E’ un viaggio alla Corte dei Miracoli. Eppure dista una ventina di minuti in metrò dal centro di Parigi. Porte de St. Ouen, una delle cinquantotto porte che segnano l’ingresso della capitale francese lungo tutta la circonvallazione, il “peripherique”, interna o esterna.
St. Ouen, a Nord, è una delle più note, anche turisticamente, grazie al Marché aux puces eponimo. Da più di un anno è costantemente citata per un fatto che di ameno non ha nulla: l’accampamento di migranti completamente allo sbando proprio sotto il ponte del “periph”. E’ almeno dall’aprile 2014 che si parla di questi rifugiati, per la maggior parte siriani, che vengono semplicemente spostati di qualche metro. Sono stati anche messi fuori dai giardinetti ormai chiusi col catenaccio. Nell’aprile scorso si parlava di circa 150 migranti. Oggi non si capisce.
Arrivati al capolinea della linea 13 del metrò dovremmo già intravedere l’accampamento ma un enorme cantiere sul crocevia blocca la visuale e confonde. Un venditore di pannocchie abbrustolite, un indiano, ci indica gentilmente da dove passare. Gli prendiamo due pannocchie, è ora di pranzo. Peccato che siano così secche da non andar bene neanche per i polli, ma è stato così gentile.
Attraversato il labirintico cantiere avanziamo ancora un po’ lungo un marciapiede che costeggia la strada ed intravediamo qualche bambino. Sembra la strada per un campo rom. Anzi, un tempo lì c’era un campo rom. Non è mai stata una zona linda ma la sporcizia è aumentata. Aumenta mano a mano che ci avviciniamo al crocevia. Proprio sotto al pilone della circonvallazione tre o quattro tende ad igloo circondate da barriere. Quelle che si usano per chiudere il traffico. Pattumiere aperte, donne velate, bambini, uomini che discutono.
Sulla destra, lungo il muro che separa dalla parte esterna di Parigi, altre tende. Non tante, forse una decina. Anche queste circondate da barriere. La sporcizia è ovunque, si accumula confondendo piattini di carta con tracce di cous-cous non terminato, fazzoletti, bottiglie vuote… un magma insalubre. Lungo il marciapiede coperte e lenzuoli con oggetti disparati, usati, rotti. Dalle scarpe al cappottino per neonato. Un modem senza cavi. Gente che fruga. Ma non sono siriani. Alcuni forse sì. Alcuni vendono, altri sembrano lasciar lì. La perplessità ci invade.
Dov’è l’accampamento dei rifugiati siriani in tutto questo marasma? Avanziamo lungo il marciapiede. A pochi passi c’è l’altro pilone. Quello della Porte de Clignancourt, dove inizia il mercato delle pulci. Da quella parte la polizia veglia sui venditori improvvisati che da sempre si aggregano al mercato con merce di dubbia provenienza. Chiediamo a due poliziotti a cavallo dove si trova il campo dei rifugiati. Ci rimandano esattamene dove eravamo: al crocevia con le tende. “Dove vedete le tende ci sono i rifugiati siriani” è la risposta precisa. E lì, quasi increduli torniamo.
Rifacciamo un giro, poi ci fermiamo all’incrocio per capire cosa succede.
Non ci sono solo siriani, solo che questi sembrano essersi riuniti nelle tende. La strada che passa sotto il ponte è larga e trafficata. Un pericolo costante per i bambini ma soprattutto per le donne che sembrano non aver capito come attraversare. Piuttosto che passare sulle strisce pedonali al semaforo, attraversano a zig-zag in mezzo al traffico. Qualche donna anziana, velata di nero, prova a chiedere la carità, poco convinta. Non infastidiscono. Sembra che abbiano visto qualcuno farlo e provino ad imitarlo. Rinunciano in fretta arrivate all’altro marciapiede. Gruppi di ragazze vanno invece avanti ed indietro attraversando sicure ed unite la strada che divide i due piccoli accampamenti. All’incrocio sono arrivati dei camioncini e delle macchine private. Ed ecco lo strano balletto.
Un’associazione caritatevole distribuisce pasti mentre da un camioncino nuovo, nero fiammante, escono baguette a volontà. Alcune ragazze ripartono con le braccia piene. La domanda è: dove vanno? Poche entrano nell’accampamento lungo la via, dove troneggia un signore alto, baffuto, che sembra comportarsi da guardiano del campo e decide chi può entrare e quando. Alcune ragazze portano guanti di plastica per l’igiene. Altre no.
Scatta un battibecco tra alcune donne intorno ai veicoli che distribuiscono i viveri. Alcune anziane si strillano addosso, si picchiano con delle pannocchie per il pane. Una volta recuperato il cibo, tornano a parlarsi normalmente. La guerra dei poveri stringe il cuore. I bimbi attraversano correndo ed ogni volta vien da sperare che non giunga un veicolo ad alta velocità.
Però è strano. I vari maneggi continuano per un bel po’. Una macchina parcheggiata viene riempita con pane ed altri articoli. Se ne andrà dopo più di un paio d’ore. Ed era già lì al nostro arrivo. Tutto questo non convince. Tra la sporcizia, le tende, i materassi con i letti di fortuna mezzi disfatti dell’accampamento che stringe il cuore, che non può che indignare in una capitale sorda all’appello dei medici del vicino ospedale Bichat che fanno del proprio meglio ma hanno annunciato l’urgenza sanitaria.
Ci avviciniamo ancor di più all’accampamento del marciapiede, pur restando fuori dalla debole barriera che protegge un po’ di intimità, se di intimità si può parlare dove non esistono né un bagno né una doccia. Una donna della quale si distingue solo il viso cerca di uscire tra due barriere spingendo un passeggino. Gian Joseph tira a sé una barriera per permetterle di passare. Un gesto di cortesia che non apprezza, non lo guarda, si gira dall’altra parte stizzita. Probabilmente perché di un’altra cultura, un’altra religione. Quest’uomo le si è avvicinato troppo. Uno sconosciuto poi.
Ma in realtà sembra che nessuno faccia caso a noi. Le macchine con le vettovaglie se ne vanno. Restano le cianfrusaglie. Un giovane, uno di loro, girovaga solitario e viene cacciato da un gruppo di donne. Un altro perde le staffe dalla stanchezza e si altera. “Non ce l’ho coi francesi ma con i musulmani. Non era questa l’accoglienza che aspettavamo”. Già, dove sono gli aiuti della comunità musulmana? In realtà l’accoglienza esiste ma è talmente scoordinata che è come se non ci fosse. Una volontaria di un’associazione d’aiuto ai poveri ci spiega che quello che sembra un mercato è roba lasciata lì dalle famiglie siriane che hanno ricevuto troppo dalla solidarietà dei privati. O forse, più che troppo, troppe cose che non servivano loro.
Altre comunità vengono a prendere il superfluo e lo vanno a vendere come hanno l’abitudine di fare. Non è il caso dei siriani. C’è chi da fuori arriva all’ora delle distribuzioni di viveri e vestiti. Purtroppo gli aiuti sono disorganizzati. Le diverse associazioni non si coordinano e le iniziative private sono ovviamente ingestibili. Una delle grandi difficoltà è rappresentata dal censimento delle famiglie. Si sono contate da sole ed il numero sarebbe di quarantadue. Arrivando sul posto ci sembrano molte meno. Le spiegazioni sono diverse. Alcune famiglie sarebbero da poco partite verso il Belgio dove sperano un’accoglienza migliore. Purtroppo non è detto ma non hanno più nulla da perdere e continuare il cammino sembra l’unica soluzione. Altri sono saltuariamente alloggiati da persone di buona volontà e queste assenze rendono difficile un censimento.
Tra l’altro le associazioni più vicine a loro lamentano l’assenza di informazioni date ai rifugiati che, ovviamente, non vanno ad iscriversi in Comune. I volontari fanno quindi quello che possono con tutta la loro buona volontà. Fortunatamente l’ospedale Bichat, a poca distanza, riesce a curare dei migranti accogliendoli. Nei casi di malattie come la scabbia, resta il problema che tornando nell’insalubrità delle tende il problema ricomincia. Medici ed infermieri sono andati sul posto per controllare. Ci sono anche alcune donne incinte. Un bimbo è nato, per fortuna in ospedale.
Restano tante domande. Perché proprio loro all’abbandono quando rifugiati siriani sono appena arrivati e sono stati distribuiti in zone di accoglienza già pronte come, ad esempio, il centro nautico di Cergy-Pontoise, non lontano da Parigi? Un centro dove li aspettano uno staff medico e delle brande pulite. Senza contare altre cittadine in tutta la Francia.
Il Presidente Hollande ha promesso 24.000 posti per i profughi dopo l’emozione suscitata dalla morte del piccolo Aylan. Un piccino di troppo viene da dire con una certa rabbia, perché di immagini di bambini morti a causa dei conflitti e durante improbabili tragitti verso un’ipotetica salvezza ne abbiamo viste tante, troppe. Doveva morire anche lui per accorgersi dell’urgenza umanitaria?
Intanto, sempre secondo la volontaria con la quale abbiamo parlato, sembra che anche i “dimenticati” di St. Ouen debbano essere rialloggiati entro una settimana. Non si può che sperare che sia vero. Non solo per le ragioni sanitarie ed umanitarie invocate ma anche perché nella disperazione più totale in cui sono lasciate queste famiglie non può che crescere la rabbia. Una rabbia che può facilmente essere manipolata da elementi già radicalizzati presenti a Parigi e che non hanno alcuna difficoltà ad avvicinare giovani in collera contro un sistema che li ha costretti a fuggire dal proprio paese per trovare il nulla. Oltre alla minaccia dell’integralismo, vedendo il numero di giovani donne sul posto non si può non pensare all’ombra dello sfruttamento. Forse per questo si proteggono dietro le barriere stradali. Ma chi vuole entra e può mischiarsi a loro. E’ ormai ufficiale, reclutatori, simpatizzanti dell’IS, fanno visita ai campi, si mischiano ai profughi per tastare il terreno.
Speriamo che entro una settimana i profughi di St. Ouen siano veramente alloggiati prima che accada il peggio.
Veniamo via confusi, con tante domande che richiedono altrettante risposte. La prima è “perché in oltre un anno non si è fatto nulla?”. La stampa francese ha riportato qualche dichiarazione di associazioni. Ha fatto dei reportage fotografici ma nulla di eclatante. Una semplice constatazione dei fatti.
Mentre lasciamo il ponte ci sorride un giovane uomo, dall’età indefinibile, che fuma. Ci sorride e gli chiediamo da accendere. Mi offre una sigaretta, una vera, e vede che Gian Joseph se ne prepara una col tabacco. Lo guarda e dice in un misto di francese, italiano e russo: “Anch’io le ho fatte per tanto tempo così, in carcere”. Mastica un po’ di italiano, dice di essere stato a Torino e Saluzzo e di aver trascorso 15 anni, 11 mesi e 7 giorni in un carcere francese per spaccio di cocaina. Non c’entra nulla con l’accampamento dei rifugiati ma ci dice che lì intorno è così, sono tutti poveri. E ci saluta.
Luisa Pace