Immediatamente dopo la strage della maratona di Boston i leader della Moschea Islamic Society si sono affrettati a dichiarare che i due fratelli Tamerlan, accusati di essere gli autori dell’attentato, non facevano parte della loro comunità.
Del resto non si può accusare un’intera comunità se uno squilibrato fa una strage. Neppure se il folle in questione avesse fatto parte della moschea.
Già, ma se ben otto leader della moschea fossero coinvolti in vicende legate al terrorismo islamico?
Secondo le più recenti risultanze fin dall’inizio la moschea di Boston ha visto ai suoi vertici soggetti legati ad organizzazioni terroristiche.
Fondatore e primo presidente dell’Islamic Society, fu Abdurahman Alamoudi nel 2004, attualmente detenuto perché condannato a 23 anni per aver diffuso materiale propagandistico e per aver raccolto fondi per al Qaeda negli Stati Uniti.
Tra i frequentatori e organizzatori ci sono:
Jamal Badawi, accusato di aver veicolato 12 milioni di dollari da utilizzare per attentati suicidi commessi da palestinesi;
Aafia Siddiqui, neuroscienziato pakistano, conosciuta come “Lady al Qaeda”, condannata a 86 anni di carcere per aver pianificato un attacco chimico a New York. L’ISIS ha offerto più volte il rilascio di ostaggi in cambio della liberazione di “Lady al Qaeda”;
Tarek Mehanna, condannato a 17 anni per aver progettato un eccidio in un centro commerciale di Boston;
Yusuf al-Qaradawi, fiduciario moschea e leader dei Fratelli Musulmani egiziani, bandito dagli Stati Uniti dopo aver emesso una fatwa per l’uccisione di soldati americani;
Ahmad Abousamra, oggi tra i più importanti e conosciuti propagandisti dell’ISIS, sospettato di essere la mente della promozione di decapitazioni di ostaggi che viene regolarmente pubblicata in rete sui social e sui media jihadisti. Il padre, faceva parte del consiglio d’amministrazione dell’organizzazione musulmana che gestisce la moschea;
Hafiz Massud, fratello di un noto terrorista pakistano, imam di una moschea di Sharon, Massachusetts e il di lui figlio.
Di Tamerlan Tsarnaev e del fatto che fosse stato visto fare sei visite a un noto militante islamico in una moschea nella repubblica russa del Daghestan, avevamo già scritto dopo i fatti di Boston, evidenziando i legami che i terroristi hanno nei Balcani con falsi predicatori (imam) che, strumentalizzando il Corano, inneggiano alla Jihad e trasformano i giovani in terroristi.
In quella, così come in altre circostanze, per comprendere cosa realmente sta accadendo, avevamo suggerito la lettura del libro in “Madrasse. Piccoli martiri crescono tra Balcani ed Europa” di Antonio Evangelista, ex capo del contingente di polizia italiana nell’ambito della missione Onu, in cui si occupava di criminalità organizzata e terrorismo, i cui scritti sono stati definiti oggi dal “L’Espresso” profetici.
È infatti de L’Espresso l’articolo-inchiesta dal titolo “I nuovi jihadisti vengono dal Kosovo”, che narra di come centinaia di combattenti partono per Iraq e Siria e di come i social network siano stati trasformati dai terroristi in potenti strumenti di propaganda, in spazi virtuali di incontri, dove scambiarsi informazioni e organizzare attentati.
Ma quanti terroristi ci vorranno ancora prima che la gente si accorga che i Balcani sono una polveriera pronta ad esplodere e che il terrorismo in rete non è una coincidenza?
Gian J. Morici