico che attorno al potere giudiziario ci sia un marciume pari a quello in cui si muove la politica e la pubblica amministrazione. Ma non c’è neppure l’ambiente asettico e sterile di una camera operatoria. La disinvoltura che ogni tanto fuori di certi comportamenti (e di certe non intime conversazioni) attesta tutto ciò.
Non dirò che “anche i magistrati sono uomini”. Questa può essere, al massimo, la premessa. Il fatto è che molti, troppi, si fanno in dovere di dimenticarlo e si è creata, un po’ per distrazione, un po’ per paura, un po’ per indifferenza, un’atmosfera di falsa fiducia, di adorazione, una collocazione ingiustificata al di sopra di ogni sospetto, che ci dà un rispetto falso della categoria, favorisce la sua trasformazione in “partito istituzionale” ed, in conclusione produce più Saguto che poco appariscenti ma solidi e bravi amministratori della giustizia.
Mauro Mellini