“Non auro, sed ferro, recuperanda est patria” (Non con l’oro, ma con il ferro, si riscatta la patria). La tradizione vuole che i romani assediati dai Galli di Brenno, stavano per pagare un tributo pari a mille libbre d’oro affinchè venisse tolto l’assedio a Roma, quando si accorsero che le bilance erano truccate. Brenno, dinanzi le rimostranze del popolo di Roma, sul piatto della bilancia avrebbe aggiunto la propria spada chiedendo un maggiore tributo in oro e pronunciando la fatidica frase “Vae victis! (Guai ai vinti!).
Marco Furio Camillo, giunto in soccorso a Roma, affrontò Brenno aggiungendo sul piatto dell’oro la propria spada e pronunciando le celebri parole “Non auro, sed ferro, recuperanda est Patria”.
Roma venne liberata dai Galli che furono costretti alla ritirata.
Per secoli i metalli preziosi ebbero valore di moneta. Fin da quando re Creso, nel VII secolo a.C. creò “l’elettro”, costituito da una lega di oro e argento. La moneta, sostituì il baratto, gli scambi commerciali di due beni che, spesso, nel non incontrare le necessità temporanee dell’offerta e della richiesta, non presentava neppure i problemi legati al deterioramento del bene stesso.
Veniva dunque così stabilito il valore di un bene secondo un unità di misura che riconosciuta da tutti permetteva di acquistare e vendere mercanzie senza il pericolo di vedere deteriorarsi quanto ottenuto in cambio.
Inizialmente il valore della moneta corrispondeva a quello del metallo utilizzato e questo ne faceva una garanzia per chi lo riceveva. Solo nel medioevo il suo valore cambiò quando gli stati ai metalli preziosi iniziarono ad aggiungerne altri, dando un valore nominale alla moneta che non corrispondeva più al valore intrinseco della qualità del metallo utilizzato.
Poiché comunque ogni stato marchiava la propria moneta, nonostante queste ultime inizialmente non venissero accettate da molti commercianti, il loro valore venne pian piano accettato da tutti. Quantomeno, dalle popolazioni di un determinato stato all’interno del quale quella moneta era circolante. Accettatone il potere d’acquisto all’interno dello Stato, gioco forza, si finì con l’accettarlo anche negli scambi commerciali con paesi più lontani, i quali comunque per lungo tempo preferirono il pagamento delle mercanzie con monete dal valore intrinseco.
Un principio di economia reale destinato a sparire con l’evoluzione delle banconote. Se l’uso della banconota (il cui valore era garantito dall’oro depositato a fronte del valore nominale della stessa e quindi esigibile dal possessore del “documento cartaceo” che prese il nome di banconota) facilitò gli scambi commerciali, riducendo drasticamente il numero di transazioni in moneta metallica. Nel tempo però, visto che quasi nessuno ritirava l’oro depositato e tutti si avvalevano delle banconote per gli scambi commerciali, si arrivò a stamparne di nuove senza che le stesse fossero garantite dal deposito del prezioso metallo. L’oro rimase solo come riserva delle banche (riserva aurea) e il sistema (Gold standard), a partire dal XVIII secolo, venne adottato un po’ in tutto il mondo, facendo perdere valore all’argento e mettendo fine al bimetallismo (oro e argento) che per secoli avevano governato gli scambi commerciali.
Dopo la grave crisi del 1929, nel 1944 si arrivò alla fine del sistema aureo legando il valore delle diverse valute al dollaro, il cui valore restava comunque legato a quello dell’oro.
Le recenti notizie in merito alla coniazione di monete da parte del Califfato, nel testimoniare come l’organizzazione terroristica stia assumendo sempre più le vesti di un vero e proprio Stato, induce a fare delle considerazioni anche di natura economica.
Il “Dinar” coniato dallo Stato Islamico, in oro e in argento, si pone come obiettivo quello di sfidare il sistema monetario occidentale, governato dal dollaro.
L’IS, che da tempo sta cercando di realizzare una propria economia nata dai proventi di rapimenti e dalla vendita del petrolio rubato nei territori che controlla, ripropone un quesito che da tempo era stato accantonato: Cosa avverrebbe se un paese volesse istituire un sistema monetario denominato su peso e le purezza di metalli preziosi?
La risposta, fino a qualche giorno fa, sarebbe stata quella che le pressioni fiscali e gli embarghi da parte delle altre nazioni avrebbero impedito l’adozione di un tale sistema che avrebbe diversamente potuto causare il crollo di ogni altra valuta.
Un pericolo scongiurato fino a quando lo Stato Islamico non si è proposto di realizzare una propria moneta in metallo prezioso valutata sulla base del valore del peso e della purezza del metallo stesso, il cui nome (Dinar) è legato alla storia dell’Impero Arabo.
In passato qualche paese aveva preso in considerazione questa possibilità, forse più ostentata come minaccia che come possibilità reale, ma poi non se ne era fatto nulla. L’economia di ogni paese è comunque legata all’economia globale, alle dinamiche degli scambi, delle esportazioni e delle importazioni, e questo ha sempre impedito ad un governo di uscire dal sistema monetario. Così non è per il Califfato che tramite la moneta troverebbe il modo per legittimare sé stesso anche al di fuori dei confini geografici dei territori che attualmente controlla, costringendo le altre nazioni a non potere ignorare quello che è un vero e proprio colpo di stato politico che potrebbe avere serie ripercussioni nell’economia globale.
A prescindere dall’IS, infatti, l’instaurazione di un regime monetario basato sul valore intrinseco della moneta fa sì che la stessa venga riconosciuta sui mercati globali. Possiamo non riconoscere lo Stato Islamico, ma come ignorare il valore della sua “non riconosciuta moneta” quando lo stesso è dettato dal valore intrinseco del metallo con il quale è coniata? Potremmo dire che l’oro non ha nessun valore?
A parte il fatto che in questo momento il “dinar” potrebbe rappresentare un interesse per i collezionisti (si tratterebbe comunque di un mercato molto ridotto) disposti a pagare un prezzo superiore al valore intrinseco della moneta, non v’è dubbio che gli scambi sulla base del valore del metallo sarebbero molto attraenti per i consumatori che oggi si trovano a fare i conti con la grave crisi economica globale e con i timori dell’instabilità delle divise monetarie dei vari paesi. La caduta del rublo, i problemi dell’euro e un dollaro non più garantito da riserve auree, hanno infatti rappresentato negli ultimi tempi uno dei più grandi timori delle economie occidentali. Il dinar, sempre che l’IS trovi tanto oro da poterne produrre in quantità sufficiente, secondo i vertici del Califfato, e non solo secondo loro,potrebbe rappresentare un serio pericolo per la maggior parte delle valute del mondo, con in testa il dollaro che perderebbe la propria leadership nell’economia globale.
I governi occidentali possono non riconoscere il dinar come unità monetaria, potrebbero forse renderne illecita la circolazione e il possesso varando nuove leggi, ma non potranno far nulla contro il valore del metallo da cui è composto.
Dello Stato Islamico sappiamo che possiede valuta per due miliardi di dollari in contanti. Da fonti di intelligence sappiamo che quotidianamente incassa quasi due milioni di dollari al giorno dalla vendita del petrolio. Ma quanto oro possiede? Questa ad oggi è una delle maggiori incognite visto che all’oro presente nelle casse del Califfato si potrebbe aggiungere quello di Boko Haram che ha giurato fedeltà all’IS e che potrebbe avere il controllo di aree dove sussistono alcune delle più grandi miniere di estrazione del nobile metallo.
Bombardare i jihadisti serve a poco se non pensiamo fin da subito a come colpire l’economia di quella che più che un’organizzazione terroristica assume sempre più le sembianze di uno Stato che rischia di attrarre le economie dei paesi musulmani con conseguenze difficilmente prevedibili allo stato attuale.
“Non auro, sed ferro, recuperanda est Patria” , ma in ferro (missili, bombe, mezzi ed eserciti) abbiamo già speso molto a fronte di ben pochi progressi e senza una valutazione e una guerra di tipo economico non vorremmo trovarci a far fronte alla fatidica frase: “Vae victis!
Gian J. Morici