L’uomo, in quanto tale, e per sua natura, prova un’infinita serie di sentimenti. Molti sono condivisi con altri soggetti. L’amore, per esempio, è un sentimento per lo più partecipato, spesso ad individui di sesso diverso. Altri sono pubblicamente manifestati come quello della felicità. Ma ve ne è uno che è segreto e spesso rimane nella sfera privata. È un sentimento che a volte ci attanaglia l’anima, senza un giustificato motivo. Il sentimento in questione è la paura. Spesso ci vergogniamo ed evitiamo di condividerlo.
Sfruttando questo sentimento, illustri registri del genere horror, hanno creato dei grandi film, consigliandoci di non aprire quella porta, di stare attanti alla casa, che poi si trasformava nella casa N. 1 e a seguire La Casa N2 e via dicendo. Ci hanno messo in guardia dagli squali, dai lupi mannari, dagli Zombi, dai morti viventi, dagli esorcisti, dagli uccelli e dai bambini, dal profondo rosso e dall’oscurità della notte di Nightmare.
Ma il destino, già tanti secoli fa, aveva cominciato a creare una storia di terrore che è giunta a noi e che ebbe il suo preludio alla fine del settecento. Il destino, a differenza dei registi, per metterci paura, non aveva bisogno di effetti speciali, zampilli di sangue o impressionanti atmosfere. Il destino le sue storie dell’orrido le riesce a creare anche in una città solare come Palermo, e in un quartiere colorato come quello della Zisa. Perché lo abbiamo detto prima, la paura è un sentimento che non ha una base logica e spesso sfrutta la nostra ignoranza.
In quella Palermo di fine settecento c’è una donna vecchia e brutta. La popolana è povera, ma ha una dote importante, sa leggere e la nonna le ha lasciato in eredità dei libri. Lei quei libri li aveva letti avidamente, imparando, tra l’altro, come ingannare la gente sciocca e superstiziosa che la circondava. Per anni si guadagnò da vivere vendendo pozioni d’amore, intrugli, filtri per risvegliare la virilità o per annullare il malocchio.
La fattucchiera è ben voluta nel quartiere, ma i suoi servizi non le permettono una vita agiata. Il prologo di questa storia criminale avviene nel 1786. La donna, che gira in lungo e largo il suo quartiere, viene a conoscenza di una bambina che, involontariamente, ingerisce aceto per pidocchi. La bimba sta male per diverse settimane, ma si salva, e la vecchia scopre che a causare la malattia è stato proprio l’ingerimento di aceto per pidocchi. La megera, ma come diremo meglio noi siciliani la magara, pensa di unire a quella sostanza dell’arsenico e del vino bianco e confezionare così un insidioso e mortale veleno.
Ma chi poteva essere interessato a usare il veleno? E chi si poteva uccidere con quell’infuso micidiale? Coloro che hanno nozioni di criminologia sanno bene che l’avvelenamento è uno dei metodi omicidiari più usati dalle donne, soprattutto mogli, che si vogliono sbarazzare definitivamente di mariti scomodi, a volte anche violenti. Le mogli e le compagne preparano regolarmente il cibo per i propri uomini e quale migliore occasione per poter aggiungere del veleno nelle pietanze? Il veleno, realizzato della vecchia megera, si può confondere facilmente con l’aceto che condisce l’insalata.
Ed è proprio l’insalata che mangia la prima vittima del veleno dell’aceto. Una donna ha già deciso, vuole liberarsi definitivamente del marito, per potersi dedicare interamente al suo amante. Questa potenziale assassina è una vicina di casa della vecchia dell’aceto. La moglie la prima volta che fa ingoiare il veleno al marito, con l’inganno, non riesce a ucciderlo. Il poveretto viene accompagnato in ospedale, vittima di lancinanti dolori al ventre. La vecchia dell’aceto, allora, tara meglio l’infuso velenoso e finalmente riesce a confezionare una pozione mortale. I medici in quel periodo non conosco ancora gli effetti dannosi dall’ingerimento di arsenico. La prima vittima cessa di vivere e nessuno riesce a comprendere le cause di quella misteriosa morte.
Di morti misteriose, nella seconda metà del settecento, nel quartiere della Zisa di Palermo ne avvengono tante. Le vittime, sono tutti uomini, che prima di essere colti da lancinanti dolori allo stomaco, godono di ottima salute. Il promo della lista dei deceduti è un fornaio, la cui moglie era diventata insofferente e pagò anche un premio extra; poi un nobile, colpevole di aver dilapidato il patrimonio familiare; poi ancora un altro fornaio, la cui moglie sospettava di essere tradita, poi ancora un tale che costituiva elemento di disturbo tra la propria moglie e il giardiniere.
La paura si diffonde nel quartiere palermitano. Il destino sembra giocare con la sorte di uomini senza che si possa comprendere il motivo di quelle strane morti. Lo abbiamo detto prima, la paura è un sentimento che si insinua e serpeggia dentro la nostra anima a volte se ne impossessa. La paura ha due alleati d’acciaio si chiamano ignoranza e superstizione e si diffonde a macchia d’olio tra la gente, tanto da farla vivere nel terrore e nell’incertezza.
Ma come nei migliori thriller avviene sempre un colpo di scena, e il destino che confeziona storie vere non poteva farcelo mancare. Giovanna Bonanno, che rimarrà famosa nella storia come la vecchia dell’aceto, commette un errore. La vecchia magara si avvale come procacciatrice di clienti di una sua amica, Maria Pitarra, alla quale un giorno consegnò una dose di “aceto” senza informarsi su chi fosse il destinatario. Venne a sapere che la vittima era il figlio di un’altra sua carissima amica, ma era troppo tardi per rimediare.
L’amica della vecchia dell’aceto si chiamava Giovanna Lombardo. Questa, quando scoprì che era stata proprio la nuora a commissionare la pozione per avvelenare il marito, immediatamente tramò la vendetta. Finse di voler comprare una dose di “aceto” e, al momento della consegna, si presentò con quattro testimoni, cogliendo in flagrante la Bonanno. La vecchia fu arrestata e rinchiusa in cella in attesa di giudizio.
Nell’ottobre del 1788, davanti alla Regia Corte Capitaniale di Palermo, iniziò il processo a Giovanna Bonanno per stregoneria, dove furono chiamati a testimoniare i coniugi superstiti di sei avvelenamenti, si trattava solo di quelli scoperti e denunciati. Anche il droghiere che vendeva sistematicamente l’aceto per i pidocchi alla Bonanno testimoniò contro di lei. La condanna riportata in primo grado fu confermata dal Tribunale della Gran Corte. Il 30 luglio 1789 l’avvelenatrice pendeva dalla forca.
Ma se pensate che la vicenda sia finita il 30 luglio 1789, con l’impiccagione della vecchia dell’aceto, vi state sbagliando. L’episodio rimane negli annali storici della Sicilia, viene riportato da illustri studiosi e scrittori e giunge sino a noi. Sembra incredibile, ma ancora oggi quella storia, scritta dal destino tre secoli fa, continua a fare paura. Infatti quando ero piccolo, affinché non mi avvicinassi ai pozzi o non andassi in un posto, mia nonna mi diceva: “duna cura ca di dda nesci a vecchia di l’acito.”
Non so voi ma io, anche se non riesco a capire il perché, ho ancora paura.