Se Angelino Alfano fosse stato il Ministro dell’Interno, nonché il Vicepremier, di un qualsiasi paese semicivile avrebbe rassegnato immediatamente le proprie irrevocabili dimissioni dopo il caso di Alma Shalabayeva e della piccola Alua, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, estradata insieme alla figlia e consegnata al governo di un paese ritenuto dittatoriale.
Una storia inquietante e che ha reso ridicola l’Italia agli occhi del mondo intero, specie la retromarcia del nostro governo che 45 giorni dopo i fatti, e dopo aver consegnato madre e figlia al dittatore, ha revocato l’ordine di estradizione. Quando ormai tutto era già stato fatto! Prima si spara e poi si chiede ad una pallottola di tornare indietro.
A dirci quanto in basso e in ridicolo fossimo caduti, lo stesso Ministro degli Esteri del Kazakistan che nel criticare criticare l’operato del Governo italiano non esitò a definire la vicenda come: “Una storia di burattini e burattinai”!
Il “distratto Ministro” Alfano, venne inizialmente difeso dal suo capo di gabinetto Procaccini, dimessosi dopo aver dichiarato che il ministro era all’oscuro di tutto. Successivamente, Procaccini, non intendendo vestire i panni del capro espiatorio sul quale lo stesso ministro era pronto a scaricare eventuali responsabilità, dichiarò che Alfano era stato informato di tutto quanto.
Se fin qui poteva esistere un aspetto ridicolo, seppur inquietante, di tutta la vicenda, quanto emerge oggi getta ulteriori ombre sull’operato delle forze dell’ordine che si occuparono del fermo e dell’estradizione della Shalabayeva e sui vertici del Ministero che diedero l’input a quello che sarebbe giusto definire un sequestro di persona per consegnare le vittime ad un dittatore che le richiedeva.
“C’è una fotografia di una bambina di sei anni – ritoccata goffamente con Photoshop per fabbricare un documento falso – a testimoniare quanto sia stata decisiva la “mano” italiana nella deportazione di Alma Shalabayeva e della piccola Alua, moglie e figlia del dissidente kazako Ablyazov – riporta oggi il quotidiano La Repubblica – ricordando come il 31 maggio intorno alle 11 del mattino il giudice di pace Stefania Lavore, dopo aver valutato i documenti in suo possesso, convalidava “il trattenimento di Alma nel Cie di Ponte Galeria, primo passo per la successiva espulsione. “È stata ingannata dalla Polizia”, dirà poi nella sua relazione l’ispettore mandato dal ministero della Giustizia, Mario Bresciano, presidente del Tribunale di Roma. “Il passaporto kazako della donna, che la Questura aveva avuto già il 30 maggio e che ne avrebbe consentito l’allontanamento volontario, non è stato consegnato in tempo per l’udienza “.
Ma per riportare la moglie di Ablyazov ad Astana e consegnarla nelle mani del dittatore Nazarbayev, mancava ancora un’ultima carta: un documento che attestasse l’identità della figlia, senza il quale Alua per legge non poteva essere rimpatriata.
“Per l’ambasciatore Andrian Yemelessov, che in quei giorni è di casa al Dipartimento di Pubblica Sicurezza – continua Repubblica -,, è un problema: l’intera operazione può andare a monte. Negli archivi del ministero kazako infatti Alua non risulta, non c’è, perché è nata a Londra.
Succede qualcosa, e dopo poche ore, i funzionari della Questura di Roma si ritrovano sul tavolo un documento spuntato dal nulla: il certificato di ritorno numero 0007492, intestato ad Alua Ablyazova “cittadina della Repubblica del Kazakhstan “, valido solo per un giorno, fino al primo giugno. Con tanto di foto a colori della bambina e timbro kazako. Ora c’è tutto. Con quello, Alua può essere espulsa. E con lei la madre, che a quel punto – siamo a ridosso del volo già programmato da Ciampino – non può fare più niente.
Ma la mano dei “nostri” ha lasciato delle tracce, in quel certificato. Che già a una prima occhiata doveva far sollevare qualche sopracciglio: attesta falsamente (nella parte tradotta in inglese) che Alua è nata in Italia il 7 febbraio 2007. Ma è la foto a parlare, molto di più. Perché – stando alla perizia che il legale Astolfo di Amato, difensore di Madina, una delle figlie di Ablyazov, ha commissionato a un esperto di grafica – è copiata, con uno scanner, direttamente dal passaporto centrafricano di Alma Shalabayeva, nelle cui pagine finali c’era la foto della figlia Alua. Proprio il passaporto trovato la sera del blitz nella villa di Casal Palocco, custodito dalla polizia e messo sotto sequestro.
Chi lo ha dato ai kazaki? E perché? Scrive il perito, Fabio Pisterzi: “Le foto di Alua sui due documenti derivano dallo stesso scatto. Quella sul certificato di ritorno però è ritoccata: una parte del colore della pelle appare uniforme in modo anomalo sotto il mento. Un effetto del genere può essere effetto di un’operazione di “cleaning” con Photoshop. Si nota che la zona ritoccata è esattamente quella in cui c’era il timbro nel passaporto centrafricano”. La foto, dunque, è manipolata. In modo frettoloso, con un lavoro che non deve essere durato più di un paio d’ore.”
Belle domande. A prescindere da chi eventualmente si è prestato a compiere materialmente tutta una serie di reati dei quali sarebbe necessario capirne a monte la ragione, può esserne assolto moralmente colui che è a capo di quel dicastero e che si giustifica dicendo di non aver saputo nulla? E se domani le nostre forze armate invadessero un altro paese, il Ministro della Difesa potrebbe avvalersi della stessa giustificazione?
Escludendo il dolo, resta tutta l’incapacità di un Ministro che forse all’epoca era troppo impegnato – come dice qualcuno – a far da cameriere a Berlusconi per potersi dedicare ad altro.
Chissà se Letta dopo i fatti odierni, ripensando a quando venne votata in Senato la mozione di sfiducia proposta dal M5S e SEL nei confronti del ministro dell’Interno, non abbia valutato quanto improvvido sia stato l’aver dichiarato: “esce inoppugnabile il mancato coinvolgimento dei vertici del governo ed emerge in modo chiaro in particolare l’estraneità del ministro dell’Interno all’accaduto”.
Gian J. Morici