L’eccidio al Palazzo di Giustizia di Milano è stato un avvenimento così grave ed inconsueto (sì, fortunatamente del tutto inconsueto) da suscitare polemiche e discussioni che lasceranno, assai probabilmente, più tracce dannose e pregiudizi pericolosi che convincimenti e, soprattutto, provvedimenti improntati a reale ragionevolezza.
La prima reazione, quelle del Presidente Mattarella e di alcuni magistrati e di altri componenti e satelliti del loro partito, tendenti a trovare l’origine di un’esplosione manifesta di una follia di una personalità patologica come la conseguenza del “discredito” gettato “impudentemente” sulla magistratura e sulla giustizia (in altre parole: darne la colpa a noi, ai garantisti) si è prontamente spenta nel brodo delle assurdità di una tale, ennesima manifestazioni di ottusa intolleranza.
Sono rimaste le polemiche sulle “falle” della sicurezza del Palazzo e della sicurezza in genere, in una Milano alla viglia del grande evento mondiale della Expo, con l’eco di altre, tremende gesta terroristiche islamiche.
Ci sono state anche in questa meno irragionevole esplosione di irragionevoli considerazioni, aspetti grotteschi. Il ministro Alfano, che afferma che per le Forze dell’Ordine vi è stata una manifestazione di efficienza ed un brillante successo, perché l’assassino è stato arrestato a Vimercate, prima che commettesse qualche altra uccisione, sembra un macabro scherzo.
Per lo più le querimonie si sono concentrate nella tesi del Palazzo che, invece di un fortilizio della Giustizia si è rivelato un “colabrodo”.
Ora è naturale ed inevitabile che in un caso del genere ci si domandi “come ha fatto ad entrare armato”. Dopo ogni assassinio c’è sempre un interrogativo del genere: come ha fatto ad avere il porto d’armi, come ha fatto a passare inosservato, come ha fatto a non manifestarsi pazzo agli occhi del medico che il giorno prima gli ha curata una vena varicosa.
Polemiche sull’”ingresso di Via Magenta”, sui tesserini degli avvocati appena sbirciati dal personale di sicurezza, sui “metal detector” più o meno scassati. Tutte cose in sé ragionevoli e tutte assurde se considerate globalmente e nella quotidianità del funzionamento di un colossale complesso di uffici con una presenza di pubblico superiore a quella di qualsiasi sede amministrativa, quale il Palazzo di Giustizia di Milano.
Non ho la minima intenzione di formulare giudizi di responsabilità e neanche di affermare, che tutto è “andato regolarmente”.
Il fatto è che un palazzo di giustizia “blindato”, come molti lamentano oggi non fosse quello di Milano, non c’è e non può esserci, quale che sia l’accortezza e la disponibilità di mezzi di chi predispone misure di sicurezza, che, al più, potranno funzionare per processi “speciali”, di terrorismo, di mafia etc. (che poi sono quelli nei quali c’è più sicurezza, ma molto meno giustizia).
Non è un caso che per queste evenienze si è provveduto a spostare i processi fuori dei normali “luoghi di giustizia”. Le cosiddette “aule bunker”. Nelle quali, però, bastava entrare per rendersi conto che c’era sì la “lotta al terrorismo, alla mafia etc.” ma che non fossero luoghi esemplari in cui la giustizia in senso oggettivo è di casa.
E qui occorre una precisazione. Occorre perché a leggere i giornali ed a sentire i chiacchiericci di oggi e di ieri, si direbbe che fatti di questo genere sono all’ordine del giorno.
Fortunatamente si tratta di un caso del tutto isolato, probabilmente unico nella storia giudiziaria.
Un precedente, in vero c’è. Ma è un precedente, fortunatamente ridicolo.
All’epoca dei processi di Mani Pulite, un giorno, chi sa come e perché, in un’aula di uno di questi processi, qualcuno affermò di aver visto una bomba a mano.
Scattò la sicurezza. In persona, guarda caso, del Sostituto Procuratore (il Tribunale era in Camera di Consiglio) Di Pietro Antonio.
Come sia andata veramente non so. Cioè ne ho solo qualche racconto di giornali, in quei giorni e per certi argomenti più bugiardi del solito.
Dicevano, dunque, questi poco attendibili cronisti che, per caso, tra gli agenti di P.S. in servizio nei dintorni c’era il figlio del SuperP.M.
Il Padre, Antonio Di Pietro, il Superman, si sarebbe fatto dare dal figlio il mitra e, con la toga svolazzante, sarebbe corso ad ispezionare aula e dintorni, pronto a “schiaffar dentro” qualche sospetto con una tasca rigonfia perché confessasse il nome dei complici.
Qualche cronista meno fantasioso e più prudente scrisse che no, il mitra lo aveva impugnato solo il Figlio, che però era corso dietro al Padre con la toga svolazzante etc. etc.
Ecco, questa è, in fondo la giustizia “sicura”, anche se, fortunatamente, i Di Pietro delle diverse generazioni, oltre che pochissimi, sono passati di moda.
Ma torniamo alle polemiche di questi giorni (in cui nessuno ha voluto ricordare le prodezze dell’- allora – magistrato più amato dagli Italiani. Che però non ha perso l’occasione per scaricare un po’ del suo eloquio molisano).
Immaginiamo un po’ un Palazzo di Giustizia realmente “blindato”, senza “falle” all’ingresso di Via Magenta o di altro, con un esame accurato dei tesserini dei magistrati ed avvocati, con un’ispezione accurata di tutti quelli che, avendo una fibbia metallica un po’ voluminosa, fanno fare “drin-drin” al metal detector e con controlli speciali di quelli che si sono tagliati i baffi e non assomigliano più alle foto delle tessere.
Ci hanno provato il giorno successivo alla strage. E’ successo un pandemonio.
File, proteste, ritardi.
Quanti processi in più si dovrebbero rinviare perché l’imputato o il teste è “trattenuto” all’ingresso perché fa suonare il metal detector, perché ha la carta d’identità scaduta o con la foto con i baffi? E’ difficile dirlo, perché difficilmente la “blindatura” durerà abbastanza da stabilire le conclusioni circa le conseguenze.
Possiamo dire, dunque, che “fortunatamente” ogni blindatura di Palazzo e Palazzacci è un po’ sgangherata e “fa acqua”?
Come molte cose vere, dirle procura proteste e guai. Diciamolo sottovoce.
Mauro Mellini