Dobbiamo o non dobbiamo dare spazio alle notizie sullo Stato Islamico? La domanda ci riporta indietro nel tempo, come quando gli Stati Uniti decisero di censurare i comunicati stampa di al-Qaeda. O ancora più indietro, ai famigerati anni di piombo che ebbero per protagonisti i brigatisti rossi.
Un dibattito irrisolto allora e che certamente non troverà soluzione oggi. Da un lato la libertà d’informazione, dall’altro l’inopportunità di diffondere notizie di natura propagandistica, concedendo ai terroristi quello che loro vogliono.
La verità, forse, come spesso accade sta nel mezzo, in quell’uso della ragione che sembra si sia perso seguendo i principi della spettacolarizzazione delle notizie al fine di aumentare il numero dei lettori e fare cassa. Ma anche seguendo astrusi principi intellettualoidi di chi non tenendo in conto alcuno le conseguenze di un’azione, in nome di un’etica rispolverata solo per talune circostanze, decide di oscurare qualsiasi informazione in merito a quella che si presenta come una delle organizzazioni terroristiche più pericolose con le quali l’Occidente si sia mai scontrato.
La stampa francese sembra aver deciso di ridurre gli spazi dedicati ai terroristi islamici, seguendo un po’ le scelte effettuate da alcuni mass media statunitensi e italiani.
Di diverso avviso la stampa inglese che continua a monitorare gli sviluppi di una guerra che c’interessa molto più da vicino di quanto molti non credano. E mentre in Inghilterra non passa giorno senza che vengano effettuati arresti di presunti terroristi, grazie anche a nuove disposizioni di legge approntate per l’emergenza, i paesi dove si preferisce far calare una coltre di silenzio sul problema sembra che siano anche i meno attivi a livello legislativo e giudiziario. I numeri parlano da soli e non necessitano di alcun commento.
Sappiamo bene che i terroristi vogliono far conoscere i propri comunicati affinchè siano pubblicati e sappiamo bene dunque che il darne notizia può`significare far loro da cassa di risonanza. Di conseguenza la scelta più semplice sarebbe quella di non pubblicare nulla.
Molti addetti ai lavori, esperti e giornalisti sembrano essere di questo avviso, altri, sono tanto idioti, perdonateci il termine, da pubblicare i link a pagine nelle quali i terroristi spiegano come abbattere velivoli o creare ordigni esplosivi, ritenendo che nel diritto all’informazione si possa annoverare anche l’istigazione o i “manuali del perfetto terrorista” utili a commettere gli attentati.
Abbiamo a lungo riflettuto, ci siamo confrontati, abbiamo discusso di quello che sarebbe stato giusto fare e quello che non lo sarebbe stato. Infine abbiamo deciso.
L’ISIS è una realtà che dobbiamo conoscere, i cui documenti è necessario siano studiati e capiti. Qualsiasi censura, fatti salvi gli aspetti quali il pubblicare informazioni utili a compiere gli attentati, seppur ritenuta eticamente corretta e a fin di bene, può risultare molto pericolosa.
Ad esempio, la mancata risonanza data dai media occidentali, ad eccezione di quelli inglesi, all’ultimo appello del giornalista britannico John Cantlei, ha portato alcuni militanti dello Stato Islamico a rilasciare commenti sui siti jihadisti che nell’evidenziare il silenzio mediatico s’interrogavano su quali azioni avrebbero permesso loro di rompere il muro di silenzio costringendo i media a parlarne. Senza per questo trasformarsi in un organo di propaganda dei terroristi, non si può ignorare la pericolosità che rappresentano gli interrogativi che si sono posti i militanti dell’ISIS.
Non è facile leggere tutto il giorno comunicati impregnati di fanatismo e violenza. Non è facile guardare immagini e filmati di corpi straziati, attentati condotti con camion carichi di tonnellate di esplosivi, decapitazioni di ostaggi, che sono molte di più di quanto non si possa immaginare visto che tali esecuzioni non riguardano solo le poche vittime occidentali delle quali è stata data notizia e sono stati pubblicati video e immagini.
Scriverne è una sofferenza ma è importante, perché ci aiuta a comprendere un fenomeno che non possiamo ignorare, del quale è necessario capire radici e motivazioni, per mantenere alta l’attenzione ed evitare di doverci trovare impreparati ad affrontarlo in casa nostra.
È importante parlarne assicurando al lettore l’imparzialità nel raccontare i fatti, nonostante le enormi difficoltà di chi è costretto a scriverne senza essere stato testimone degli stessi, cercando, per quanto possibile, di narrare una verità fatta di testimonianze di altri, di documenti e immagini diffuse anche dagli stessi terroristi, approfondendo l’argomento con esperti analisti del fenomeno e, se ne siamo capaci, con le nostre considerazioni.
Finora è quello che abbiamo fatto, cercando di capire, pubblicando notizie provenienti da varie fonti, ufficiali e non ufficiali. Un lavoro che ci costringe ogni giorno a leggere tantissime notizie, verificarne l’importanza e l’opportunità di pubblicarle, verificarne la fonte. Centinaia di immagini, decine di documenti. Un lavoro che ci ha permesso più volte di anticipare le notizie che altri media avrebbero pubblicato solo a distanza di molte ore, se non a distanza di giorni.
Non si tratta della velleità di anticipare gli altri organi stampa sulla pubblicazione delle notizie. No. È importante narrare la verità, quantomeno quella verità che può essere raccontata senza mettere in pericolo nessuno, anche quando quella verità viene stravolta dalle più grandi testate, salvo poi trovare conferma, a distanza di tempo, in quello che avevamo scritto.
L’unica etica che conosciamo e rispettiamo è quella di un’informazione seria e responsabile, che tenga in giusto conto l’equilibrio tra la libertà d’informazione e quello della responsabilità che ci si assume decidendo se pubblicare o non pubblicare una notizia.
Sottacere le notizie in merito alle manifestazioni dei curdi in tutto il mondo affinchè si evitasse il massacro di Kobane, non è servito né ai curdi che si sono battuti fino allo stremo, né ai militanti dell’ISIS che li hanno massacrati. Darne notizia sarebbe servito a sensibilizzare l’opinione pubblica, evitando che i governi, primo fra tutti quello turco, si sottraessero alle proprie responsabilità.
Del resto, riteniamo veramente che si possa operare un “blackout” delle notizie? È forse servito negli anni di piombo a impedire che le Brigate Rosse portassero a termine altri attentati? Servì con al-Qaeda? Gli inglesi, che pure subirono attentati, quali quello del 7 luglio 2005 a Londra, quando attentatori suicidi colpirono i trasporti pubblici della capitale causando 55 morti, inclusi gli attentatori, e circa 700 feriti, continuano ad informare i loro cittadini.
Dello stesso orientamento sembra essere la stampa spagnola. Un paese che non è stato esente da attentati di matrice islamica come quelli dell’11 marzo 2004, che uccisero 191 persone e ne ferirono 2.057.
Dinanzi a eventi come questi, accaduti dopo il fatidico 11 settembre e dopo che gli USA provarono a censurare le notizie su al-Qaeda, siamo ancora convinti che il mantenere bassa l’attenzione serva a qualcosa?
Comprendiamo bene la responsabilità che pesa sulle nostre spalle ed è per questo che abbiamo deciso di proseguire sulla via di un’informazione responsabile e quanto più possibile esatta e corretta, convinti che se una scelta di “blackout” si dovesse fare, dovrebbe essere totale e globale, senza lasciare la possibilità ai soli jihadisti di utilizzare i loro media e i social network per portare avanti le campagne di propaganda del terrore.
Viviamo in un mondo dove politica e stampa sembrano aver perso il lume della ragione e non sappiano più discernere tra informazione e propaganda. Un mondo dal quale prendiamo le distanze, consapevoli dell’importanza che una corretta informazione ha per la difesa della democrazia.
Gian J. Morici
Manifestazioni dei curdi nel mondo: